Arte dell’educazione: antropologia
L’ “Antropologia” di Rudolf Steiner è il corso fondamentale della pedagogia waldorf. L’autore ha inteso iniziare un’antropologia che possa servire per un’arte dell’educazione che, riunendo scienza, arte e religione, possa ridare vita a tutta la scuola, proponendo una nuova educazione e un nuovo insegnamento per il futuro dell’uomo.
In questa sezione proponiamo la trascrizione di un corso di studio tenuto da Lucio Russo.
Ringraziamo il signor Francesco Giorgi, redattore del sito www.ospi.it per la gentile concessione.
ANTROPOLOGIA 1° incontro
Cominciamo col dire che questo ciclo di quattordici conferenze, nato (nel 1919) come “corso pedagogico” per gli insegnanti (in occasione della fondazione della Libera Scuola Waldorf), dovrebbe interessare non solo gli educatori, gli psicologi o i medici, ma chiunque avverta l’esigenza di conoscere realmente se stesso. Se è comprensibile, infatti, che non tutti s’interessino, che so, di botanica, di chimica o di fisica, è difficile al contrario immaginare che qualcuno possa non interessarsi di antropologia: vale a dire, della conoscenza (scientifica) di sé. Tanto più che il nostro modo di giudicare la realtà implica sempre – come sottolineato ad esempio da Viktor Frankl (psichiatra e fondatore della “logoterapia”) – un qualche presupposto antropologico o una qualche immagine dell’uomo.
Tale presupposto, quando è incosciente, è però un pregiudizio. Un presupposto cosciente lo si può infatti discutere, riesaminare ed eventualmente modificare, mentre uno incosciente s’impone come un dogma.
In campo antropologico, il più diffuso e deleterio di questi pregiudizi è costituito dall’idea che l’uomo sia un “animale intelligente”.
Chiunque non voglia rinunciare allo spirito scientifico, ma non voglia al contempo accontentarsi di sapere “che animale è” (“che pesce è”), non può pertanto far altro che rivolgersi all’antroposofia: ossia, all’unica scienza in grado – come dice Steiner – di dare all’uomo “coscienza della sua umanità”.
Dice Steiner: “All’inizio di questa nostra attività preparatoria, vogliamo anzitutto considerare il modo migliore di stabilire, fin nei particolari, un collegamento con le potenze spirituali che in certo modo hanno affidato a ciascuno di noi il mandato di questo lavoro. Queste parole iniziali vanno perciò considerate come una specie di preghiera alle potenze spirituali che staranno dietro di noi mentre ci assumiamo questo compito” (p. 17).
Affrontare un compito nel modo giusto, significa affrontarlo con lo spirito giusto, e affrontarlo con lo spirito giusto significa entrare in comunione, nell’anima, con lo spirito giusto (con lo Spirito di Verità).
Sappiamo che tutto il nostro impegno, nello studio e nell’esercizio interiore, è volto a raggiungere questo fine: a riallacciare cioè un rapporto con quel mondo spirituale dal quale, di norma, ci troviamo tagliati fuori.
Non è stato sempre così. Un tempo, l’uomo era nello spirito, e non era perciò libero. Al momento della caduta (del cosiddetto “peccato originale”), egli è stato però espulso dal mondo spirituale. Reciso il cordone ombelicale che lo univa a quel mondo, si è venuto allora a trovare in un regno nel quale lo spirito lo ha rimesso a se stesso e alla sua coscienza, e non lo domina più, come continua invece a fare con la natura.
In quanto libero, l’uomo può però tanto riallacciare (in forma nuova) l’originario legame, quanto smarrirsi o perdersi.
Steiner rivolge dunque un appello alle “potenze spirituali”, poiché intraprendere una iniziativa “per il bene del mondo” vuol dire agire con “spirito di servizio”, e quindi con una disposizione animica caratterizzata da una (extraordinaria) sintesi di libertà e volontà di servizio, di gioia e sacrificio di sé.
Gli spiriti luciferici sono infatti in grado di dare (a modo loro) la libertà e la gioia, ma non la volontà di servizio e del sacrificio di sé, mentre quelli arimanici sono in grado di dare (a modo loro) la volontà di servizio e del sacrificio di sé, ma non la libertà e la gioia.
Dice Steiner: “L’epoca in cui viviamo attualmente cominciò alla metà del secolo XV; e solo oggi, dai sostrati spirituali, sorge in certo modo la conoscenza di ciò che in quest’epoca è da farsi nei riguardi dell’educazione umana. Finora gli uomini, anche quando si sono posti i problemi pedagogici con la migliore volontà del mondo, lavorarono sempre con metodi dell’educazione antica, della quarta epoca postatlantica dell’evoluzione. Molto dipenderà dal fatto che noi, sin dall’inizio, impariamo a comprendere che dobbiamo dare al nostro lavoro un determinato indirizzo adatto all’epoca nostra; non già perché esso debba avere un valore universale per tutta l’evoluzione umana, ma perché è quello precisamente richiesto dai bisogni della nostra epoca” (p. 19).
Una sana (santa) volontà di servizio rende anzitutto un servizio allo Spirito del tempo: nel caso specifico, allo Spirito della quinta epoca post-atlantica, dell’anima cosciente o della modernità.
Dal momento che ogni processo evolutivo implica delle fasi, il problema di ciò che è opportuno o inopportuno fare (non solo, ovviamente, in campo educativo) non può venir posto in modo generico o astratto. E’ bene fare, infatti, ciò che richiede la fase di sviluppo che si sta attraversando, ed è male, sia continuare a fare quanto si era fatto durante una fase precedente, sia anticipare quanto dovrebbe essere fatto solo in una fase successiva.
Come si vede, il male nasce anche dall’anacronismo.
E che cosa ci chiede il nostro tempo? Quali sono i suoi particolari impulsi? Teniamo ben presente che questi, per poter venire alla luce, hanno bisogno di noi. Premono infatti quali forze nell’inconscio, ma non possono venire alla luce da soli (per non violare, così, la nostra libertà). Per potersi (creativamente) realizzare devono perciò attendere che l’uomo integri saggiamente la loro forza con la loro forma: cioè a dire, la loro essenza volitiva con la loro essenza di pensiero (che l’uomo deve ricercare e scoprire).
Abbiamo iniziato parlando di antropologia. Bene, se studiassimo botanica ci guadagneremmo una scienza o una coscienza degli esseri vegetali, mentre studiando antropologia ci guadagniamo una scienza o una coscienza dell’essere umano; dal momento, però, che siamo esseri umani, guadagnandoci tale scienza o coscienza, ci guadagniamo al tempo stesso un’autocoscienza.
Ogni questione antropologica è dunque una questione di autocoscienza. E può forse, l’uomo, prendere coscienza di sé, della natura spirituale del proprio Io, se gli si continua a insegnare – come si fa oggi – che è soltanto un “animale intelligente”?
Mi è capitato di leggere, poco tempo fa, che Giacomo Casanova (1725-1798), il celeberrimo tombeur de femmes, amava dire che avrebbe creduto allo spirito se questo fosse stato in grado di dargli lo stesso piacere che gli davano i sensi. Ma come dalla foto di una femme non si può di certo ricavare lo stesso piacere che si ricava dall’incontro con una femme reale, così dall’ordinaria rappresentazione (astratta) dello spirito non si può ricavare la stessa gioia che si ricava dall’incontro con lo spirito reale.
Può essere interessante notare che Casanova era un uomo del Settecento: cioè a dire, un uomo del secolo dei “lumi”, ma anche delle “luci rosse”. Per convincersene, basti pensare al Marchese de Sade e al suo Justine o le sventure della virtù, o ancor più a Denis Diderot, che pubblica tanto la dotta Encyclopédie quanto il licenzioso I gioielli indiscreti. Da un lato dunque i “lumi”, dall’altro le tenebre: ovvero, da un lato la ratio algida e astratta, dall’altro la libido focosa e concreta.
E si può forse sperare che una ratio di tal genere (del genere, ad esempio, di quella di Voltaire) possa venire felicemente e umanamente a capo di una forza che, lasciata a se stessa, può possedere l’ego e spingerlo verso l’animalità? No, di certo.
Solo una viva e piena esperienza della realtà (calda e luminosa) dello spirito potrebbe infatti consentirci di rimettere a posto le cose. Ho detto a bella posta: “rimettere a posto le cose”, perché al mondo c’è posto per tutto (vale a dire, per il logos, per il pathos e per l’eros).
Ciò che non va, ciò che genera il male, è solo il dis-ordine (il caos).
Ricordiamolo: le entità ostacolatrici non sono entità creatrici; non possono perciò creare, ma possono mettere in dis-ordine il creato, tanto da arrivare ad alterare, quando non a rovesciare, la cosiddetta “scala (o gerarchia) dei valori” (recita il Prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta”).
L’anacronismo è dunque un dis-ordine; e affrontare i problemi posti dalla modernità con gli strumenti fornitici, in passato, dall’anima razionale o affettiva (la cui fase evolutiva è terminata nel 1413 d.C.) è per l’appunto anacronistico.
Viviamo nell’epoca dell’anima cosciente, e questa esige che si affrontino i problemi (in primo luogo quello di riallacciare un vivo rapporto con il mondo spirituale) con spirito scientifico (scientifico-spirituale).
Molti ancora s’illudono, invece, di poterli affrontare e risolvere con i vecchi arnesi della filosofia, della teologia o dell’umanesimo astratto. Emanuele Severino, ad esempio, sostiene (a ragione) che tutti questi mezzi si dimostrano impotenti a fronteggiare o arginare il sempre più crescente potere della “tecnica” (della téchne). Ma in tanto si dimostrano tali in quanto questo strapotere (dis-umano) costituisce – checché ne pensi Severino – un fenomeno radicalmente nuovo. E come si potrebbe dominare un fenomeno così nuovo con strumenti ormai obsoleti, quali, ad esempio, la filosofia greca, il diritto romano, il tomismo, la metafisica scientista e materialista, se non addirittura il “ritorno a Parmenide”, come auspicato (a torto) da Severino?
Fatto si è che l’anima razionale o affettiva ancora spadroneggia: teorizza, elucubra, discetta, predica e dibatte, ma si rivela del tutto incapace di risolvere sul serio i problemi. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che non è un’anima “pratica”. Dal punto di vista umano, “pratica” non è infatti la cultura “classica” (luciferica), che esalta l’uomo mortificando la tecnica, e “pratica” non è la cultura “scientifica” (arimanica), che esalta la tecnica mortificando l’uomo.
“Molto – dice Steiner – dipenderà dal fatto che noi, sin dall’inizio, impariamo a comprendere che dobbiamo dare al nostro lavoro un determinato indirizzo adatto all’epoca nostra; non già perché esso debba avere un valore universale per tutta l’evoluzione umana, ma perché è quello precisamente richiesto dai bisogni della nostra epoca”.
Ci viene dunque chiesto di farci da parte, per fare largo ai “bisogni dell’epoca” (dice appunto il Battista: “Bisogna che egli cresca ed io diminuisca”). Per far questo, non c’è bisogno di mortificare la carne o d’indossare il cilicio, basta aprire la propria anima, attraverso la conoscenza, alle necessità del mondo, del tempo e dell’evoluzione. Ciò che occorre, in altre parole, è riuscire a volere (da Io) ciò che vuole lo Spirito del tempo (che non è ciò ch’è trendy o “alla moda”), tanto da poter arrivare a dire: “Sia fatta la Tua volontà”. Ci si deve però arrivare liberamente, e soltanto per amore. Superfluo ricordare che prima di poter pronunciare parole del genere, tale Spirito lo si deve imparare a pensare e a conoscere.
Dice Steiner: “Il materialismo ci ha portati a perdere, tra l’altro, anche ogni coscienza dei compiti tutti speciali di un’epoca speciale; ed è invece importantissimo che, come prima cosa, ci rendiamo chiaramente conto di questa verità: che ogni epoca ha i suoi compiti particolari da assolvere. I fanciulli che vi verranno affidati avranno già raggiunto una certa età; non dimenticate perciò che, prima che voi ne assumiate l’educazione e l’istruzione, essi saranno per lo più passati per l’educazione, e spesso anche per la mal-educazione, da parte dei loro genitori (…) Dedicandoci al nostro lavoro, non dimentichiamo che tutta la cultura contemporanea, fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa, è basata sull’egoismo dell’umanità, è indirizzata verso l’egoismo degli uomini” (p. 19).
Pensiamo, ad esempio, alla nascita della filosofia. Partendo dai cosiddetti pre-socratici (Pitagora, Eraclito, Parmenide, ecc.), attraverso Socrate e Platone, giungiamo ad Aristotele.
Ebbene, che cosa vediamo realizzarsi in questa successione? E’ presto detto: il passaggio dall’immaginazione al concetto, e quindi l’approdo, grazie ad Aristotele, a quella logica “analitica” (statica) che è rimasta sostanzialmente invariata fino al giorno in cui Hegel ha varato (seppure in forma ancora astratta) la logica “dialettica” o “speculativa” (dinamica).
E qual è allora il compito del nostro tempo? Quello di passare, superando l’astrazione, all’inverso e scientemente, dal concetto all’immaginazione. Quanti sono partiti, un giorno, dall’immaginazione hanno avuto il compito di partorire il concetto; noi, che partiamo dal concetto (dalla coscienza intellettuale), abbiamo viceversa il compito di partorire l’immaginazione (la coscienza immaginativa).
Per questo, Steiner ha scritto La filosofia della libertà, e per la stessa ragione uso ripetere che non si può capire tale opera se non ci si è portati al di là dell’anima razionale o affettiva.
Ricordate che cosa vi si afferma? Che nel momento in cui pensiamo siamo a tal punto presi dall’oggetto della nostra osservazione, da lasciar passare inosservato il pensare con cui lo pensiamo.
Questo succede, però, solo quando si pensa in modo scientifico-naturale. In tutti gli altri casi, infatti, non si è presi dall’oggetto, ma dal proprio narcisismo o dal proprio egoismo: in breve, da se stessi.
Certo, l’odierno pensiero scientifico riesce a essere “preso” dall’oggetto, e a essere quindi “oggettuale” (come direbbe Freud), solo quando si trova alle prese con la realtà inorganica. Allorché pretende di osservare e studiare, allo stesso modo, la realtà vivente, animica o spirituale, cessa infatti di essere tale, riprende a essere “narcisistico” (come direbbe sempre Freud) e si dà a elucubrare od opinare.
La coscienza oggettiva o rappresentativa dovrebbe essere invece il fondamento (la “roccia”) sul quale edificare, gradualmente, una coscienza superiore (la “casa”). Il cosiddetto “ben dell’intelletto” è in effetti un “bene” (uno dei doni dello Spirito Santo), ma soltanto se lo si utilizza quale base scientifico-naturale per lo sviluppo della coscienza scientifico-spirituale.
Sul piano evolutivo, la coscienza scientifico-naturale ha già dato, però, tutto ciò che poteva e doveva dare, e ove si manchi – come si sta mancando – di perseguire lo scopo per cui ci è stata data, prende allora a corrompersi: a regredire, ad esempio, dall’intelletto realistico all’intellettualismo astratto (nei termini de La filosofia della libertà, dal “realismo ingenuo” al “realismo metafisico”).
Avverte giusto il Cristo, riferendosi a quanti “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
Dice Steiner “che tutta la cultura contemporanea, fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa, è basata sull’egoismo dell’umanità, è indirizzata verso l’egoismo degli uomini”.
Si stia ben attenti a non prendere queste parole in senso moralistico. Non si tratta infatti di una “predica”, ma di una “diagnosi”. L’autocoscienza egoica non è, in realtà, che un’autocoscienza provvisoria. Steiner ha più volte parlato dell’ego come del “veicolo dell’Io”: come cioè di una realtà il cui compito è appunto “veicolare” (sul piano psico-fisiologico) l’attività di quell’Io spirituale che (non dimentichiamolo) veicola, a sua volta la forza del Logos.
La “prova” (evolutiva) dell’ego è dunque importante, e non ci s’illuda di poterla evitare. Scaligero ha appunto detto: “Nessuno può diventare un Io, se prima non è stato un ego” (ch’è come dire che nessuno può diventare il Soggetto della coscienza scientifico-spirituale, se prima non è stato il soggetto di quella scientifico-naturale).
Sarebbe bene altresì ricordare che è stata necessaria una sofferta e lunga lotta per permettere all’ego (all’individualismo moderno) di affermarsi. Se un tempo si è dovuto lottare per far venire alla luce l’ego, oggi si deve pertanto lottare perché, dal seno stesso dell’ego, venga alla luce l’Io (il “Sè spirituale”).
Sappiamo che l’Io si manifesta sul piano fisico, sul piano eterico e su quello astrale, e che l’ego non è che il risultato della prima (e più bassa) delle sue manifestazioni. “Grande” è dunque l’ego, in quanto manifestazione dell’Io; “piccolo” è dunque l’ego, in quanto sua manifestazione finita (psicofisica).
Vediamo però adesso il perché la cultura contemporanea è basata sull’egoismo, “fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa”.
Dice Steiner: “Si guardi, ad esempio, un problema che afferra l’uomo fin nel profondo, il problema dell’immortalità. Persino la predicazione religiosa sviscera questo problema in modo da toccare negli uomini la corda del loro egoismo. E’ infatti l’egoismo che suscita in essi il desiderio di non perdere il proprio essere nel varcare le porte della morte, ma di conservare in pieno il proprio io. A tale egoismo, per quanto raffinato, fa appello oggi, in larga misura, anche ogni confessione religiosa, nei riguardi dell’immortalità, parlando agli uomini in modo da far dimenticare per lo più uno dei termini della vita umana, per mettere in rilievo l’altro, da concentrare cioè l’attenzione sulla morte, dimenticando la nascita” (pp. 19-20).
E’ in effetti impossibile risolvere il problema della vita dopo la morte senza risolvere quello della vita prima della nascita. E’ quindi segno di egoismo pre-occuparsi (magari angosciosamente) di quel che sarà, senza occuparsi per nulla di ciò che è stato.
Non è difficile capire che la cosa riveste particolare importanza per l’educazione.
Dice Steiner: dobbiamo divenire coscienti del fatto che “la vita fisica quaggiù è una continuazione della vita spirituale, e che, con l’educazione, abbiamo da proseguire ciò che entità superiori hanno compiuto sino allora senza l’opera nostra. Solo la consapevolezza che la nostra azione sull’essere umano in formazione dev’essere il proseguimento di ciò che entità superiori hanno fatto prima della nascita, darà alla nostra opera educativa l’intonazione giusta” (p. 20).
Ogni volta che nasce un bambino, prende a vivere sulla Terra un Io che ha appena abbandonato il mondo spirituale (“Mi percepivo – scrive Nikolaj Berdjaev, nell’autobiografia – come un essere non proveniente da “questo mondo” e incapace di adattarsi a “questo mondo””), così come ogni volta che muore un uomo, prende a vivere nel mondo spirituale un Io, che ha appena abbandonato la Terra. Nascita e morte sono solo perciò due momenti (per quanto cruciali) del nostro incessante divenire.
Ricordiamoci che il corpo eterico e il corpo fisico sono corpi intessuti, rispettivamente, di tempo e di spazio: che sono cioè corpi, per così dire, “esistenziali”. Un Io che si trasferisce, con la nascita, dalla sfera dell’essere in quella dell’esistere entra pertanto nel tempo e nello spazio, mentre un Io che si trasferisce, con la morte, dalla sfera dell’esistere in quella dell’essere ne fuoriesce.
Dice Steiner che “solo la consapevolezza che la nostra azione sull’essere umano in formazione dev’essere il proseguimento di ciò che entità superiori hanno fatto prima della nascita, darà alla nostra opera educativa l’intonazione giusta”. Il che equivale a dire che solo tale consapevolezza ci permetterà di educare con lo spirito “giusto”.
Qual è infatti il maggior pericolo? Che l’ego, pur di non rinunciare a se stesso (pur di non “perire e divenire”, direbbe Goethe), prenda ad imitare o scimmiottare l’Io (di cui ha sentito parlare). E da che cosa si può riconoscere (non solo in campo educativo) un ego che imita o scimmiotta l’Io (come pare faccia il “diavolo”, che appunto per questo è stato detto “la scimmia di Dio”)? Per esempio dal fatto che, se è tipologicamente “nevrastenico”, conosce la croce, ma non la gioia o la “letizia”, mentre, se è tipologicamente “isterico”, conosce la gioia o la “letizia”, ma non la croce: dal fatto, insomma, che gli è ignoto, in entrambi i casi, quello Spirito che ha detto: “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero”, e che, soprattutto, ha vinto la croce mediante la croce (ha raggiunto la gioia attraverso la sofferenza).
L.R. – Roma, 4 novembre 1999.
ANTROPOLOGIA 2° incontro
Riprendiamo subito a leggere.
Dice Steiner: “Prima della nascita l’essere umano è ancora sotto la protezione di esseri che stanno al di sopra del fisico, e ad essi dobbiamo lasciare il singolo rapporto immediato tra il mondo e l’individuo umano. Perciò l’educazione prenatale non ha ancora nessun compito riguardo al bambino stesso, e può essere solo una conseguenza incosciente di come si comportano i genitori e specialmente la madre (…) Quanto meno si pensa a educare direttamente il bambino prima che esso venga alla luce del sole, e quanto più si pensa invece a condurre se stessi in maniera moralmente giusta, tanto meglio sarà per la creatura. L’educazione può cominciare solamente dopo che il bambino si è veramente inserito nell’ordine cosmico del piano fisico, e cioè quando comincia a respirare l’aria esterna. Quando poi il bambino ha fatto il suo ingresso nel mondo fisico, dobbiamo sapere che cosa significhi veramente questo trapasso dal piano spirituale al piano fisico. Prima ch’egli scenda sulla terra fisica, si stabilisce un primo legame tra il suo spirito e la sua anima; per spirito intendiamo un quid che oggi è ancora totalmente nascosto nel mondo fisico e che l’antroposofia chiama: uomo spirituale, spirito vitale, sé spirituale. Queste tre parti costitutive dell’uomo esistono, in certo modo, nella sfera soprasensibile verso la quale ora dobbiamo cercare di aprirci un varco nel nostro lavoro; e, nel periodo tra la morte e una nuova nascita, noi siamo già in un certo rapporto con esse. La forza che emana da questa triade compenetra l’anima dell’uomo sotto tre aspetti: l’anima cosciente, l’anima razionale e l’anima senziente” (pp. 21-22).
Sappiamo che l’uomo è un Io (uno spirito) che ha un corpo astrale (un’anima), un corpo eterico (una vita) e un corpo fisico, e che va immaginato non come un “punto” (fermo), bensì come un seme o un germe ch’è soltanto all’inizio della sua evoluzione.
La scienza dello spirito insegna infatti che il corpo fisico è frutto dell’evoluzione dell’antico-Saturno, dell’antico-Sole e dell’antica-Luna; che il corpo eterico è frutto dell’evoluzione dell’antico-Sole e dell’antica-Luna; che il corpo astrale è frutto dell’evoluzione dell’antica-Luna; e che l’Io inizia la propria evoluzione sulla Terra, ed è per ciò stesso un “neo-nato”, che ha davanti a sé un futuro tanto esteso quanto esteso è il passato che il corpo fisico ha dietro di sé.
Quale “neo-nato” (quale ego) l’Io deve dunque crescere. Ma può farlo (trasformandosi così gradualmente in “Sé spirituale”, “Spirito vitale” e “Uomo spirituale”), soltanto per mezzo dello sviluppo della coscienza e dell’autocoscienza.
Come l’ego è infatti l’immagine morta dell’Io, restituita dallo specchio fisico (dall’autocoscienza rappresentativa), così il Sé spirituale è l’immagine viva dell’Io, restituita dallo specchio eterico (dall’autocoscienza immaginativa), lo Spirito vitale è l’esperienza qualitativa dell’Io, mediata dal corpo astrale (dall’autocoscienza ispirativa) e l’Uomo spirituale è l’autoesperienza immediata dell’Io (l’autocoscienza intuitiva): ovvero un Io divenuto finalmente e pienamente se stesso.
Dice Steiner che “la forza che emana da questa triade compenetra l’anima dell’uomo sotto tre aspetti: l’anima cosciente, l’anima razionale e l’anima senziente”.
Per capire come la compenetri, occorre tuttavia distinguere le forze (in sé) dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione (aventi per soggetto, rispettivamente, il Sé spirituale, lo Spirito vitale e l’Uomo spirituale) da quelle della coscienza immaginativa, della coscienza ispirativa e della coscienza intuitiva.
La nostra ordinaria attività conoscitiva si serve infatti costantemente delle forze dell’immaginazione, dell’ispirazione e dell’intuizione, ma lo fa inconsciamente. E’ infatti cosciente soltanto della rappresentazione: vale a dire, del prodotto ultimo della cooperazione di queste tre forze.
Ma in qual modo l’Io ci ha permesso di avere coscienza di questo prodotto finale? Elaborando dapprima il corpo astrale, per generare l’anima senziente; elaborando poi il corpo eterico, per generare l’anima razionale (o affettiva); ed elaborando infine il corpo fisico, per generare l’anima cosciente (la coscienza e l’autocoscienza rappresentative).
Allorché l’Io arriva a maturare la coscienza e l’autocoscienza rappresentative, l’evoluzione cessa di essere incosciente e subcosciente, e diviene cosciente: cessa cioè di svolgersi allo stato di sonno e di sogno, per svolgersi allo stato di veglia.
Come il pulcino cresce all’interno dell’uovo e, giunto a un certo punto del suo sviluppo, lo rompe per poter venire alla luce, così l’uomo cresce, nell’anima, dall’interno all’esterno, e rompe il “guscio” soltanto quando raggiunge l’anima cosciente. Muove infatti (dormendo) dall’anima senziente (dall’anima inconsciamente intuitiva), attraversa (sognando) l’anima razionale o affettiva (l’anima inconsciamente ispirativa), e giunge (svegliandosi) all’anima cosciente (all’anima inconsciamente immaginativa): ovvero a quell’anima che, per mezzo dell’apparato neuro-sensoriale, lo mette in diretto contatto col mondo esterno e trasforma le inconsce (o pre-consce) immaginazioni in rappresentazioni finite (“chiare e distinte”).
Come si vede, è in virtù del corpo fisico, e in primo luogo dei sensi deputati ad accogliere gli stimoli esterni, che l’Io si affaccia sul mondo, mettendo così compiutamente a fuoco tanto la coscienza della realtà dell’oggetto quanto quella della realtà di se stesso quale soggetto (quale ego).
Non abbiamo purtroppo il tempo di caratterizzare in modo più dettagliato l’anima senziente e l’anima razionale o affettiva. Basterà perciò ricordare che all’anima senziente dobbiamo, per un verso le sensazioni, per l’altro i sentimenti. Essa infatti confina, in basso, con il corpo senziente e, in alto, con l’anima razionale o affettiva; ed è appunto dove confina con il corpo senziente che ci dà le sensazioni, mentre è dove confina con l’anima razionale o affettiva che ci dà i sentimenti.
Tutto questo dobbiamo naturalmente immaginarlo in modo dinamico: cioè a dire, come un gioco di forze in continua metamorfosi.
Nell’anima razionale o affettiva si affinano i sentimenti (che diventano più indipendenti dalla corporeità), si affina l’attività giudicante (che mette in relazione tra loro i concetti), e prende ad albeggiare la coscienza dell’Io. Come abbiamo spesso ripetuto, l’anima razionale o affettiva è infatti un’anima “filosofica”, attenta soprattutto al concetto, mentre l’anima cosciente è un’anima “scientifica”, attenta soprattutto al percetto (al contenuto della percezione sensibile).
Dice Steiner: “Se poteste scorgere l’essere umano che si appresta a discendere nel mondo fisico, dopo aver attraversato l’esistenza tra la morte e una nuova nascita, riscontrereste l’elemento spirituale or ora caratterizzato, collegato con quello animico. L’uomo, in certo modo, discende come anima-spirito, o spirito-anima, da una sfera superiore, nell’esistenza fisica di cui si riveste. All’elemento animico-spirituale viene portato incontro, qui sulla terra, un altro elemento costitutivo formato secondo i processi dell’eredità fisica: il corpo fisico compenetrato dal corpo eterico” (p. 22).
Dopo la “triade” spirituale e la “triade” animica, consideriamo adesso quella “eterico-fisica” (costituita dall’apparato metabolico e degli arti, dall’apparato ritmico – circolatorio e respiratorio – e da quello neuro-sensoriale).
Abbiamo infatti, da un lato, il corpo astrale e l’Io (gli elementi individuali che discendono, alla nascita, da una “sfera superiore”) e, dall’altro, il corpo eterìco e il corpo fisico (gli elementi ereditari che vengono portati loro incontro, “qui sulla terra”).
Dice Steiner: “Se guardate spassionatamente il bambino appena disceso in questo mondo, vi accorgerete che in lui l’anima-spirito o lo spirito-anima non è ancora veramente congiunto alla corporeità fisico-eterica. E’ missione dell’educazione, intesa in senso spirituale, di far incontrare armonicamente queste due parti costitutive dell’essere umano, di metterle d’accordo” (p. 23).
Per il fatto di nascere attraverso dei genitori, dobbiamo inserirci, quali individui, in un elemento extraindividuale. Le cosiddette “malattie esantematiche”, tipiche dell’infanzia (il morbillo, la varicella, la scarlattina, ecc.), non sono appunto, per la medicina antroposofica, che il segno della lotta condotta dall’elemento individuale (animico-spirituale) per assimilare quello ereditario (eterico-fisico).
Si tratta di una lotta importantissima per l’Io, che viene sulla Terra proprio per conoscere e realizzare se stesso (così da poter poi servire, liberamente, il mondo spirituale). Ove l’educazione non assolva la sua missione, l’Io corre pertanto il rischio di rimanere incistato negli elementi ereditari, e di non riuscire così a scoprire se stesso.
Per conoscere davvero se stessi (l’Io che è colui che è), bisogna infatti scrollarsi pian piano di dosso tutte quelle identificazioni o illusorie identità che (a mo’ di stampelle) svolgono una funzione, per così dire, “pedagogica” durante la prima metà della vita, ma che, nel corso della seconda, rappresentano soltanto un ostacolo.
Dice Steiner: “Dei tre sistemi che costituiscono l’uomo fisico, consideriamo anzitutto quello del ricambio. Esso è strettamente legato, da un lato, alla respirazione; e questa, per quanto riguarda il ricambio, è connessa a sua volta con la circolazione del sangue. Quest’ultima accoglie entro il corpo umano le sostanze del mondo esterno introdotte per altra via, sicché la respirazione, pure avendo funzioni sue proprie, è ugualmente legata, da un lato, col sistema del ricambio. D’altro canto essa è pure legata con la vita neuro-sensoria dell’uomo. Quando noi inspiriamo, esercitiamo continuamente una pressione sul liquido cefalo-rachidiano, che si riversa nel cervello; quando espiriamo, facciamo ridiscendere quel liquido dal cervello nel corpo. Con ciò trasmettiamo al cervello il ritmo della respirazione; sicché questa, congiunta da un lato al sistema del ricambio, dall’altro è congiunta col sistema neuro-sensorio. La respirazione è dunque l’intermediario più importante tra l’uomo che entra nel mondo esteriore fisico, e quest’ultimo. Tuttavia dobbiamo essere coscienti che, all’inizio della vita, non si stabilisce immediatamente la giusta armonia tra il processo dei nervi e dei sensi e quello della respirazione; questa non si svolge ancora nel modo adeguato alla vita fisica, e soprattutto del sistema neuro-sensorio” (pp. 23-24).
La respirazione fa dunque da “intermediaria” tra l’attività della natura, del corpo eterico e del corpo fisico (ereditari), e l’attività animico-spirituale, del corpo astrale e dell’Io (individuali): media, cioè, tra due opposti.
Se esistessero soltanto questi due, avremmo unicamente, da un lato, l’addome e gli arti (centro d’irradiazione dell’attività metabolica) e, dall’altro, la testa (centro d’irradiazione dell’attività neuro-sensoriale). Disporremmo cioè di un polo freddo (quello cefalico) e di un polo caldo (quello addominale), ma non di una zona, per così dire, “temperata” (quella toracica).
E’ in questa zona, infatti, che le attività dei due poli, in virtù dell’alternarsi dell’inalazione e della esalazione, s’incontrano e si armonizzano: mediante l’inalazione, l’elemento animico-spirituale penetra in quello eterico-fisico, e mediante l’esalazione ne riesce.
Dal momento, tuttavia, che “all’inizio della vita – come dice Steiner – non si stabilisce immediatamente la giusta armonia tra il processo dei nervi e dei sensi e quello della respirazione”, in quanto questo “non si svolge ancora nel modo adeguato alla vita fisica, e soprattutto del sistema neuro-sensorio”, c’è bisogno di una corretta educazione.
Il processo respiratorio ha infatti un rapporto, per così dire, “naturale” con quello metabolico, e uno, per così dire, “culturale” con quello neuro-sensoriale. Quest’ultimo, in quanto tale, deve essere perciò educato. Non lo si può però fare correttamente se s’ignorano le caratteristiche del terreno sul quale ci si accinge, pur con le migliori intenzioni, a intervenire.
Ogni intervento educativo può risultare infatti “giusto” o “sbagliato” soltanto in rapporto alla costituzione, al temperamento e al carattere dell’educando.
E’ facile capire, ad esempio, che un allievo di costituzione “longilinea”, di temperamento “melanconico” e di carattere “astenico” o “nevrastenico” (il tipo ”introverso” di Jung) dovrebbe essere educato in modo molto diverso da un allievo “brevilineo”, “collerico” e “isterico” (il tipo ”estroverso” di Jung). In entrambi, non si dà – è vero – “la giusta armonia tra il processo dei nervi e dei sensi e quello della respirazione”, ma mentre nel primo l’inalazione (l’attività neuro-sensoriale dell’organizzazione superiore, animico-spirituale), prevale sull’esalazione (sull’attività metabolica dell’organizzazione inferiore, eterico-fisica), nel secondo si verifica esattamente il contrario.
Sempre al fine di perseguire un’armonizzazione dell’organizzazione superiore con quella inferiore, si dovrebbe tenere inoltre presente che il sonno del bambino non è affatto uguale a quello dell’adulto.
Dice Steiner: il sonno del bambino “è caratterizzato appunto dal fatto di essere diverso da quello dell’adulto, il quale elabora e trasforma ciò che sperimenta durante la veglia. Il bambino no. Quando egli dorme, s’immerge ancora talmente nell’ordine generale del mondo, che non è capace d’introdurvi le esperienze fatte nel mondo esteriore fisico. A questo deve venir portato da una giusta educazione, in modo che le esperienze fatte sul piano fisico possano essere introdotte in ciò che lo spirito-anima, o anima-spirito, compie durante il sonno (…) Così, per cominciare, ogni attività educativa verrà diretta verso una sfera molto elevata: cioè all’insegnamento della giusta respirazione e del giusto ritmo nell’alternarsi di sonno e veglia. Va da sé che per educare e istruire apprenderemo regole di condotta che non mirano direttamente a un allenamento del respiro o del sonno; tutto ciò resterà, per così dire, sullo sfondo. Quelle che apprenderemo saranno regole concrete; ma dovremo soprattutto essere, fino in fondo, coscienti di ciò che facciamo. Quando insegneremo a un fanciullo questa o quella materia, dovremo essere coscienti di agire, in un caso, piuttosto nel senso di far penetrare l’anima-spirito entro il corpo fisico, nell’altro, di far penetrare la vita del corpo fisico nell’anima-spirito” (pp. 25-26).
Non si tratta dunque di “allenare” direttamente il respiro o il sonno del bambino, ma di educarlo in modo tale che quanto facciamo durante la veglia sia in grado di varcare la soglia che divide la sfera del conscio da quella dell’inconscio, e di esercitare così un’azione indiretta sul respiro e sul sonno, tanto da dare loro il giusto ritmo e correggere o risanare eventuali disarmonie tra la vita animico-spirituale e quella eterico-fisica.
Quanto non è in grado (per propria natura o per il modo in cui viene presentato) di varcare tale soglia (come, ad esempio, tutto ciò che è esangue, astratto o intellettualistico) può pertanto “istruire” o “informare”, ma non “educare” o “formare” l’uomo.
Vedete, noi adulti ci nutriamo, durante la veglia, di esperienze terrene (di percezioni e pensieri); nel sonno, le portiamo con noi e continuiamo (senza rendercene conto) a elaborarle, così da ricavarne quei frutti che andranno ad arricchire le nostre capacità.
Basti pensare – come ricorda spesso Steiner – al modo in cui abbiamo imparato a scrivere. Abbiamo cominciato a fare i bastoncini, poi le vocali, poi ancora le consonanti, e infine ci siamo scoperti capaci – non si sa come – di scrivere: “non si sa come”, poiché è appunto durante il sonno che i nostri sforzi diurni si trasformano in facoltà.
Certo, c’è chi si nutre, durante il giorno, più di percezioni che di pensieri (e magari, da homo faber, se ne vanta), così come c’è, al contrario, chi si nutre più di pensieri che di percezioni (e magari, da intellettuale o da maître à penser, se ne vanta). La cosiddetta “esperienza” può dunque prevalere sulla riflessione, allo stesso modo in cui la riflessione può prevalere sull’esperienza. Anche questi, però, non sono che problemi di equilibrio: di equilibrio, appunto, tra la vita animico-spirituale e quella eterico-fisica.
Per il bambino è però diverso, poiché tutto, in lui, è da subito, per così dire, “esperienza” e niente riflessione. E’ proprio questa che siamo chiamati perciò a educare, dal momento che l’altra gode ancora dell’amorevole e saggia guida delle Gerarchie spirituali.
In sostanza, è come se Steiner dicesse: “Lasciate in pace il bambino, nella sua parte eterico-fisica, protetta ancora dagli Dei; impegnatevi piuttosto ad agire, con altrettanta amorevolezza e saggezza, sulla sua parte animico-spirituale”.
L.R. – Roma, 11 novembre 1999
ANTROPOLOGIA 3° Incontro
Abbiamo parlato, la scorsa settimana, della respirazione e del sonno, e abbiamo visto che non si tratta di agire direttamente su queste attività del bambino, ma di educarlo in modo tale che quanto facciamo durante la veglia sia in grado di attraversare la soglia che divide la sfera del conscio da quella dell’inconscio, dal momento che ciò che non è in grado di attraversare tale soglia può “istruire” o “informare”, ma non “educare” o “formare” l’uomo.
Provate a immaginare, ad esempio, cosa accadrebbe se, dopo aver scientemente masticato il cibo, lo trattenessimo in bocca, e non lo affidassimo, deglutendo, a quegli apparati del nostro organismo che, in virtù di tutta una serie di processi di cui siamo normalmente incoscienti, lo digeriscono, in parte assimilandolo e in parte eliminandolo.
Potremmo mangiare a più non posso, e al tempo stesso morire di denutrizione. Quello che non accade con il cibo accade però con l’educazione. E questo spiega a sufficienza come mai le “abbuffate” intellettualistiche (soprattutto se precoci) producano un deperimento, e non un rinvigorimento dell’anima.
Abbiamo anche detto, allo stesso proposito, che il nutrimento animico-spirituale che diamo al bambino può non essere in grado di attraversare la soglia che divide lo stato di veglia da quello di sonno, o per la sua stessa natura o per il modo in cui glielo presentiamo.
Ma c’è di più.
Dice Steiner: “Non sottovalutate l’importanza di ciò che abbiamo detto fin qui, perché non potete essere buoni educatori e insegnanti se guardate soltanto a quello che fate, e non badate molto più a quello che siete. La scienza dello spirito antroposofica ci porta appunto a riconoscere tutto il valore del fatto che l’uomo non agisce nel mondo soltanto per quello che fa, bensì prima di tutto, per quello che egli è. Passa una grande differenza se in una classe entra il maestro A, oppure il maestro B; e questa differenza non dipende solo dall’essere l’uno molto più abile dell’altro nell’applicare gli espedienti pedagogici esteriori; la differenza essenziale, quella che veramente opera nell’insegnamento, sta nella direzione che il maestro imprime ai suoi pensieri durante tutta la giornata, e porta con sé quando entra nella classe. Tutt’altra sarà l’azione esercitata sugli allievi da un maestro che si occupi molto dell’uomo in via di divenire, in confronto a quella che potrà esercitare uno che non ci pensi mai e non ne sappia niente” (p. 26).
Non sarebbe male, in effetti, se nella sala-insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado (ma qualcuno, viste le condizioni in cui versa oggi la scuola italiana, ha preferito definirle “di ogni dis-ordine e de-grado”) venissero scolpite queste parole: “Bada più a ciò che sei, che a ciò che fai”; oppure: “Bada più a ciò che sei, che a ciò che sai”.
Per quel che ne so, nessuno si ripropone però di farlo, poiché è indubbiamente più comodo credere (soprattutto in un mondo “tecnologico” o “tecnocratico” come il nostro) che si possa diventare dei bravi insegnanti semplicemente apprendendo e applicando delle “tecniche” didattiche (“gli espedienti pedagogici esteriori”), che non trasformando in primo luogo se stessi.
Eppure, tanto la psicoanalisi freudiana quanto la psicologia analitica junghiana, nonostante i loro limiti (che non ho mancato a più riprese di mettere in luce), mostrano di aver compreso che la preparazione di uno psicoterapeuta comporta necessariamente che questo si sottoponga a un training (cioè a dire, a un’analisi “personale” e a una “didattica”), e che non si limiti pertanto ad apprendere delle teorie e delle tecniche (come fanno ormai tanti altri).
Con questo non intendo dire – sia chiaro – che tutti quelli che vogliono darsi all’insegnamento dovrebbero essere “psicoanalizzati”; intendo dire, piuttosto, che quanto vale per gli psicoterapeuti che seguono gli insegnamenti di Freud e di Jung dovrebbe valere, a maggior ragione, per gli educatori che seguono l’insegnamento di Steiner; anche se questi, al fine di “badare più a ciò che sono, che a ciò che sanno”, dovrebbero, a differenza di quelli, servirsi dello studio e dell’esercizio interiore.
A questo proposito, sarà bene ricordare che lo studio dell’antroposofia è diverso da qualsiasi altro studio, poiché non si traduce in un mero “sapere”; a patto, naturalmente, che sia vero lo studio e che sia vera l’antroposofia.
Permettetemi di leggervi, al riguardo, due passi di Steiner, tratti, rispettivamente, da Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive e da Formazione di comunità.
Il primo è questo: “Non soltanto per l’esoterista vero e proprio, ma anche per chi vuole accogliere pensieri antroposofici nelle sue forze animiche, sarà importante venire a sapere qualcosa sui mutamenti che l’intera entità umana sperimenta, sia che l’uomo esegua esercizi come quelli indicati nel mio scritto L’iniziazione, oppure come sono brevemente riassunti nella seconda parte della mia Scienza occulta, sia anche perché semplicemente, ma con il cuore e l’anima, si apprendono pensieri antroposofici. L’antroposofia coltivata esotericamente o exotericamente e con serietà, determina nella realtà certi mutamenti nell’organizzazione totale dell’uomo. Mediante l’antroposofia (lo si può affermare con coraggio) si diventa diversi, si trasforma la propria intera struttura umana”.
E il secondo, relativo invece alle varie iniziative che sono nate dall’antroposofia generale, è questo: “Il fatto è che tutte quelle iniziative sono maturate dal terreno madre dell’antroposofia e se ne deve essere memori, anzitutto rimanendo antroposofi; non si può rinnegare il centro, né come insegnante di scuola Waldorf, né come collaboratore del “Kommende Tag”, né come ricercatore, né come medico”.
Vorrei aggiungere, in base alla mia personale esperienza, che tanto meno si corre il rischio di rinnegare il “centro” (che nella citazione appena letta sta per “Società antroposofica”, ma per una “Società antroposofica” in cui viva lo spirito antroposofico) quanto più ci si sforza di comprendere, approfondire e amare La filosofia della libertà. E’ noto infatti che Steiner la considerava non solo la sua opera più importante, ma anche l’opera dalla quale si è sviluppato, come da un germe, tutto ciò ch’è venuto in seguito alla luce quale “antroposofia”.
Ma torniamo a noi.
Dice Steiner: “Prima di ogni altra cosa dobbiamo riconoscere che il nostro primo lavoro pedagogico dev’essere quello di fare qualcosa di noi stessi, affinché una corrente di pensiero, un rapporto spirituale interiore, regni tra il maestro e i fanciulli, e che, entrando in classe, noi pensiamo soprattutto a questo rapporto, più che alle parole da dire, agli ammonimenti da impartire, o alle nostre capacità d’insegnanti. Queste sono tutte esteriorità che certamente dovremo coltivare, ma che non coltiveremo bene senza quel rapporto fondamentale tra i pensieri di cui saremo pervasi ed i fatti che durante l’insegnamento dovranno prodursi nel corpo e nell’anima dei nostri allievi” (p. 27).
In tempi di materialismo, i pensieri che ci pervadono sono in genere di tutt’altra natura. Che cos’è ad esempio un bambino, dal punto di vista materialistico? Il mero e casuale risultato dell’incontro di un ovulo con uno spermatozoo, e quindi un “animale” (uno “psicozoo”) che va opportunamente addestrato per renderlo il più possibile “intelligente” (e “utile”); e che cos’è l’uomo? Secondo L’Encyclopedia Britannica, riferisce desolato Abraham Joshua Heschel, “l’uomo è un ricercatore del più alto grado di comodità con il minimo dispendio necessario di energia” (il testo di Heschel, pubblicato nel 1993 in inglese, con il titolo: Who is man?, è stato ripubblicato nel 2005 in italiano, con il titolo: Chi è l’uomo?, da SE – Studio Editoriale, Milano – ndr).
Fatto sta che come si può essere rovinati (“portati su una cattiva strada”) dalle “cattive compagnie”, così si può essere rovinati dai “cattivi” (falsi) pensieri.
Prudenza vorrebbe, quindi, che non frequentassimo più di tanto (e passivamente) molti dei pensieri che “passa oggi il convento” (l’odierno “conscio collettivo”), e che scegliessimo i pensieri con cui accompagnarci, e dai quali farci “pervadere”, con lo stesso scrupolo o con la stessa cura con cui si scelgono gli amici (“Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei”).
Ove avesse poi ragione Goethe, nel sostenere che “è vero ciò che è fecondo”, dovremmo altresì preoccuparci di nutrire la nostra anima con dei pensieri che siano capaci, in quanto veri e sani, di rinvigorirla, allo stesso modo in cui ci preoccupiamo di nutrire il nostro corpo con dei cibi che non ne compromettano, in quanto genuini e sani, il benessere o la salute.
Oggi prestiamo un’attenzione persino eccessiva alla dieta, e in particolar modo a quella del bambino (ci sono industrie alimentari che si occupano esclusivamente di questo). Ma c’è forse qualcuno che sia altrettanto attento alle “dieta” dell’anima, e, in specie, al suo corretto “svezzamento”? Non credo.
Nessuno avrebbe altrimenti proposto – come purtroppo è stato fatto (riscuotendo per di più largo consenso) – di introdurre i computer nelle scuole elementari. Piaccia o meno, invitare un bambino di sei o sette anni a usare un computer equivale infatti a invitarne uno di pochi mesi a mangiare una bistecca, magari “alla fiorentina”.
Un fatto è certo: il materialismo nasce come una teoria (come un fatto del solo pensare), ma col tempo, nel giro di poche generazioni, si trasforma in uno stato, per così dire, “esistenziale” (ossia in un fatto che coinvolge e sconvolge il sentire e il volere).
Non ci si può improvvisare insegnanti allorché si entra in classe. Dal momento – come sostiene Jung – che “gli inconsci si parlano”, occorre infatti essere “veri”, e non indossare una maschera o svolgere un ruolo. Ciò dipende dal fatto che la verità – lo abbiamo detto tante volte – è un essere, e non una “cosa” (che si possa avere o non avere).
Certo non è facile, ma è quel che si dovrebbe comunque pretendere (per quanto umanamente possibile) da chiunque voglia assumersi la (grave e santa) responsabilità di educare.
Come potremmo, ad esempio, vedere nel bambino un essere (un Io) in divenire, se fossimo rimasti fissati – come per lo più succede – a uno “stato” (a “come mamma ci ha fatto”)?
Intendiamoci, non è che non si sappia che il bambino è un essere che vive nel tempo: è che il tempo lo si sperimenta solo in modo indiretto, attraverso lo spazio (attraverso l’evoluzione del corpo fisico), e non si ha quindi la benché minima consapevolezza delle diverse fasi che scandiscono, qualitativamente (animicamente), il suo trascorrere.
Dovremmo avere ben presente, al riguardo, che la logica dello spazio coesiste, sulla Terra, con la logica del tempo, con la logica della qualità e con quella dell’essenza (dell’Io).
Ascoltate ciò che scrive Steiner, ne La scienza occulta: “Bisogna guardarsi dal pensare all’attuale corporeità fisica dell’uomo quando si parla qui di corpo fisico. Occorre piuttosto distinguere con cura il corpo fisico dal corpo minerale. Per corpo fisico s’intende quello che è dominato dalle leggi fisiche che si osservano oggi nel regno minerale. Il corpo fisico umano attuale, non soltanto è retto da tali leggi fisiche, ma è inoltre compenetrato da sostanza minerale”.
Una cosa, dunque, è il corpo “fisico”, altra quello “minerale”. Il primo è infatti un corpo che si caratterizza per il fatto di essere strutturato e organizzato da particolari leggi, e che, in quanto tale, può rivestirsi o meno di sostanza “minerale” (sappiamo che sull’antico-Saturno, era rivestito appunto di calore; sull’antico-Sole, di aria; sull’antica-Luna, di acqua).
Pensate a un architetto: per progettare un edificio, gli sarà sufficiente conoscere e osservare determinate leggi; per realizzarlo, dovrà necessariamente rivestirlo di cemento e mattoni. Quello realizzato (minerale) è perciò un edificio che può vedere chiunque, mentre quello progettato (fisico) è un edificio che può essere visto, o meglio pensato, soltanto da chi si sia impadronito della logica dello spazio (o – per dirla con Hegel – del “finito”).
Ove si vogliano comprendere gli esseri viventi (il regno vegetale, “progettato” da Dio), occorre però impadronirsi anche della logica del tempo: ossia di quella logica che ha permesso ad esempio a Goethe di afferrare (immaginativamente) il processo della metamorfosi.
Ove si vogliano poi comprendere gli esseri animati (il regno animale, “progettato” da Dio), bisogna allora integrare la logica dello spazio e quella del tempo con la logica della qualità. (Oggi si parla molto, ad esempio, delle cosiddette “intolleranze alimentari”, ma si riflette ben poco sul fatto che in questo fenomeno si ha per l’appunto una manifestazione, seppure sgradevole, della logica della qualità).
Ove si vogliano infine comprendere gli esseri spirituali (il regno umano, “progettato” da Dio), bisogna allora integrare le logiche precedenti con la logica dell’essenza. Sarebbe più corretto dire, tuttavia, che, a questo livello, al posto della logica subentra il logos (l’Io): cioè a dire, il soggetto umano delle logiche (d’ora in avanti, il logos minuscolo indicherà l’Io o l’essenza umana, mentre il Logos maiuscolo – che lo inabita – indicherà l’Io o l’Essere divino: ovvero l’Essere di tutte le essenze).
Afferma Steiner che “prima di ogni altra cosa dobbiamo riconoscere che il nostro primo lavoro pedagogico dev’essere quello di fare qualcosa di noi stessi”.
Anche Goethe, in effetti, si diceva convinto che “per fare qualcosa, bisogna essere qualcuno”. Ma avrebbe potuto limitarsi anche a dire: “Per fare qualcosa, bisogna essere”, e ricordare che “per essere, bisogna divenire”. Recita infatti iI sottotitolo dell’Ecce Homo di Nietzsche: “Come si diventa ciò che si è”.
Dice Steiner: “Tutta la nostra azione d’insegnanti resterebbe manchevole, se non portassimo in noi la coscienza che, nascendo, l’uomo ha ricevuto la possibilità di compiere quaggiù ciò che non gli era più possibile di compiere nei mondi spirituali” (p. 27).
Che cosa significa questo? Significa che la vita sulla Terra serve alla vita nello spirito, così come la vita nello spirito serve alla vita sulla Terra, e che la nostra vita – checché ne pensino i nichilisti – ha quindi senso o significato.
Ho spesso citato, al riguardo, quest’altra affermazione di Nietzsche: “Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come”.
Mi imbattei per la prima volta in questa citazione, allorché lessi Uno psicologo nei lager di Viktor Frankl (Ares, Milano 1998 – ndr); e devo riconoscere che questi ne ha fatto invero tesoro, poiché l’indirizzo psicoterapico da lui fondato, la “Logoterapia”, prende anzitutto in considerazione (a differenza di quelli di Freud e di Jung) La sofferenza di una vita senza senso, e muove Alla ricerca di un significato della vita (sono questi i titoli di due dei più noti e importanti libri di Viktor Frankl).
Tale significato, giunge ad affermare Frankl, deve essere scoperto, e non inventato. Ch’è come dire che la vita (la nostra vita) ha un significato di cui siamo normalmente incoscienti.
Un’affermazione del genere è tuttavia gravida d’implicazioni. Ci si potrebbe infatti chiedere: “Quale significato ha il fatto (perdonate il gioco di parole) che la vita ha un significato?”; “ Dove si trova?”; “Chi glielo ha dato?”; “E quando?”; “E come?”; “E perché?”.
Cercheremmo invano, in Frankl, una risposta a questi interrogativi. Così come invano la cercheremmo in tutti quegli studiosi che ignorano la realtà delle ripetute vite terrene e del karma.
Ricordate quanto scrive Steiner, in Teosofia? “Il corpo soggiace alla legge dell’ereditarietà; l’anima soggiace al destino che si è creato. Questo destino si chiama, con un’antica espressione, il karma. E lo spirito sta sotto la legge della reincarnazione, delle ripetute vite terrene”.
Tutti, per natura, veniamo dunque al mondo con un karma; ma questo è come un tema che ci sia dato da svolgere. Il tema è dato, ma il compito di svolgerlo (più o meno bene) viene affidato alla nostra libertà (al nostro Io).
Se esistesse solo la natura, avremmo perciò il “fato”, e non il karma; se esistesse solo la libertà (lo spirito), ci accadrebbe, invece, quanto è accaduto agli “esistenzialisti”: di sperimentarla e viverla, cioè, come una fonte di angoscia (di Timor et tremor, direbbe Kierkegaard), e non già di gioia e di luminosa speranza.
Abbiamo finito la prima conferenza; la prossima volta cominceremo la seconda.
L.R. – Roma, 18 novembre 1999
ANTROPOLOGIA 4° Incontro
Cominciamo la seconda conferenza.
Dice Steiner: “In avvenire ogni insegnamento dovrà essere fondato sopra una psicologia vera, ricavata dalla conoscenza antroposofica del mondo. Va da sé che in moltissime scuole è stata riconosciuta la necessità di porre ogni istruzione ed educazione su basi psicologiche, e tutti sanno che per esempio la pedagogia herbartiana (Johann Friedrich Herbart, 1776-1841 – nda), in passato largamente estesa, fondava le proprie misure educative sulla psicologia dello stesso Herbart. Ma negli ultimi secoli, e ancor oggi, qualcosa impedì l’affermarsi di una psicologia vera e feconda, e precisamente il fatto che, nell’epoca dell’anima cosciente in cui ci troviamo, non è stato finora raggiunto quell’approfondimento che avrebbe consentito di pervenire a una vera ed effettiva conoscenza dell’anima umana” (p. 29).
Nella nostra epoca, gli unici seri tentativi di “pervenire a una vera ed effettiva conoscenza dell’anima umana” sono stati fatti – a mio parere – dalla psicoanalisi di Freud, dalla psicologia analitica di Jung e, sotto un certo aspetto, dalla logoterapia di Viktor Frankl.
Questi tentativi sono però falliti soprattutto in ragione dei loro rispettivi “presupposti antropologici”: di quello naturalistico e materialistico della psicoanalisi; di quello misticheggiante, paganeggiante e pseudo-esoterico della psicologia analitica; di quello dichiaratamente spiritualistico e veterotestamentario della logoterapia.
In tutti e tre i casi, si è rimasti quindi distanti da una psicologia a misura d’uomo (quella di Freud è infatti a misura di Arimane, mentre quelle di Jung e Frankl sono, seppure in modo diverso, a misura di Lucifero).
Fatto sta che per avere una psicologia a misura d’uomo (“una psicologia vera e feconda”) si devono prendere le mosse dall’antroposofia.
Mi rendo conto che, così dicendo, si corre il rischio di sembrare degli “integralisti”, ma questo dipende semplicemente dal fatto che coloro cui si potrebbe apparire tali non sanno che cos’è, o per meglio dire “Chi” è, l’antroposofia.
Dice appunto Steiner che “in avvenire ogni insegnamento dovrà essere fondato sopra una psicologia vera, ricavata dalla conoscenza antroposofica del mondo”.
La scienza dello spirito (antroposofica) non è infatti una scienza che si occupi esclusivamente dello spirito, ma una scienza che, in virtù della conoscenza spirituale, è in grado di approfondire, vuoi la conoscenza dell’anima, vuoi quella del corpo.
Non mi stancherò mai di ripetere che la scienza dello spirito è una scienza eminentemente “pratica”, e che, proprio per questa sua qualità, ne avremmo oggi urgente bisogno. L’odierna cultura intellettualistica è infatti diventata a tal punto astratta, imbelle e vaniloquente da renderci sempre meno capaci di affrontare con realismo ed efficacia i problemi individuali e collettivi che il nostro tempo ci pone.
Non riusciremo quindi a rimediare a questo stato di cose, se continueremo a ignorare lo spirito o a farvi appello astrattamente (magari illudendoci di poter colmare il vuoto dell’astrazione con il pathos personale).
Dovremmo avere piuttosto il coraggio di ricercare e far nostra una scienza che ci dia modo, come quella antroposofica, di riallacciare il rapporto con la realtà, e di stare con i piedi – e non con la testa – per terra.
Dice Steiner: “I concetti che, nel campo psicologico, nel campo della scienza dell’anima, gli uomini si erano formati prima, partendo dalle conoscenze antiche, della quarta epoca postatlantica, sono ormai ridotti, più o meno, a semplici frasi vuote di contenuto. Chiunque oggi prenda in mano un testo di psicologia o comunque si occupi di concetti psicologici, non vi troverà più nessuna sostanza reale, ed avrà il sentimento che si tratti, in fondo, di semplici giochi di parole” (p. 29).
Sappiamo, avendo studiato La filosofia della libertà, che il pensare è una forza spirituale, e che i concetti sono entità spirituali: che entrambi hanno cioè uno “spessore” o una “sostanza” reale.
La coscienza ordinaria se li rappresenta però piatti e vuoti, poiché è deputata a osservare le loro immagini riflesse (dallo specchio corticale), e non la loro realtà. I concetti di “spirito” e “anima” appaiono perciò piatti e vuoti, mentre appare spesso e pieno (per compensazione) quello di “corpo” (tanto da illudere qualcuno che esista un “io corporeo”).
Stando così le cose, è pertanto fatale che, alla lunga, chiunque “si occupi di concetti psicologici” abbia – per dirla con Steiner – “il sentimento che si tratti, in fondo, di semplici giochi di parole”.
Dice Steiner: “Potete sfogliare quanti testi volete, di psicologia e pedagogia; vi troverete innumerevoli definizioni di “rappresentazione” e di “volontà”; ma non ne troverete una che vi dia un’idea vera di ciò che è la “rappresentazione” e di ciò che è la “volontà”, perché si è del tutto trascurato (naturalmente per una necessità storica) di riallacciare anche animicamente il singolo individuo umano all’intero universo (…) Esaminiamo un po’ quello che si chiama di solito rappresentazione. Non dobbiamo forse sviluppare nei bambini il rappresentare, il sentire e il volere? Dunque dovremo acquistarci noi stessi un chiaro concetto di ciò che è “rappresentazione”. Chiunque osservi spregiudicatamente ciò che nell’uomo vive come rappresentazione, sarà subito colpito dal suo carattere d’immagine. La rappresentazione ha carattere d’immagine, e si illude grandemente chi vi cerchi invece il carattere esistenziale, chi le attribuisce una vera e propria esistenza” (pp. 29-30).
Una cosa, in effetti, è apprendere la definizione di “rappresentazione”, altra osservarne e sperimentarne direttamente il carattere. A meno che non si pensi che apprendere la definizione, che so, di “cavallo” equivalga in tutto e per tutto a montarlo.
Di certo ricorderete che La filosofia della libertà ci presenta la rappresentazione come il risultato dell’interazione del concetto col percetto (col contenuto della percezione): come cioè una sorta di “precipitato” che si “deposita” allorquando alla sostanza (spirituale) del concetto si aggiunge la sostanza “precipitante” (sensibile) del percetto.
Si tratta quindi di un gioco di forze (di una “logodinamica”) che Steiner c’invita a osservare e pensare, e non semplicemente ad apprendere.
Per poter rispondere a tale invito, dobbiamo però educare e sviluppare un pensare dinamico (immaginativo), poiché il pensare statico (deputato a pensare lo spazio) le dinamiche può per l’appunto apprenderle, ma non sperimentarle.
Il pensare deve dunque crescere. Si potrebbe in effetti paragonare la differenza qualitativa che esiste tra l’esperienza del mondo del neonato e quelle del bambino, dell’adolescente e dell’adulto, alla differenza qualitativa che esiste tra l’esperienza del mondo del pensare rappresentativo e quelle del pensare immaginativo, del pensare ispirativo e del pensare intuitivo.
“La rappresentazione – dice Steiner – ha carattere d’immagine, e si illude grandemente chi vi cerchi invece il carattere esistenziale, chi le attribuisce una vera e propria esistenza”. Ma quale differenza c’è allora tra il “carattere d’immagine” della rappresentazione e quello dell’immaginazione (vale a dire, del frutto del pensare immaginativo)? E’ presto detto: che il primo è morto, mentre il secondo è vivo.
Non è cosa da poco. Basti pensare che uno dei principali motivi per i quali Jung prese le distanze da Freud è costituito appunto dal fatto che quest’ultimo confondeva i “segni” (le rappresentazioni morte) con i “simboli” (le immaginazioni vive).
Ascoltate ciò che dice Jung (alla voce “simbolo”), in questo Dizionario di psicologia analitica: “Quei contenuti coscienti che ci danno degli indizi per accedere al retroterra inconscio sono scorrettamente chiamati simboli da Freud. Non sono tuttavia veri simboli poiché, secondo la sua teoria, hanno semplicemente il ruolo di segni o sintomi dei processi subliminali. Il vero simbolo è qualcosa di sostanzialmente diverso e andrebbe inteso come un’idea intuitiva che non può ancora essere formulata altrimenti o meglio”.
Grazie alla scienza dello spirito, possiamo essere però più precisi, e dire: “Il “vero simbolo” è un’idea che si manifesta sul piano immaginativo (eterico), ma non ancora sul piano ispirativo (astrale) e su quello intuitivo (dell’Io)”.
Dice ancora Steiner che le rappresentazioni non hanno un “carattere esistenziale” o “una vera e propria esistenza”. Che cosa significa? Significa che le rappresentazioni, in quanto immagini (morte), non sono che “apparenza”: ovvero, forme prive di sostanza e di forza. Potremmo anche dire – con Hegel – che sono “parvenza”, e quindi, in definitiva, non-essere.
Dice Steiner: “Esse dunque non sono: hanno natura di semplici immagini. Proprio sul finire della precedente epoca d’evoluzione dell’umanità, negli ultimi secoli, è stato commesso il grave errore d’identificare l’esistenza col pensiero come tale: “Cogito ergo sum”. E’ questo un errore massimo che si è posto a capo della concezione moderna del mondo. Effettivamente, in tutta l’estensione del “cogito” non risiede il “sum”, ma il “non sum”; vale a dire che nell’ambito di tutta la mia conoscenza io non sono, ma è solo l’immagine” (pp. 30-31).
Cerchiamo di capire bene questo punto. Abbiamo detto, in precedenza, che la rappresentazione è una sorta di “precipitato” che si “deposita”. Anche sotto questo aspetto ricorda pertanto un cadavere: morendo, abbandoniamo infatti il corpo fisico, e questo appunto “precipita” e si “deposita” in forma di cadavere. Il che implica che il corpo è un “corpo” (ed “esiste”) fintantoché vi siamo dentro, mentre è un “cadavere” (e “non esiste”) allorché ne siamo fuori. Parafrasando Steiner, potremmo perciò dire: “In tutta l’estensione del rappresentare morto (dal quale appunto sto fuori) non risiede il sum, ma il non-sum”.
Un conto, dunque, è avere di fronte a sé od oggettivare le rappresentazioni, altra vivere all’interno dei sentimenti e delle sensazioni. E’ questa, tuttavia, una conditio sine qua non della nostra ordinaria coscienza di veglia. Ove infatti ci sperimentassimo normalmente all’interno delle rappresentazioni, così come ci sperimentiamo normalmente all’interno dei sentimenti e delle sensazioni, le rappresentazioni non sarebbero più rappresentazioni, bensì immagini oniriche.
Risposta a una domanda
La sfera in cui, durante lo stato di veglia, “non-siamo” è quella neuro-sensoriale (cefalica). Nella sfera ritmica (mediana), e vieppiù in quella metabolica (addominale e degli arti), continuiamo invece a “essere”. Ma, non a caso, laddove “non-siamo” siamo coscienti, mentre laddove “siamo” siamo subcoscienti e incoscienti.
Bisogna comunque prestare molta attenzione al fatto che una cosa è il pensare (in sé), altra la coscienza del pensare. Il pensare (in sé) è infatti “essere”, mentre la coscienza che ordinariamente ne abbiamo lo fa apparire come un “non-essere”. Un conto, d’altro canto, è avere a che fare con un gatto, altro avere a che fare con la fotografia di un gatto. E’ assai improbabile, infatti, che questa miagoli, faccia le fusa o graffi.
Purtuttavia, come la fotografia di un gatto, per quanto morta, implica o presuppone l’esistenza (o l’essere) del gatto, così la rappresentazione di un’idea, per quanto morta, implica o presuppone l’esistenza (o l’essere) dell’idea.
Dice Steiner: “Dobbiamo rappresentarci che anche nell’attività pensante non abbiamo che un’attività immaginativa. Dunque tutto ciò ch’è movimento nel rappresentare è movimento di immagini. Ma le immagini devono essere immagini di qualche cosa, non possono essere solamente immagini “in sé”. Se riflettete al paragone con le immagini nello specchio, potrete dirvi: è vero che le immagini appaiono nello specchio, ma tutto ciò che in esse risiede non è dietro lo specchio, risiede altrove, indipendentemente da esso; e per lo specchio è indifferente ciò che in esso si rispecchia. Se, proprio in questo senso, sappiamo che la nostra rappresentazione è immaginativa, si tratta di chiederci: di che cosa è essa l’immagine? Naturalmente nessuna scienza esteriore risponde a questo problema; solo la scienza dello spirito antroposofica può rispondervi. La rappresentazione è l’immagine di tutte le esperienze da noi avute prima della nostra nascita, o meglio prima della concezione” (p. 31).
Ogni immagine (morta o viva che sia) non si regge dunque su di sé, ma è sempre immagine di un qualcosa. Proprio per questo, Jung non ha dato alle “immagini archetipiche” un valore, per così dire, “ontologico”, ma le ha considerate quali manifestazioni (simboliche) dei cosiddetti “archetipi in sé”.
Dice Steiner che “la rappresentazione è l’immagine di tutte le esperienze da noi avute prima della nostra nascita, o meglio prima della concezione”. Ciò vuol dire che la rappresentazione rimanda al passato. Al passato prossimo (alla vita prenatale), però, e non a quello remoto (alle vite terrene precedenti).
Occorre qui evitare, più che mai, dei fraintendimenti. Che cosa intende affermare Steiner? Che la nostra rappresentazione del presente è condizionata normalmente dal passato, o, per essere più chiari, che, di norma, ci rappresentiamo le esperienze della presente vita terrena nelle forme determinate dalla nostra vita prenatale.
Come dobbiamo stare perciò attenti a non confondere l’”attività immaginativa” di cui parla qui Steiner con quella (superiore) della coscienza immaginativa, così dobbiamo stare attenti a riferire al passato (alla vita prenatale), non i contenuti delle rappresentazioni (che originano – secondo La filosofia della libertà – dalla presente attività percettiva), quanto piuttosto l’attività che dà loro forma (quot capita tot sententiae).
Poco più avanti, Steiner dice infatti: “Nelle nostre rappresentazioni, abbiamo rispecchiata l’attività esercitata dalla nostra anima, prima della nostra nascita o della concezione, in un mondo puramente spirituale” (p. 32 – corsivo nostro).
In breve, dobbiamo riferire al passato il rappresentare, e non il rappresentato.
Fatto si è che tra i molteplici equilibri che siamo chiamati incessantemente a creare e ricreare (nel presente), vi è anche quello tra la corrente (eterica) che scorre dal passato verso il futuro e la corrente (astrale) che scorre, viceversa, dal futuro verso il passato.
A chi volesse saperne di più, suggerirei di consultare specialmente la quarta conferenza del ciclo dedicato da Steiner alla “Psicosofia”, pubblicato nel volume dal titolo: Antroposofia – Psicosofia – Pneumatosofia.
Qui ci limiteremo a osservare che il prevalere, in noi, dell’una o dell’altra di tali correnti si rende particolarmente evidente nella “tipologia” (caratteriale).
Non è difficile ad esempio rilevare che, sul presente del tipo astenico (nevrastenico), grava soprattutto il passato (in forma di scrupoli, rimorsi o sensi di colpa), e che il presente del tipo stenico (isterico) è invece attratto soprattutto dal futuro (in forma di ambizioni, desideri o brame).
Laddove prevale il passato (nel tipo astenico), il rappresentare prevale dunque sul volere. Vedremo adesso che laddove prevale il futuro (nel tipo stenico), il volere prevale invece sul rappresentare.
Dice Steiner: “Per la coscienza ordinaria, la volontà è qualcosa di sommamente enigmatico (…) Se cercate quale contenuto gli psicologi assegnino alla volontà, troverete sempre che tale contenuto proviene dal rappresentare e che la volontà, a tutta prima, non ha reale contenuto (…) Ma che cosa è essa, in sostanza? Null’altro che il germe, già insito in noi, di ciò che dopo la morte sarà in noi una realtà spirituale-animica (…) Vi prego di notar bene la differenza tra germe e immagine, poiché un germe è qualcosa di sopra-reale, mentre un’immagine è qualcosa di sub-reale; un germe diverrà una realtà solo più tardi, porta dunque in sé, come disposizione, una realtà futura” (p. 33).
Di questo, parleremo però la prossima volta.
L.R. – Roma, 25 novembre 1999
ANTROPOLOGIA 5° Incontro
Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro leggendo un passo in cui Steiner raccomanda di “notar bene la differenza tra germe e immagine”.
Il germe – spiega – è “qualcosa di sopra-reale” che va verso il futuro (una “potenza” che va verso l’”atto” – nda), mentre l’immagine è “qualcosa di sub-reale” che viene dal passato (un “atto” in cui si è esaurita la “potenza” – nda).
Ma che cosa sono, in realtà, il passato, il presente e il futuro? Sono qualità del tempo (il “colore”, il “profumo” o il “sapore” che gli conferiscono le entità superiori).
Penso ricordiate, a questo proposito, che Steiner, ne L’iniziazione, c’invita (ve lo leggo), a “dirigere l’attenzione dell’anima su determinati processi del mondo che ci circonda; da un canto sulla vita germogliante, crescente e fiorente, e dall’altro su tutti i fenomeni connessi con l’appassire, lo sfiorire e il morire”.
Tanto il nascere o il germogliare, quanto l’appassire o il morire sono processi che si svolgono nel tempo, ma il primo (come Steiner spiega altrove) conferisce al tempo una qualità “solare”, mentre il secondo gliene conferisce una “lunare”.
Una cosa, dunque, è il dipanarsi ininterrotto del tempo (di quel tempo che, a detta di Albert Einstein, “non è nella fisica” e che, a detta di Ilya Prigogine, “precede l’esistenza”), altra sono le qualità che caratterizzano o animano i momenti o le fasi del suo divenire.
Immaginiamo, ad esempio, una circonferenza (non avendo qui una lavagna non possiamo aiutarci con un disegno); tracciamone poi il diametro verticale A-C e quello orizzontale B-D, così da dividerla in quattro archi di cerchio.
La linea continua della circonferenza, rappresentante l’andamento del tempo, è ora suddivisa nei quattro archi A-B, B-C, C-D e D-A, che dobbiamo immaginare come quattro fasi qualitativamente diverse tra loro.
Posto, nel punto A, il momento della nascita e, nel punto C, quello della morte, il primo arco (A-B) rappresenterà la fase che va dalla nascita alla prima metà della vita; il secondo (B-C) quella che va dalla seconda metà della vita alla morte; il terzo (C-D) la fase che va dalla morte alla cosiddetta “mezzanotte cosmica”; il quarto (D-A) quella che va dalla “mezzanotte cosmica” a una nuova nascita (terrena).
Fatto sta che ognuno di noi, sia nel corso della prima metà della vita dopo la nascita (per maturare quale essere terreno), sia in quello della prima metà della vita dopo la morte (per maturare quale essere spirituale) “cresce” e “fiorisce”, mentre, sia nel corso della seconda metà della vita dopo la nascita (per ri-nascere quale essere spirituale), sia in quello della seconda metà della vita dopo la morte (per ri-nascere quale essere terreno), “appassisce” e “sfiorisce”.
L’attività del rappresentare (l’”immagine”), collegata alla vita prima della nascita (al passato), va messa dunque in rapporto con la semicirconferenza A-C, mentre l’attività del volere (il “germe”), collegata alla vita dopo la morte (al futuro), va messa in rapporto con la semicirconferenza C-A. La volontà – afferma appunto Steiner – non è altro “che il germe, già insito in noi, di ciò che dopo la morte sarà in noi una realtà spirituale-animica”.
Se sul piano del tempo abbiamo dunque a che fare con la continuità, e quindi con la metamorfosi, sul piano della qualità abbiamo invece a che fare con l’enantiodromia (con il “rovesciamento nell’opposto”): ad esempio, con una morte (spirituale) che si muta in una nascita (terrena), con una morte (terrena) che si muta in una nascita (spirituale), o con un processo d’incarnazione che si muta in un processo di dis-incarnazione, e viceversa.
Lo abbiamo detto. C’è una logica dello spazio, c’è una logica del tempo, e c’è una logica della qualità; e quest’ultima è per l’appunto caratterizzata dall’enantiodromia (come avevano intuito, sul piano psicologico, Jung e, su quello speculativo, Hegel).
Che cosa significa tutto ciò? Significa che il mondo (spirituale-terreno) è uno, mentre diversi sono i modi in cui noi possiamo entrarvi in rapporto. Siamo noi, infatti, a nascere e morire, a incarnarci e a dis-incarnarci.
Ebbene, in qual modo entriamo in rapporto col mondo, durante la vita tra nascita e morte? In due modi opposti: attraverso il rappresentare (collegato al passato), che ha col mondo un rapporto caratterizzato (etimologicamente) dalla fredda anti-patia, e quindi dalla repulsione; attraverso il volere (collegato al futuro), che ha col mondo un rapporto caratterizzato (etimologicamente) dalla calda sim-patia, e quindi dall’attrazione.
Non è facile, tuttavia, collegare correttamente la volontà al futuro, poiché siamo per lo più portati a figurarcela come una vis a tergo: ossia, come una forza che ci spinge da dietro. Ma non è così.
Dovremmo piuttosto figurarcela simile alla forza della calamita che attrae a sé il ferro. Questa immagine della calamita, apparentemente passiva (perché non si muove), ma in realtà attiva (in quanto attrae), e del ferro, apparentemente attivo (perché si muove), ma in realtà passivo (in quanto attratto) ci permette inoltre di chiarire lo stato in cui ci troviamo nel nostro ordinario volere (nel nostro desiderare o bramare): apparentemente attivi (in quanto muoviamo verso l’oggetto bramato), in realtà passivi (in quanto mossi o attratti da esso).
Laddove agiscono la sim-patia e l’attrazione, viviamo in simbiosi (maggiore o minore) col mondo, mentre laddove agiscono l’anti-patia e la repulsione, lo oggettiviamo.
Dobbiamo quindi all’anti-patia e alla sua capacità di oggettivare il mondo, la facoltà di conoscerlo, rappresentandocelo.
Anche il rappresentare, in quanto modalità (riflessa) del pensare condizionata, al contrario di quella concettuale, dalla vita prenatale, è dunque destino o karma.
Nel ciclo di conferenze, intitolato: Il pensiero cosmico (ripubblicato, nel 2004, dalle edizioni Estrella de Oriente, con il titolo: Pensiero umano e pensiero cosmico – ndr), Steiner spiega, in proposito, che ci si sente portati, che so, al materialismo, al sensismo, al realismo, all’idealismo o allo spiritualismo, non perché si trovi più giusta una concezione, ma perché l’anima è predisposta ad accogliere la luce della costellazione che le corrisponde.
Ogni costellazione (ogni segno dello zodiaco) è infatti in rapporto con una “visione del mondo”, così come ogni pianeta è a sua volta in rapporto con la disposizione animica (gnostica, volontaristica, mistica, ecc.) con cui questa viene vissuta.
Può essere interessante notare che anche il celebre filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers (ignorando, ovviamente, il risvolto cosmico della questione) ha dedicato un’opera alla Psicologia delle visioni del mondo (Astrolabio, Roma 1950 – ndr), distinguendo – al pari di Steiner – le “visioni del mondo”, propriamente dette, dagli “atteggiamenti” (intuitivo, estetico, razionale, ecc.) con cui vengono vissute.
Questa relativizzazione psicologica delle Weltanschauungen (degli “ismi”) non deve sorprendere, poiché un conto sono le idee (“le visioni del mondo – afferma Jaspers – sono idee”), un conto è l’Io.
Che cosa sostiene infatti Steiner, nello stesso Pensiero cosmico? Che l’Io dovrebbe essere indipendente dalle idee (dalle essenze del corpo astrale), perché solo così potrà davvero “averle”, e quindi servirsene per afferrare compiutamente (e non unilateralmente) la realtà del mondo.
Fatto si è che come ciò che si rivela ad esempio alla vista non si rivela al tatto, o ciò che si rivela all’udito non si rivela al gusto, così ciò che si rivela ad esempio al realismo non si rivela all’idealismo, o ciò che si rivela al materialismo non si rivela allo spiritualismo.
Ma torniamo a noi.
Dice sempre Steiner che se cercassimo “quale contenuto gli psicologi assegnino alla volontà” troveremmo “sempre che tale contenuto proviene dal rappresentare e che la volontà, a tutta prima, non ha reale contenuto”.
Non conosciamo, in effetti, la forza del volere, ma sempre e soltanto la sua rappresentazione, poiché nella sfera in cui opera il volere siamo incoscienti (come nel sonno senza sogni), mentre in quella in cui opera il rappresentare siamo coscienti.
Soprattutto oggi, sarebbe importante distinguere con attenzione il reale dalla rappresentazione del reale (dal cosiddetto “virtuale”), poiché corriamo sempre più il rischio di confondere il reale con quella pletora di sue rappresentazioni ammanniteci quotidianamente dalla stampa, dal cinema, dalla televisione, dai computer o dai videogiochi (cui, non bastasse, si sono di recente aggiunte quelle dei videofonini – ndr).
Abbiamo visto, infatti, che la rappresentazione del reale, in quanto “immagine” o non-essere, è irreale.
Essendo dunque il rappresentare un irreale o un non-essere cosciente e il volere un reale o un essere incosciente, la sola cosa che possiamo fare è sviluppare allora la coscienza per portarla all’altezza del reale e dell’essere. Non riusciremo però a farlo, se non supereremo, per mezzo dell’antroposofia, l’irrealtà o il non-essere dell’ordinario pensiero riflesso e del grado di coscienza che gli corrisponde.
Dice Steiner: “Portiamo in noi la forza dell’antipatia, e, per suo mezzo, trasformiamo l’elemento prenatale in una semplice immagine rappresentativa. Invece ci uniamo in simpatia con la realtà volitiva che irradia, oltre la morte, verso un’esistenza ulteriore. Di questa simpatia e di questa antipatia non diveniamo coscienti in modo immediato; esse vivono in noi inconsciamente e formano il nostro sentire il quale è continuamente costituito da un ritmo alterno di simpatia ed antipatia, di sistole e diastole. Abbiamo continuamente in noi questo ritmo alterno, nel nostro sentire: l’antipatia, che agisce in un senso, trasforma continuamente la nostra vita animica in rappresentazione; la simpatia, che agisce nell’altro, trasforma la nostra vita animica in ciò che conosciamo come la nostra volontà d’azione la quale, mantenuta allo stato di germe, diviene realtà spirituale dopo la morte” (p. 34).
Quelle della sim-patia e dell’anti-patia sono dunque attività “fisiologiche”.
Solo un abnorme prevalere dell’una sull’altra ingenera infatti una patologia. Una cosa, perciò, è parlare del “tipo” isterico, altra parlare del “nevrotico” isterico, così come una cosa è parlare del “tipo” nevrastenico, altra parlare del “nevrotico” ossessivo.
Laddove l’eccessiva prevalenza della sim-patia (del volere) sull’anti-patia (sul rappresentare), o dell’anti-patia sulla sim-patia, genera una patologia, gli opposti caratteri di queste due forze si rendono più evidenti.
Consideriamo, ad esempio, la nevrosi “ossessivo-coatta” (“croce” degli psicoterapeuti). Dice Steiner che “portiamo in noi la forza dell’antipatia, e, per suo mezzo, trasformiamo l’elemento prenatale in una semplice immagine rappresentativa”.
E’ dunque la forza dell’anti-patia a neutralizzare quella della vita prenatale. Ma che cosa accade – domandiamoci – quando la forza dell’anti-patia non è in grado di assolvere a questa funzione, perché, dis-locandosi, prende magari a tenere a bada o a respingere il presente (terreno) anziché il passato (spirituale)?
Accade quel che si verifica appunto nelle nevrosi ossessivo-coatte: ossia, che il rappresentare (legato alla vita prenatale) rimane dotato di un’inconsueta, cogente e patogena vitalità.
Al cospetto di questa nevrosi, viene infatti da domandarsi: ma il rappresentare, normalmente spento o inerte, da dove mai trarrà tanta energia?
Abbiamo detto, la volta scorsa, che un conto è avere a che fare con un gatto, altro avere a che fare con la foto di un gatto. Ebbene, il particolare sconcerto che suscita la nevrosi ossessivo-coatta potrebbe essere appunto paragonato a quello suscitato dalla foto di un gatto che miagolasse, facesse le fusa o graffiasse.
Dal momento, però, che una foto non può fare tali cose, si dovrebbe riconoscere che ci si trova allora al cospetto di un gatto vero e proprio, e non di una sua mera riproduzione. Si dovrebbe in altri termini riconoscere (ma sta qui la difficoltà) che ci si trova in questo caso al cospetto di un pensare o di un immaginare vivo, e non di un rappresentare morto: cioè al cospetto di una realtà che proviene dalla vita prenatale (e non soltanto, quindi, da quella dell’infanzia o della vita intrauterina), e che, in tanto continua a farsi sentire, in quanto non è stata sufficientemente neutralizzata o devitalizzata dal presente.
Siamo soliti parlare – lo sapete – del “pensiero vivente” (Scaligero ha scritto un Trattato del pensiero vivente). Ma come vedete, un conto è il pensiero che vive (quale immaginazione) perché non è ancora morto (perché non si è fatto ancora rappresentazione), un conto è il pensiero che vive (quale coscienza immaginativa) perché è risorto dalla morte (dalla coscienza rappresentativa).
Tanto che si potrebbe dire, schematizzando: il pensiero non ancora morto è psichicamente morboso; il pensiero morto è psichicamente “normale” (ordinario); il pensiero risorto è animicamente sano e, in quanto tale, propriamente umano. Il primo infatti lo si patisce (poiché vive nostro malgrado), il secondo invece lo si condivide (col “conscio collettivo”), e il terzo infine ci rinnova (poiché può essere soltanto conquistato).
Sta di fatto che, sia il pensiero non ancora morto (legato extrasensibilmente al passato), sia quello morto (legato sensibilmente al presente), sono del tutto sterili (quello morto, infatti, è creativo unicamente sul suo stesso piano: vale a dire, su quello della tecnica), in quanto manca loro la forza (legata extrasensibilmente al futuro) della coscienza immaginativa (un altro dei libri di Scaligero è per l’appunto intitolato: La luce – Introduzione all’immaginazione creatrice).
Ovviamente, il pensiero morto può essere disturbato o inficiato anche dal volere inconscio, istintivo e bramoso (come accade nelle nevrosi isteriche). In questo caso, non ci si trova al cospetto di un pensiero intrinsecamente (ma morbosamente) vivo, bensì al cospetto di un pensiero ravvivato o rinfocolato estrinsecamente (ma sempre morbosamente) dalle brame (che gli psichiatri chiamano “pseudologia fantastica”, e che io spesso chiamo, molto meno dottamente, “panziero”).
Non abbiamo purtroppo tempo per parlare ancora delle patologie (che si manifestano soprattutto nel sentire) dovute allo squilibrio tra il rappresentare e il volere; vorrei pertanto consigliarvi, ove desideraste saperne di più, un vecchio libro dello psicoterapeuta americano David Shapiro, intitolato: Stili nevrotici (Astrolabio, Roma 1969 – ndr). Si tratta di un testo in cui l’autore prende appunto in esame le modalità del pensare, del sentire e del volere che caratterizzano la nevrosi “ossessivo-coatta”, la nevrosi “paranoide”, la nevrosi “isterica” e quella “impulsiva”.
Prima di lasciarci, vorrei comunque dire due parole sul problema del rappresentare e del volere, dal punto di vista dello sviluppo spirituale.
Normalmente, il rappresentare, che viene dal passato, è “vuoto”, mentre il volere, che va verso il futuro, è “cieco”. Si tratta di due correnti che scorrono parallele (ma in senso inverso) nell’anima, senza potersi perciò incontrare e reciprocamente fecondare (ricordate Goethe? “Due anime albergano nel mio petto…”).
Qualora però ci rammentassimo di uno degli schemi che si trovano in Antroposofia–Psicosofia– Pneumatosofia (Antroposofica, Milano 1991, p. 186 – ndr), ci avvedremmo che queste due correnti orizzontali vengono intersecate da altre due correnti verticali (legate al presente): una proveniente, in basso, dal corpo fisico; l’altra proveniente, in alto, dall’Io.
Il che ci consentirebbe di realizzare ch’è l’Io (quel presente detto – da qualcuno – “il riflesso dell’eterno nel tempo degli uomini”) a dover far sì che, nell’anima, la corrente del passato (del rappresentare) s‘incontri con quella del futuro (del volere), così che la prima cessi di essere “vuota”, e la seconda di essere “cieca”.
E’ dall’incontro di queste due correnti che nasce la coscienza immaginativa. Allorché si attraversa poi la “soglia”, che divide il regno dell’esistere (dell’”al di qua”) da quello dell’essere (dell’”al di là”), e si sale dalla coscienza immaginativa (vivente) a quella ispirativa (qualitativa), si realizza invece un’enantiodromia: la luce del pensiero (non più separata dal calore della volontà) si fa infatti percezione (del pensare-volere delle Gerarchie), mentre il calore della volontà (non più separato dalla luce del pensiero) si fa dedizione (al volere-pensare delle Gerarchie).
E’ solo dunque a questo punto che l’uomo – come afferma Steiner – “cessa di essere ragionevole e comincia a diventare saggio”.
L.R. – Roma, 2 dicembre 1999
ANTROPOLOGIA 6° Incontro
Abbiamo parlato la volta scorsa del rappresentare, in rapporto all’anti-patia e alla corrente che viene dal passato (dalla vita prenatale), e del volere, in rapporto alla sim-patia e alla corrente che va verso il futuro (verso la vita dopo la morte).
Prima di andare avanti, converrà fare qualche altra considerazione.
Per capire l’organizzazione umana può essere utile confrontarla con quella animale. Chi conosce le due conferenze di Steiner pubblicate col titolo: Anima e spirito nell’uomo e nell’animale, sa che l’animale è un essere naturale compenetrato interamente dall’essere divino, e che, proprio per questo, non può avere coscienza di sé, né dell’essere divino. Perché possa avere coscienza di sé (per farsi spirito o Io) è infatti necessario che l’essere naturale non sia più nell’essere divino, ma lo abbia di fronte a sé.
La filosofia antica era ad esempio una filosofia dell’essere (un’ontologia), mentre quella moderna è una filosofia dello spirito; ma in tanto lo è in quanto appunto rigetta l’idea dell’essere quale sostanza, per affermare quella dell’essere quale soggetto. Quale sostanza, l’essere è infatti oggetto, e non soggetto.
L’autocoscienza nasce dunque allorché l’essere non è più naturalmente e inconsciamente in Dio, ma si separa e allontana da Dio (dal Padre).
Tuttavia, separandosi e allontanandosi da Dio (o essendo stato – a causa del cosiddetto “peccato originale” – separato e allontanato da Dio), l’essere (umano), per un verso nasce, ma per l’altro muore; o meglio, nasce (quale spirito) perché muore (come essere), e muore (quale essere) perché nasce (come spirito).
Il che sta a significare che lo spirito nasce morto: ovvero, che l’autocoscienza nasce come autocoscienza rappresentativa (cartesiana), e che l’Io nasce come ego.
Stando così le cose, si capisce come debba risultare incomprensibile, a quanti non hanno coscienza di questo straordinario “antefatto”, il senso della missione redentrice del Cristo: del Dio-Figlio, cioè, che, per farsi uomo, nasce e muore, e che, per offrire all’uomo la possibilità di tornare al Padre, risorge.
Nietzsche, ad esempio, lo ha letto addirittura alla rovescia: ha scambiato infatti la morte dell’uomo con la “morte di Dio”.
Tutto ciò rimarrebbe comunque astratto (“campato per aria”) se non ci fosse dato modo – grazie alla scienza dello spirito – di ricondurlo alla concreta organizzazione umana.
Non ci dice niente, ad esempio, il fatto che “Golgota” significhi “cranio” o “testa”, e che il mistero del Golgota si riferisca quindi al mistero della testa dell’uomo?
Fatto sta ch’è proprio nella testa (nella sfera neuro-sensoriale), laddove opera la coscienza (lo spirito quale ”immagine” o non-essere) e muore la natura (quale “germe” o essere), che l’uomo si è separato e allontanato da Dio; e ch’è nel restante organismo (nella sfera ritmica e in quella metabolica), laddove opera invece la natura (quale “germe” o essere), che l’uomo è rimasto unito a Dio.
Risposta a una domanda
L’osservare, da un lato, il sistema osseo e, dall’altro, quello neuro-sensoriale può aiutarci a capire in che modo portiamo in noi la morte. Mettere la morte in relazione con lo scheletro è facile; meno facile, invece, è metterla in relazione col sistema nervoso e, in specie, con la corteccia cerebrale.
Già la parola “corteccia”, tuttavia, ci rimanda alla parte morta dell’albero; così come dovrebbe farci pensare il fatto che, proprio nella testa (e il teschio – non lo dimentichi – rappresenta da sempre la morte), ci si presenta la massima concentrazione di sostanza ossea e di sostanza nervosa.
Lasci comunque che le legga qualche riga di quanto dice al riguardo Victor Bott, in questo testo di medicina antroposofica (Medicina antroposofica – IPSA, Palermo 1991- ndr): “Proviamo ora ad approfondire le attività dei due poli dell’organismo (quello metabolico e quello cefalico – nda). Noi abbiamo definito l’inferiore come quello del movimento e del metabolismo (essendo quest’ultimo un movimento di sostanze). Vi troviamo una intensa vitalità e di conseguenza una attività corrispondente del corpo eterico. La costante rigenerazione delle cellule dell’intestino, la moltiplicazione cellulare negli organi di riproduzione sono dei processi eterici per eccellenza, sono manifestazioni vitali. Al contrario, al polo neurosensoriale prevalgono dei processi di morte. Questo stato di cose raggiunge il suo punto culminante al livello della cellula nervosa incapace di rigenerazione. Si ha l’impressione che basti poco perché muoia totalmente”.
Risposta a una domanda
Quello delle malattie cosiddette “mentali” è un problema molto complesso e delicato, e non possiamo di certo affrontarlo in questa sede.
Alcuni le ritengono, per così dire, “somatogene”, dovute cioè a disfunzioni o lesioni cerebrali; altri, invece (in primo luogo gli psicoanalisti, soprattutto junghiani), le ritengono per lo più “psicogene”, dovute cioè a disfunzioni psichiche.
Per i primi, si tratta quindi di malattie dipendenti sempre dal sistema nervoso, mentre, per i secondi, si tratta di malattie in gran parte indipendenti, sia dal sistema nervoso, sia, più in generale, dal corpo.
Per Steiner, si tratta invece di malattie dipendenti, in modo sottile, da disfunzioni dei quattro organi cosiddetti “cardinali”: cioè a dire, del polmone, del fegato, del rene e del cuore, che – come probabilmente sa – si trovano rispettivamente in rapporto con il temperamento melanconico, con il temperamento flemmatico, con il temperamento sanguigno e con quello collerico.
Per quanto riguarda tali organi, potrebbe consultare un breve lavoro di Walter Holtzapfel, intitolato: Le connessioni spirituali di fegato, polmone, rene, cuore (Natura e Cultura, Alassio 1995 – ndr); per quanto riguarda invece il rapporto tra questi e le malattie mentali, potrà trovare alcune indicazioni nel libro di Victor Bott che ho citato poco fa.
Ma torniamo ora a noi.
Dice Steiner: “Noi dobbiamo veramente la nostra conoscenza al riflettersi, al proiettarsi della nostra vita prenatale entro la vita presente. E questa conoscenza che in misura molto più elevata esiste come realtà nella vita prenatale, o pre-concezionale, viene affievolita dall’antipatia fino al punto di divenire semplice immagine” (p. 35).
Che cosa vuol dire che la nostra conoscenza “in misura molto più elevata esiste come realtà nella vita prenatale”? Che nella vita prenatale, la nostra conoscenza è viva e reale, in quanto è sintesi di pensare e volere (percepire) o di forma e forza.
Che cosa fa dunque l’anti-patia? Respinge il volere o la forza, dividendolo così dal pensare o dalla forma, tanto da arrivare a farci sperimentare quest’ultimo come un vuoto e mero rappresentare (come, appunto, una vuota e mera forma).
Vorrei riproporvi, a questo proposito, uno degli schemi che abbiamo utilizzato studiando La filosofia della libertà: quello al centro del quale figura l’Io (quello reale), dal quale si dipartono due frecce: l’una diretta in alto, verso la coscienza dell’Io (l’ego); l’altra diretta in basso, verso l’incoscienza dell’Io o la coscienza del non-ego (o, se si vuole, verso l’Es di Groddeck e Freud).
Spero risulti così evidente come normalmente ignoriamo il nostro vero Io, poiché ci limitiamo a riconoscerci, nella nostra parte superiore, come ego, e, nella nostra parte inferiore, come non-ego.
L’io o l’ego di cui solitamente parliamo (anche troppo) è quindi una parte dell’Io, e non tutto l’Io.
Per poter davvero capire quale sia questa parte è necessario però distinguere – come abbiamo spesso sottolineato – l’Io dalla coscienza dell’Io. Un neonato è ad esempio un Io che non sa di essere un Io. Non può darsi quindi una coscienza dell’Io senza l’Io, ma può darsi l’Io senza una coscienza dell’Io.
Nel corso della cosiddetta “età evolutiva” sviluppiamo la coscienza dell’Io, e la portiamo a maturazione allorché siamo in grado di mettere lucidamente a fuoco – come illustra lo schema – l’opposizione tra l’ego (il soggetto) e il non-ego (l’oggetto).
Ove dunque ponessimo, nel nostro schema, il cuore in corrispondenza dell’Io, avremmo l’ego nella zona della testa e il non-ego in quella dell’addome (o nella zona, stando a Groddeck e Freud, che si trova un poco più giù).
L’intelletto (rappresentativo) ci fornisce dunque, da una parte, l’ego, ovvero l’Io quale ”immagine” (quale non-essere) e, dall’altra, il non-ego, ovvero l’Io quale “germe” (quale essere). L’anti-patia respinge infatti il “germe” e trattiene l’”immagine”, mentre la sim-patia respinge l’”immagine” e trattiene il “germe”.
Dobbiamo a questo la nostra libertà. Che cosa accadrebbe, infatti, se l’anti-patia non devitalizzasse ad esempio il concetto? Che lo sperimenteremmo, non come un concetto, bensì come un “dio”.
E converrete che un conto è trovarsi alle prese, che so, col concetto di tempo, altro trovarsi alle prese con Crono. A Crono non potremmo infatti che ubbidire, mentre col concetto di tempo ci possiamo anche giocare (come dimostra, per lo più, la fisica moderna).
Dice Steiner: “Noi portiamo continuamente nel nostro intimo l’elemento vivente della vita prenatale, ma abbiamo la forza di respingerlo (rifletterlo). Questa forza risiede nell’antipatia. Ogni rappresentazione che noi facciamo attualmente, s’incontra con l’antipatia, e, quando questa diventa forte abbastanza, si produce la reminiscenza, il ricordo. Sicché la memoria non è altro che il risultato dell’antipatia che regna in noi” (p. 35).
Abbiamo parlato fin qui della rappresentazione, parliamo ora della memoria. Teniamo presente, intanto, che la rappresentazione è già un’immagine mnemonica. Ove non fosse mnemonica, e per ciò stesso legata (seppure “a breve termine”), al passato, sarebbe infatti un’immagine percettiva, legata al presente.
In ogni caso, come abbiamo prima distinto l’Io dalla coscienza dell’Io, così dobbiamo adesso distinguere il ricordo in sé (l’”engramma” o “traccia mnestica”) dalla rappresentazione o dall’immagine del ricordo (ossia, dalla vera e propria “immagine mnestica”).
Che cosa avviene, infatti, ogni volta che ri-evochiamo un ricordo? Che riportiamo nel presente il passato. Non ve lo riportiamo, però, come se sfogliassimo un album di fotografie (come se ci fosse in noi, in qualche dove, un archivio di rappresentazioni), bensì tornando di nuovo a immaginare il ricordo in sé.
Ciò spiega il perché Steiner sottolinei spesso il rapporto esistente tra la forza o l’attività della memoria e quella dell’immaginazione (della coscienza immaginativa).
La rappresentazione, in quanto vincolata alla percezione sensibile, è infatti un’immaginazione del presente (o del passato prossimo); l’immagine mnemonica è invece un’immaginazione del passato (remoto); e l’immaginazione (quale frutto della coscienza immaginativa) è infine un’immaginazione del futuro (da qui – lo abbiamo detto – la sua fecondità o creatività).
Ciò consente peraltro di capire che la coscienza immaginativa non nasce dal nulla, bensì dal superiore sviluppo di una forza o di un’attività (la memoria) che ordinariamente già esercitiamo.
Dice Steiner: “Qui abbiamo il nesso tra l’antipatia, che è semplice sentimento che respinge in maniera ancora indeterminata, e il riflesso preciso dell’attività di percezione esercitata immaginativamente nel ricordo. La memoria non è che antipatia accresciuta. Non potremmo possedere memoria se avessimo per le nostre rappresentazioni tanta simpatia da “inghiottirle”. Se abbiamo memoria, è perché proviamo una specie di “disgusto” per le rappresentazioni, perché le rigettiamo, e con ciò le rendiamo presenti come tali. Questa è la loro realtà” (pp. 35-36).
Una cosa, dunque, è l’anti-patia, quale “sentimento che respinge in maniera ancora indeterminata”, altra il contenuto o l’oggetto determinato cui si rivolge.
Allorché si rivolge ai contenuti della “memoria” (ai ricordi in sé), l’anti-patia deve pertanto “accrescersi”, poiché la rappresentazione (ch’è comunque un fatto di memoria “a breve termine”) consegue a una percezione (esteriore) mediata dal corpo fisico, mentre l’immagine mnemonica (ch’è un fatto di memoria “a lungo termine”) consegue a una percezione (interiore) mediata dal corpo eterico (dal corpo dei ricordi in sé).
Che poi “non potremmo possedere memoria se avessimo per le nostre rappresentazioni tanta simpatia da “inghiottirle” potrebbe dimostrarlo un’elementare esperienza.
Ricordiamo infatti dove abbiamo messo un oggetto, se lo abbiamo posato attentamente (anti-paticamente), mentre quasi sempre lo dimentichiamo, se lo abbiamo posato distrattamente (sim-paticamente), poiché il suo ricordo, in questo caso, lo abbiamo per l’appunto “inghiottito”.
Dice Steiner: “Se avete percorso tutto questo processo, se vi siete fatti delle rappresentazioni immaginative che avete respinto nella memoria mentre ne conservate l’immagine, nasce il concetto” (p. 36).
Questo passo risulterebbe probabilmente più chiaro se suonasse così: “Se avete percorso tutto questo processo, se vi siete fatti delle rappresentazioni che, respinte nella memoria, si trasformano in immagini mnemoniche, e quindi in ricordi che possono essere riportati alla coscienza, nasce allora la coscienza del concetto”.
Che cosa abbiamo infatti scoperto, studiando La filosofia della libertà? Che la rappresentazione, nascendo dall’incontro del concetto col percetto, è un “concetto individualizzato”.
Di norma, siamo però coscienti della rappresentazione, ma non del concetto (che la rende possibile), così come, a un altro livello, siamo coscienti della immagine mnemonica, ma non del ricordo in sé (che la rende possibile).
Ma cos’è il ricordo in sé? Null’altro che il concetto, così come vive nel corpo eterico (nel corpo elementare). Il concetto vive dunque nel corpo astrale (quale essenza o entelechia) e nel corpo eterico (un’ottava sotto, quale ricordo in sé), per manifestarsi, sullo stesso piano eterico, come “immagine mnemonica” e, su quello fisico, come “rappresentazione”.
Grazie all’anti-patia, che, pur respingendo nella memoria il ricordo in sé, ci conserva la possibilità di rinverdirne l’immagine, affiora dunque una qualche coscienza del concetto. Certo, una coscienza, per così dire, “anti-patica”, e quindi astratta, se non addirittura nominalistica.
Come vedete, conoscendo, allontaniamo da noi tutto ciò che infirmerebbe, altrimenti, la nostra libertà. Quanto più una realtà ha il potere di minacciarla, tanto più l’investiamo di anti-patia.
Risposta a una domanda
Dice Hegel che, nei tempi moderni, a nessun concetto è andata così male come al concetto del concetto. Per Kant, ad esempio, non è che un’esangue e astratta “categoria”, mentre per i nominalisti è addirittura flatus vocis. E abbiamo spesso ricordato che il nominalismo – a detta di Marx – è “la prima espressione del materialismo”.
Appunto per questo, Scaligero afferma che chiunque voglia sperimentare in modo lucido e moderno la realtà dello spirito deve cominciare con lo sperimentare la realtà del concetto.
Abbiamo detto che il concetto è un’entità (un’essenza o un’entelechia) che vive nel corpo astrale. Chiunque intenda conoscerlo per quello che è deve dunque varcare la soglia che divide il mondo astrale (il “regno delle Madri” di Goethe) da quello eterico-fisico.
Per farlo, tuttavia, dovrà non solo superare l’anti-patia, ma fare anche appello scientemente (e non perciò naturalmente) alla sim-patia.
Della sim-patia, parleremo però la prossima volta.
L.R. – Roma, 11 dicembre 1999
ANTROPOLOGIA 7° Incontro
Ci siamo lasciati, la volta scorsa, dicendo che stasera ci saremmo occupati della sim-patia, e quindi della volontà.
Prima di cominciare, sarà bene però ricordare che quando parliamo di volontà parliamo di una forza di vita e di natura (normalmente inconscia) simile a quella di cui parla (seppure in modo filosofico e unilaterale) Schopenhauer, in specie ne La volontà nella natura (Laterza, Roma-Bari 1989 – ndr).
Dice Steiner: “Ora prendiamo l’altro lato, quello della volontà, ch’è in noi allo stato di germe, atto a svilupparsi dopo la morte. La volontà vive in noi perché proviamo simpatia per questo germe che si svilupperà soltanto dopo la nostra morte. Come il rappresentare si fonda sull’antipatia, così il volere si fonda sulla simpatia; e come per l’accrescersi dell’antipatia sorge dalla rappresentazione la memoria, così per l’accrescersi della simpatia, sorge, da essa, la fantasia. Come la memoria nasce dall’antipatia, così dalla simpatia nasce la fantasia” (p. 36).
Abbiamo detto, qualche incontro fa, che il pensiero morto può essere disturbato o inficiato anche dal volere inconscio, istintivo e bramoso, come nel caso delle nevrosi isteriche, nelle quali, in tanto ci si trova al cospetto di una “pseudologia fantastica”, in quanto ci si trova appunto al cospetto di un pensiero ravvivato o rinfocolato estrinsecamente dalla volontà o, per meglio dire, dalla brama.
La brama “ardente” e la “calda” sim-patia impediscono infatti di ragionare a “mente fredda”, e di essere quindi “rigorosamente” (rigor mortis) conseguenti o logici.
Ricordo, ad esempio, un vecchio racconto di Italo Calvino (mi pare s’intitolasse: La giornata di uno scrutatore) il cui protagonista, un intellettuale, discutendo con la propria compagna, l’accusava di essere non solo “illogica”, ma addirittura “prelogica”.
Intendiamoci: se l’isteria è sempre “fantasiosa”, la “fantasia” non sempre è isterica; e quando non è isterica è allora “creativa”.
Si conosce infatti quanto già esiste, mentre si crea quanto ancora non esiste. Quanto ancora non esiste, prima di essere creato, deve essere però pensato, e pensato in un modo diverso da quello in cui pensiamo quanto già esiste, poiché il creato (che viene dal passato) ce lo “figuriamo” (rappresentiamo), mentre il creando (che va verso il futuro) ce lo dobbiamo, più o meno chiaramente, “pre-figurare” (immaginare). E’ facile quindi capire che, per potercelo “pre-figurare”, ci occorre un pensiero non solo diverso da quello con il quale ci figuriamo il creato, ma anche più forte, e perciò dotato, al suo interno, di un maggior tasso di volontà (Steiner, parlando della Pandora di Goethe, vede ad esempio, in Epimeteo, il rappresentante del “post-pensiero” – che pensa “a-posteriori” il creato – e, in Prometeo, il rappresentante del “pre-pensiero” – che pensa “a-priori” il creando).
La fantasia è dunque sana quando è rivolta al creando, mentre è patologica quando è rivolta al creato. Come abbiamo visto, per conoscere il creato serve infatti l’anti-patia, e non la sim-patia.
Risposta a una domanda
Sappiamo che, nel pensare, sono sempre presenti il sentire e il volere; che, nel sentire, sono sempre presenti il pensare e il volere; e che, nel volere, sono sempre presenti il pensare e il sentire. Quando parliamo del pensare, del sentire o del volere ci riferiamo dunque all’attività che prevale, in ciascuna “sede” (in quella neuro-sensoriale, in quella ritmica e in quella metabolica), sulle altre due.
Parlando della volontà, è importante distinguere – cosa che non sempre si fa – la qualità (anti-patica) della volontà attiva nell’ordinario pensiero rappresentativo da quella (sim-patica) attiva nel pensiero immaginativo.
Anche il pensiero rappresentativo (che usiamo definire “morto”) è dotato infatti di movimento: ma di un movimento che in realtà non gli appartiene, in quanto si limita a riflettere o riprodurre quello discreto o discontinuo della sottostante organizzazione neuro-fisiologica.
Fatto si è che il tipo astenico e quello stenico, in quanto appunto “tipi”, sono “specie”: vale a dire “natura”, e non “individualità”. Ma il primo è una “natura morta”, nella quale il pensiero è mosso dal nervo (poiché è prevalente l’attività della testa), mentre il secondo è una “natura viva”, nella quale il pensiero è mosso (come vedremo tra poco) dal sangue (poiché sono prevalenti le attività del restante organismo).
La “logica analitica”, cioè quella basata sul principio di “non contraddizione” (A non è non A) e d’“identità” (A è A), non è dunque che la logica statica e discontinua dell’intelletto (della coscienza rappresentativa): ovvero, la logica animata o, per meglio dire, “dis-animata” dal sistema dei nervi e, in specie, da quello corticale.
Si tratta di una logica (meccanica) che nasce (lo abbiamo visto) da ciò che in noi è morto, e che proprio per questo è preziosa per capire la natura morta ch’è fuori di noi.
Quando si tratta perciò di capire il vivente, tale logica non basta più. Un conto, infatti, è realizzare che “un bruco non è un non bruco” (che A non è non A) e che “un bruco è un bruco“ (che A è A), altro realizzare, come avviene nel processo di metamorfosi (ossia nella logica dinamica e continua del divenire o del tempo), che il bruco (A) è la crisalide (B) (poiché A è divenuto B), e che la crisalide (B) è la farfalla (C) (poiché B è divenuto C).
Una cosa, insomma, è la forza o l’energia (in sé) del volere (del movimento), altra la qualità che l’informa. La psicoanalisi freudiana distingue, ad esempio, la forza dell’Eros da quella del Thanatos, poiché riconosce trattarsi di due forze o energie (di due “volontà”), ma di due forze o energie qualitativamente diverse o, più precisamente, opposte.
Questa conoscenza della psicoanalisi può in qualche modo aiutare a capire gli opposti processi elencati nello schema riassuntivo che si trova alla pagina 38 (da una parte, quelli del conoscere, dell’antipatia, della memoria e del concetto; dall’altra, quelli del volere, della simpatia, della fantasia e dell’immaginazione), proprio pensando i primi come frutto del Thanatos, e i secondi dell’Eros.
Dice Steiner: se la fantasia “si accresce a sufficienza (ciò che nella vita ordinaria avviene solo inconsciamente), se essa si rafforza al punto di compenetrare l’uomo fino ai sensi, allora avremo le solite immaginazioni, grazie alle quali rappresentiamo gli oggetti esteriori. Come il concetto sorge dalla memoria, così dalla fantasia sorge l’immaginazione che dà la percezione dei sensi. Queste provengono dalla volontà” (p. 36).
L’immaginazione di cui parla qui Steiner non si riferisce dunque alla coscienza superiore (extrasensibile), ma a quella (sensibile) cui dobbiamo la possibilità di avere delle “immagini percettive”.
Siamo talmente abituati a pensarci come delle “macchine fotografiche” o delle “fotocopiatrici” (come delle tabulae rasae), capaci soltanto di ri-produrre quanto esiste nel mondo, da non renderci conto che noi il mondo, in realtà, lo immaginiamo, trasformando attivamente e incessantemente i contenuti trasmessici dai sensi, i percetti, in immagini percettive (tridimensionali): in immagini che un eccesso di sim-patia può peraltro, sia alterare, e trasformare così in “illusioni”, sia generare, e trasformare così in “allucinazioni”.
Dice Steiner: “Sul piano fisico l’uomo animico è congiunto con l’uomo fisico-corporeo. Tutto l’animico si esprime, si rivela nel corporeo, sicché, da un lato, si manifesta nella corporeità tutto quanto si esprime nell’antipatia, nella memoria e nel concetto; ciò è legato all’organismo corporeo dei nervi. In quanto nel corpo si formano le strutture nervose, sono operanti gl’influssi prenatali (…) Così, in certo modo, la volontà, la simpatia, la fantasia e l’immaginazione agiscono partendo dall’interno dell’uomo (…) Tocchiamo qui un punto molto importante: noi dobbiamo imparare a comprendere l’uomo per intero: spirito, anima e corpo. Ora, nell’uomo viene continuamente formato qualcosa che ha la tendenza a spiritualizzarsi; ma che non vi riesce, e si riassorbe nella corporeità, a cagione del grande amore, certamente egoistico, che gli portiamo incontro per trattenerlo nel corpo. Abbiamo dunque in noi qualcosa che è materiale, ma che vorrebbe continuamente passare dallo stato materiale ad uno stato spirituale; e noi ci opponiamo a che ciò avvenga; per questo lo annientiamo nel momento in cui sta per spiritualizzarsi. Questo “quid” è il sangue, l’opposto dei nervi” (p. 37).
Pane e vino. “Pane” è il nervo (cui si accompagnano il conoscere, l’anti-patia, la memoria e il concetto), e “vino” è il sangue (cui si accompagnano il volere, la sim-patia, la fantasia e l’immaginazione).
Il primo tende a materializzarsi o a “coagulare”, mentre il secondo tende a smaterializzarsi o a “solvere”. Per farci un’idea del modo in cui questo tende a smaterializzarsi o a “solvere”, potrebbe essere utile osservare una malattia come la tubercolosi (che attecchisce, in genere, sul terreno isterico).
Nella cosiddetta “tubercolosi primaria” – leggo da questo Dizionario medico – si presentano uno o più “addensamenti infiammatori”, mentre in quella “secondaria” si può presentare una “necrosi caseosa e la conseguente formazione di caverne”, poiché si osserva “una completa perdita delle strutture e membrane cellulari”.
Il calore del sangue comincia dunque con l’infiammare i polmoni, per poi arrivare, in alcuni casi, a smaterializzarli o dissolverli.
Ma cos’altro è un polmone in cui accade ciò, se non un polmone che vorrebbe passare, unitamente al suo portatore, “dallo stato materiale ad uno stato spirituale”?
E’ noto, del resto, che a ogni processo febbrile si accompagna un lieve processo di decalcificazione. Dove si ha un’abnorme attività del sangue (caldo) si genera dunque un’infiammazione, e diminuisce la calcificazione, mentre dove si ha un’abnorme attività del nervo (freddo) si genera una sclerosi, e diminuisce il calore.
Dice Steiner che quanto “vorrebbe continuamente passare dallo stato materiale ad uno stato spirituale” noi “lo annientiamo nel momento in cui sta per spiritualizzarsi”.
“Annientiamo” infatti il sangue arterioso e lo trasformiamo in sangue venoso.
Può essere interessante osservare, al riguardo, che il primo (legato a Marte-Ares) tende a prevalere nei tipi stenici, mentre il secondo (legato a Venere-Venus) tende a prevalere in quelli astenici.
Ho già ricordato, in proposito, che Jung chiama “estroversi” gli stenici e “introversi” gli astenici.
Ebbene, non è significativo che la circolazione arteriosa abbia un andamento centrifugo e quella venosa centripeto?
Dice Steiner: “Opera in noi una polarità: il processo che si svolge lungo le vie del sangue, e la cui tendenza costante è quella di condurre la nostra esistenza verso lo spirito. Parlare, nel modo consueto, di nervi “motori”, non corrisponde ai fatti, perché i nervi motori sarebbero, in fondo, i canali del sangue. All’opposto di quanto avviene nel sangue, i nervi hanno tutti la tendenza a morire, a materializzarsi. Ciò che si produce lungo le vie dei nervi è, in fondo, materia eliminata priva di vita. Il sangue tende continuamente a spiritualizzarsi; il nervo a materializzarsi: in ciò consiste la doppia polarità” (p. 38).
Si fa qui chiaro il perché il “germe” debba essere trattenuto. Ove la tendenza insita nel sangue si esplicasse appieno, verremmo precipitati verso la morte (verso lo spirito), e dovremmo rinunciare alla nostra vita sulla Terra.
Tutti andiamo verso la morte, ma non per questo rinunciamo alla vita, come mostrano di voler fare quanti accelerano, in un modo o nell’altro, tale cammino.
Non dimentichiamo che le forze luciferiche (attive nel sangue) ci spingono innaturalmente verso la morte, mentre quelle arimaniche (attive nel nervo) ci spingono innaturalmente a fuggirla.
Ma torniamo di nuovo ai nostri tipi.
Quello stenico è un tipo “accelerato”, mentre quello astenico è “frenato”. Il primo è portato infatti a fare anche quello che dovrebbe continuare a pensare, mentre il secondo è portato a continuare a pensare anche quello che dovrebbe fare. Per fare quanto c’è da fare, l’uno si ritiene quindi anzitempo (“maniacalmente”) maturo, mentre l’altro si ritiene eternamente (“depressivamente”) immaturo.
Il tipo stenico è insomma il “velleitario” (che una ne pensa e cento ne fa), mentre quello astenico è l’”eterno indeciso” (che cento ne pensa e una ne fa).
Mi sembra opportuno sottolinearlo, perché non sempre si nota che Steiner, ne L’iniziazione, parla molto del pensare e del sentire e poco del volere. E lo fa, proprio perché nostra prima preoccupazione dovrebbe essere quella di darci, non a un’attività esteriore, bensì a una attività interiore capace di portarci all’altezza di ciò che desideriamo fare (o che giudichiamo necessario venga fatto).
Dovremmo pertanto imparare (soprattutto se stenici) a raffrenare o trattenere quella volontà (o, meglio, quella brama) che vorrebbe spingerci a “trinciare giudizi” o a sfogare tutta la sua forza nell’azione (materiale).
Con l’azione, infatti, la volontà fuoriesce da noi, entra nel mondo, e genera karma.
Ho già ricordato, al riguardo, la seguente affermazione di Goethe: “Per fare qualcosa, bisogna essere qualcuno”, spiegando che occorre fare “qualcosa” per diventare (non per sentirsi) “qualcuno” (un Io), e non affrettarsi, presumendo di essere già “qualcuno”, a fare “qualcosa”.
Non è così che si può infatti sperare di maturare il pensare (il giudicare) e il sentire.
Ascoltate, per quanto riguarda il pensare, quanto afferma Steiner, ne Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive: “I nostri giudizi hanno davvero qualcosa di essenziale che ha bisogno di maturazione di fronte a tutte le cose. Impariamo a conoscere che, con certi pensieri che abbiamo accolti in noi, dobbiamo semplicemente vivere qualche tempo, in modo che il nostro corpo eterico possa riflettere profondamente, se vogliamo giungere a un giudizio col quale si possa essere d’accordo”.
Per quanto riguarda il sentire, basterebbe invece riflettere sull’esercizio della ”equanimità” (uno dei cosiddetti “cinque esercizi”) per realizzare che abbiamo tanto più modo di maturare il sentire quanto più ci tratteniamo dal tradurre subito in comportamento esteriore quanto sperimentiamo nella nostra anima.
Dice ancora Steiner che “i nervi motori sarebbero, in fondo, i canali del sangue”. Dal momento che avremo modo di riparlarne tra breve, mi limito per ora a rimandarvi a un mio articolo, intitolato appunto: Dei cosiddetti nervi “sensori” e “motori”, pubblicato dalla rivista Kairòs nel numero di marzo-aprile del 1998 (e ripubblicato, col titolo: Nervi sensori e nervi motori, dal nostro “Osservatorio” il 18 settembre 2004 – ndr).
Prima di lasciarci, poniamoci comunque questo interrogativo: perché il nervo tende a morire?
Lo abbiamo detto: perché lo spirito possa uscirne, così come noi, morendo, usciamo dal nostro corpo fisico, lasciandolo sulla Terra come cadavere.
Anche lo spirito lascia indietro il proprio cadavere (il nervo), ma lo utilizza poi come uno specchio, per acquisire così, riflettendovisi, una prima coscienza di sé (una prima autocoscienza).
Come insegna l’esperienza, non è infatti nell’acqua mossa o agitata (viva) che ci si può (al pari di Narciso) rispecchiare distintamente, ma in quella calma o ferma come appunto uno “specchio”.
Non è stato sempre così. Un tempo, il sistema nervoso, rappresentato – spiega Steiner – dalla “lira” di Apollo, era infatti vivo e, in quanto tale, permetteva all’uomo di esperire l’”armonia delle sfere”: ossia quell’”armonia” che noi moderni potremo tornare a udire soltanto sviluppando la coscienza ispirativa.
L.R. – Roma, 18 dicembre 1999
ANTROPOLOGIA 8° Incontro
Dice Steiner: “La fisiologia crede di aver qualcosa in mano quando parla di nervi sensori e motori, ma in realtà non fa che giocare con le parole. Parla di nervi motori perché esiste il fatto che l’uomo diventa impotente a camminare quando certi nervi vengono lesi, per esempio i nervi delle gambe. Si dice che in tale caso l’uomo non può camminare perché i nervi motori, che mettono in movimento le gambe, sono paralizzati. Ma in realtà l’impotenza in questione proviene dal fatto che l’uomo non è capace di percepire le proprie gambe” (pp. 38-39).
Se avete letto l’articolo al quale vi ho rimandato la volta scorsa, non ci sarà molto altro da dire al riguardo.
Vi sarà ormai chiaro, infatti, che il sangue, per così dire, “fa”, mentre il nervo “sa”. E’ grazie al sangue che muoviamo le nostre gambe, mentre è grazie al nervo che sappiamo di muoverle. Grazie al sangue non potremmo però muoverle se grazie al nervo non sapessimo che sono le “nostre”: cioè a dire, che le abbiamo.
Ma perché, allora, la fisiologia parla di nervi “motori”? Perché non potrebbe spiegarsi altrimenti il movimento, che ha – come sappiamo – natura extrasensibile. Mediante gli organi di senso possiamo percepire infatti il “mosso”, ma non il movimento.
La fisiologia, anziché cercare di afferrare l’essenza del movimento del corpo, impegnandosi a sperimentare il movimento (eterico) del pensare, preferisce dunque, più comodamente, attribuire il potere di muoverci a qualcosa di morto (al nervo).
Dice Steiner: “Certamente, anche nella manifestazione corporea noi abbiamo una triplice espressione di tale simpatia e antipatia. Possediamo – per così dire – tre focolai in cui simpatia e antipatia si interpenetrano. Anzitutto ne abbiamo uno nel nostro capo, là dove, collaborando fra loro sangue e nervi, nasce la memoria. Dovunque l’attività dei nervi è interrotta, e dove avviene una specie di salto, esiste un tale focolaio in cui simpatia e antipatia si interpenetrano. Un altro di questi salti lo troviamo nel midollo spinale, là dove un nervo penetra nel corno posteriore del midollo spinale e un altro ne esce dal corno anteriore. Un terzo si trova nei gangli che sono inseriti nel sistema nervoso simpatico. Noi siamo tutt’altro che semplici nella nostra struttura! In tre punti del nostro organismo, nel capo, nel petto e nella parte bassa del corpo, abbiamo confini dove simpatia e antipatia s’incontrano. Nel percepire e volere non avviene un trapasso da un nervo sensitivo a un nervo motore, bensì una corrente diretta salta, per così dire, da un nervo all’altro, e per questo mezzo viene in noi stimolato l’elemento animico: nel cervello e nel midollo spinale” (pp. 39-40).
Nell’articolo ricordato, ho spiegato che il nostro sistema nervoso viene generalmente distinto in due parti: in quella del sistema nervoso “centrale” e in quella del sistema nervoso “autonomo”. La prima viene però suddivisa a sua volta in due parti: in quella “cerebrale”, che ospita i nervi “cranici”, e in quella “spinale”, che ospita i nervi “spinali”. Aggiungendo, a queste due, quella del sistema nervoso “autonomo” (nel quale si distinguono l’ortosimpatico e il parasimpatico), si hanno dunque tre parti, che stanno rispettivamente in rapporto con il “capo”, con il “petto” e con la “parte bassa del corpo”.
In termini antroposofici, è questo il “corpo senziente”. Nello stesso articolo, ho anche precisato che nella parte “cerebrale” del corpo senziente, l’attività (vigile) dell’Io prevale su quella del corpo astrale; che nella parte “spinale”, l’attività (sognante) del corpo astrale prevale su quelle dell’Io e del corpo eterico; e che, nella parte “autonoma”, l’attività (dormiente) del corpo eterico prevale su quella del corpo astrale.
E’ comunque importante tenere presenti due cose.
La prima è che non vi è alcuna differenza, dal punto di vista anatomico, tra i nervi giudicati “sensori” e quelli giudicati “motori”, e che si tratta quindi di una differenza (funzionale) “pensata”, ma non “percepita”.
Che in tale distinzione ci sia qualcosa che non va, induce peraltro a sospettarlo la stessa fisiologia allorché ammette, oltre all’esistenza di nervi “sensori” e di nervi “motori”, quella di nervi cosiddetti “misti”: di nervi, cioè, che possono essere tanto “sensori” quanto “motori”.
La seconda è che nel “meccanismo basato sul gioco alterno dell’eccitamento e della inibizione” – come recita questo manuale –, “considerato ormai un elemento fondamentale nella spiegazione di tutti gli atti del sistema nervoso”, si può benissimo vedere il “gioco alterno” dell’eccitamento, prodotto dalla forza calda della sim-patia, e della inibizione, prodotta dalla forza fredda dell’anti-patia.
“Per la coscienza ordinaria – ha detto Steiner – la volontà è qualcosa di sommamente enigmatico”. Ma la volontà è enigmatica tanto quanto lo è il movimento. Dal punto di vista prettamente energetico (o dinamico), si tratta infatti della medesima forza.
“La realtà – scrive Steiner, nelle sue Massime antroposofiche – consiste dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione tra un essere e un altro”. Il che sta a significare che quanto “non è entità”, è appunto volontà o movimento.
Noi seguiamo – lo sapete – la “via del pensiero”; ma la seguiamo proprio perché è la sola che possa dischiuderci l’”enigma” della volontà, e permetterci di ritrovarla.
Scaligero ha intitolato uno dei suoi libri: La via della volontà solare. Ma se c’è una volontà “solare”, – domandiamoci – vuol dire allora che ce ne sono altre (“non solari”)?
E’ così. Ma la “volontà solare” si distingue da ogni altra perché, in essa, il calore del volere si riunisce alla luce del pensare, restituendo al sentire la sua armonia originaria.
Fatto si è che la luce “fredda” del razionalismo (o dell’intellettualismo) è del tutto incapace di illuminare, educare o umanizzare la volontà. Nessuna meraviglia, dunque, se questa, abbandonata a se stessa, prima o poi si vendica, distruggendo, in modo più o meno cruento, tutti i programmi (“le magnifiche sorti, e progressive”) orgogliosamente concepiti dal pensiero astratto (dalle cosiddette “ideologie”).
Un fatto è certo: la “volontà solare” non è una volontà (naturale e aggressiva) di “potenza” (Nietzsche), né una volontà (intellettuale e buonista) d’”impotenza” (Vattimo, Popper), bensì una volontà d’amore, cui sono chiamati ad aprire il varco – per riprendere il titolo di uno scritto di Steiner – I gradi della conoscenza superiore.
Dice Steiner: “Nel capo noi siamo principalmente capo, ma il sistema in questione si estende all’uomo intero, solo non in linea principale. Benché nella testa abbiamo i veri e propri organi sensori, tuttavia i nostri sensi del tatto e del calore sono estesi al corpo intero; dovunque si provi una sensazione di calore siamo “testa”. Solo che nella testa siamo “principalmente” testa; altrove lo siamo solo “in seconda linea”. Lo stesso dicasi per il sistema ritmico e per il sistema metabolico; i tre sistemi si interpenetrano” (pp. 40-41).
Parlando del pensare, del sentire e del volere, abbiamo già visto che queste distinzioni vanno concepite come “articolazioni funzionali”: ossia, non come (statiche) tricotomie, bensì come (dinamiche) triarticolazioni.
Potremmo anche dire, volendo, che, per concepirle giustamente, si dovrebbe aggiungere, all’occhio dello scienziato, quello (morfologico) dell’artista. Non solo, infatti, è possibile distinguere – come abbiamo fatto – tra la testa, il petto e l’addome (con gli arti), ma è anche possibile ad esempio distinguere nella stessa testa (centro d’irradiazione dell’attività neuro-sensoriale), la parte superiore del cranio e della fronte (espressione diretta del sistema neuro-sensoriale), quella mediana del naso (espressione indiretta del sistema ritmico) e quella inferiore della mandibola (espressione indiretta del sistema metabolico); oppure, nel piede (facente parte del sistema metabolico e degli arti), la parte del tallone (ch’è una sorta di testa), quella della pianta (ch’è una sorta di petto) e quella delle dita (che sono invece autentici arti).
Dice Steiner: “Ora sorge la domanda: perché abbiamo l’opposta polarità tra il sistema della testa e quello del sistema locomotore unito a quello metabolico? (Trascuriamo, per il momento, il sistema di mezzo). L’abbiamo perché, in un determinato momento, il sistema della testa viene “espirato” dal cosmo. Dall’antipatia del cosmo proviene all’uomo il sistema del capo. Quando ciò che l’uomo porta in sé “ripugna” tanto fortemente al cosmo che questo lo espelle, ne deriva, quale immagine, il capo. Nel capo, con la sua forma rotonda, l’uomo porta veramente in sé l’immagine del cosmo, che questo, per antipatia, espelle da sé. Noi possiamo servirci del nostro capo, quale organo per conseguire la libertà, perché il cosmo lo ha espulso da sé” (p. 41).
Che cosa è dunque il capo umano? Un escreto o un escremento (“minerale”) del cosmo. Un escreto o un escremento assai prezioso, però, perché è grazie a questo che l’uomo può godere della sua libertà. Le piante e gli animali, proprio in quanto non “espirati” o “espulsi” dal cosmo (oppure “non nati”, in quanto ancora racchiusi nell’utero cosmico), non sono infatti liberi.
Per l’uomo, una tale “espirazione” o “espulsione” equivale naturalmente a una morte. Ma è appunto grazie a questa morte – lo abbiamo detto – che nasce la libertà. Certo, la libertà da (dal cosmo o dallo spirito), e non ancora la libertà per (per il cosmo o per lo spirito). Ma è proprio per poter passare dalla libertà negativa (vuota di spirito vivente) a quella positiva (piena di spirito vivente) che Steiner ci ha indicato il cammino de La filosofia della libertà.
Dice Steiner: “Non consideriamo giustamente il nostro capo se lo pensiamo inserito nel cosmo altrettanto intensamente di come lo è il nostro sistema del ricambio e delle membra (che abbraccia anche la sfera del sesso). Il nostro sistema del ricambio e delle membra è inserito nel cosmo, e il cosmo lo attira a sé, ha simpatia per esso, come invece ha antipatia rispetto al capo. Nel capo la nostra antipatia incontra l’antipatia del cosmo; esse si urtano, e da questo urtarsi delle nostre antipatie con quelle del cosmo nascono le nostre percezioni” (p. 42).
Ricordate Leopardi? “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…”.
E’ dunque una “siepe” a opporsi allo sguardo che vorrebbe raggiungere l’”ultimo orizzonte”: è cioè una percezione determinata o finita a opporsi allo sguardo che vorrebbe raggiungere una percezione indeterminata o infinita (quella, giustappunto, de L’infinito).
Ebbene, se si può mettere sicuramente in rapporto la percezione indeterminata con la sim-patia (“E il naufragar m’è dolce in questo mare”), si può mettere altrettanto sicuramente in rapporto la percezione determinata con l’anti-patia. Dobbiamo però ricordarci della nota proposizione di Spinoza (ritenuta da Hegel “di una importanza infinita”): “Omnis determinatio est negatio” (“Ogni determinazione è una negazione”), e riconoscere in tale negazione un’espressione dell’anti-patia.
Ascoltate quanto dice al riguardo Hegel (nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche): “L’essere determinato è l’essere con un determinato carattere (…) L’astrarre dell’intelletto è il violento afferrarsi a una determinazione, uno sforzo per oscurare e allontanare la coscienza dell’altra determinazione che colà si trova”.
Ma come si potrebbe operare un simile “sforzo”, se non si potesse far leva sull’anti-patia?
Tornando al poeta, è dunque l’anti-patica (benché “cara”) percezione determinata della siepe a impedire la sim-patica percezione indeterminata “dell’ultimo orizzonte”.
Sarà bene riflettere su queste cose, perché l’affermare – come fa qui Steiner – che dall’”urtarsi delle nostre antipatie con quelle del cosmo nascono le nostre percezioni” potrebbe sembrare a prima vista in contraddizione con l’affermare – come lo stesso Steiner ha fatto in precedenza – che “dalla fantasia (e quindi dalla sim-patia – nda) sorge l’immaginazione che dà la percezione dei sensi”.
Potrebbe, ma non è così. Dalla fantasia – dice infatti Steiner – sorge l’immaginazione, non l’immagine percettiva: sorge cioè l’attività indeterminata dell’immaginare, e non una percezione determinata (un “immaginato”).
Ove poi ci ricordassimo di quanto ha già detto, in rapporto alla memoria (“Qui abbiamo il nesso tra l’antipatia, che è semplice sentimento che respinge in maniera ancora indeterminata, e il riflesso preciso dell’attività di percezione esercitata immaginativamente nel ricordo”), più facilmente realizzeremmo che anche la sim-patia (da cui scaturisce l’immaginazione) “è semplice sentimento” che attrae “in maniera ancora indeterminata”.
Fatto sta che ci si può giustamente orientare in queste cose (in particolare, nel “gioco alterno” della corrente calda della sim-patia e di quella fedda dell’anti-patia), soltanto se – come dicemmo quando ci occupammo de La filosofia della libertà – ci si abitua a distinguere, nell’ambito del processo percettivo, tanto il momento iniziale (sim-patico) dell’atto percettivo da quello finale (anti-patico) dell’immagine percettiva, quanto il ruolo che vi svolge l’incosciente (sim-patico) percetto da quello che vi svolge il cosciente (anti-patico) concetto.
Ricordiamoci, a quest’ultimo proposito, che la rappresentazione è un’illustrazione del concetto, e non – come in genere si crede – dell’oggetto.
A suo tempo (parlando di Hume e dell’empirismo), ho infatti richiamato la vostra attenzione sul fatto che dall’esperienza (dalla percezione), non nasce il concetto (o l’idea), bensì la coscienza del concetto; e ch’è vero, quindi, che ci è necessaria l’esperienza, ma che ci è necessaria per poter prendere appunto coscienza del concetto (mediante la sua rappresentazione). Se non lo percepissimo e pensassimo, il concetto esisterebbe lo stesso, ma sconosciuto.
Dice Steiner: “Alla luce di queste considerazioni riconoscerete perciò più facilmente la grande differenza che passa tra la formazione della volontà e la formazione della rappresentazione. Se nell’educazione agite prevalentemente su quest’ultima, ricacciate l’uomo intero nella vita prenatale; e gli arrecherete danno, perché lo alleverete razionalisticamente, imprigionando la sua volontà in ciò ch’egli ha già compiuto prima di nascere. Non dovete mescolare troppe nozioni astratte in ciò che portate incontro al fanciullo che avete da educare; dovete dargli piuttosto molte immagini. E perché? Perché queste sono immaginazioni, e passano per la fantasia e la simpatia. I “concetti”, invece, sono astrazioni, passano per la memoria e l’antipatia, provengono dalla vita prenatale” (p. 42).
Potremmo dunque dire (schematizzando) che l’educazione (scolastica) della prima metà della vita, dovrebbe consistere nel portare, in modo artistico, l’anti-patia (il pensare cosciente) incontro alla sim-patia (al volere incosciente), mentre la libera autoeducazione della seconda metà della vita dovrebbe consistere nel portare, in modo scientifico-spirituale, la sim-patia (il pensare immaginativo, ispirativo e intuitivo) incontro all’anti-patia (al pensare intellettuale o rappresentativo).
Ascoltate, infatti, quel che dice Hegel della (vera) scienza: “La verità della scienza è una luce tranquilla che illumina e allieta tutto, quasi un calore in cui tutto germoglia e prospera e il quale dispiega nell’ampiezza della vita i tesori interni”.
Come si vede, una scuola che ignori le reali necessità del bambino, e che lo costringa perciò a una precoce, fredda e unilaterale intellettualizzazione, può danneggiarne il presente e pregiudicarne l’avvenire: può raggelarne cioè l’anima, impedendogli, un giorno, di attraversare, in modo “indolore”, la soglia che divide la prima dalla seconda metà della vita, e di dare così vero significato alla vita, al destino e alla morte.
L.R. – Roma, 23 dicembre 1999
ANTROPOLOGIA 9° Incontro
La settimana scorsa abbiamo finito la seconda conferenza. Stasera cominceremo quindi la terza. Prima, però, vorrei dire ancora qualcosa sui danni che può provocare un’educazione che non tenga conto delle necessità animico-spirituali del bambino.
Ogni bambino è un essere che proviene dal mondo spirituale, e che, per affrontare la sua nuova vita terrena, ha bisogno di allontanare la sua vita prenatale; per poterlo fare, abbisogna della fredda anti-patia; ma la fredda anti-patia – ed è questo il punto – gli va portata incontro con calda sim-patia.
Il calore materno, il calore paterno e quello degli educatori servono infatti a evitare che il bambino cominci la sua avventura terrena prendendosi una pericolosa “infreddatura” (animica). Non si tratta solo di sentimento (di mettere ad esempio il bambino, con calore e affetto, davanti alla televisione o al computer), ma anche, e in primo luogo, di consapevolezza.
Non c’è infatti da stabilire se il bambino debba o non debba essere portato verso l’intellettualità, ma da stabilire in qual modo debba esservi portato, rispettando i tempi e le esigenze del suo sviluppo interiore.
Ricordate (lo abbiamo visto la volta scorsa) ciò che Steiner ha detto agli insegnanti lì presenti? “Non dovete mescolare troppe nozioni astratte in ciò che portate incontro al fanciullo che avete da educare; dovete dargli piuttosto molte immagini”.
E perché? Perché le immagini, passando “per la fantasia e la simpatia”, sanno toccare con garbo e delicatezza le corde di un’anima da poco giunta sulla Terra, e ancora sensibile, quindi, ai modi in cui s’intesse la vita prenatale.
Potremmo anche dire, volendo, che il bambino è pronto a “digerire” le immagini, ma non ancora le nozioni o i concetti astratti; e che bisognerebbe perciò svezzarlo animicamente dalla fantasia con la stessa cura e gradualità con cui lo si svezza materialmente dal latte.
In tempi di materialismo, però, viene giudicato sconsiderato dare a un bambino di pochi mesi il salame o la porchetta, ma non dare a un bambino di sei o sette anni i video-giochi o il computer.
Si tratta infatti di tempi che conoscono (in una certa misura) le leggi che presiedono alla crescita fisica del bambino, ma non quelle che presiedono alla sua crescita animico-spirituale.
Fatto si è che durante tutta la nostra vita, e non solo nell’infanzia, siamo (sanamente) in bilico tra la corrente calda della sim-patia e quella fredda dell’anti-patia, e basta poco per farci cadere (patologicamente) da una parte o dall’altra.
Ove nel nostro cervello, ad esempio, diventasse eccessiva la corrente della sim-patia, potremmo cadere vittime di un “rammollimento cerebrale”; così come, ove vi diventasse eccessiva la corrente dell’anti-patia, potremmo cadere vittime di una “sclerosi cerebrale”.
Abbiamo detto, la volta scorsa, che una scuola che ignori le reali necessità del bambino può danneggiarne il presente e pregiudicarne l’avvenire. Quanto viene seminato durante la prima metà della vita, o, più precisamente, nel corso dei cinque settenni che vanno dalla nascita ai 35 anni, viene infatti raccolto durante la seconda metà della vita, in quanto il settennio che va dai 28 ai 35 anni è sottilmente collegato a quello che va dai 35 ai 42, così come quelli che vanno dai 21 ai 28, dai 14 ai 21, dai 7 ai 14, e dalla nascita ai 7 anni, sono rispettivamente collegati a quelli che vanno dai 42 ai 49, dai 49 ai 56, dai 56 ai 63, e dai 63 ai 70 anni.
Occorrerebbe tener conto, in particolare, che dalla nascita ai 7 anni (fino al cambio dei denti) viene seminato ciò che serve allo sviluppo del corpo fisico; e che dai 7 ai 14, dai 14 ai 21 e dai 21 ai 28 anni, viene seminato ciò che serve invece, rispettivamente, allo sviluppo del corpo eterico, del corpo astrale e dell’Io (della coscienza dell’Io).
Seminando (nei contenuti e nei modi) ciò che è davvero necessario, consentiremmo quindi al bambino di maturare la coscienza intellettuale senza esaurire quelle forze che dovrebbero permettergli, in seguito, di superarla e integrarla con la coscienza immaginativa, con la coscienza ispirativa e con quella intuitiva.
Una cosa, infatti, è godere del bene dell’intelletto, altra patire il male dell’intellettualismo: ossia, di quella elefantiasi o perversione del pensiero astratto (e per compensazione logorroico) che fatalmente consegue a uno sviluppo meramente orizzontale o quantitativo (e non quindi verticale o qualitativo) dell’intelletto (o – come direbbe uno psicanalista – a una “fissazione” alla fase rappresentativa dello sviluppo della coscienza).
Ha sottolineato Steiner (lo abbiamo visto l’ultima volta) che c’è una “grande differenza” tra la formazione (etica) della volontà e la formazione (noetica) della rappresentazione.
Oggi si privilegia però l’informazione, e non la formazione, senza granché preoccuparsi (nonostante gli inquietanti sintomi rilevabili nel mondo giovanile) del fatto che l’informazione (soprattutto, se unilaterale) possa non solo non-formare, ma addirittura de-formare.
Ma passiamo adesso alla terza conferenza.
Dice Steiner: “La conoscenza della psicologia è, al nostro tempo, assai debolmente sviluppata; soffre soprattutto dei postumi effetti di quel dogma della Chiesa, fissato nell’869, dal quale è stata oscurata la conoscenza, ben nota in tempi più antichi e più istintivi, che l’uomo sia costituito di corpo, anima e spirito. Oggi, dove si tratta di psicologia, sentirete parlare quasi dappertutto solo di una duplice divisione dell’essere umano. Sentirete dire ch’egli è composto di corpo e d’anima, oppure di corpo e spirito; intendendosi l’”anima” e lo “spirito” come suppergiù equivalenti, e così pure il “corpo” nel senso fisico e il “corpo” nel senso biologico. Quasi tutte le psicologie poggiano su questa errata divisione in due parti, che impedisce di arrivare ad una conoscenza reale dell’essere umano. Da ciò deriva che quasi tutto quello che oggi si considera psicologia non penetra veramente nell’intima essenza dell’essere umano, e spesso è soltanto un gioco di parole” (p. 45).
I greci, in effetti, distinguevano il sòma (il corpo “nel senso fisico”) dalla physis (dal corpo “nel senso biologico”), e Paolo di Tarso e Origene distinguevano l’uomo “spirituale” (“pneumatico”) dall’uomo “psichico”.
Per mostrare quanto sia deleteria, ai fini di “una conoscenza reale dell’essere umano”, la rimozione della coscienza dello spirito (dell’Io) di cui parla qui Steiner, potremmo prendere spunto dalla teoria dei colori di Goethe.
Il colore è un fenomeno direttamente osservabile. Ma come nasce? Nasce – afferma Goethe – dall’incontro o dallo scontro della luce con la tenebra: dall’interazione, cioè, di due opposte realtà. E’ impossibile pertanto comprenderlo se non si risale al gioco di forze da cui scaturisce, e che lo determina.
Ebbene, lo stesso potremmo dire dell’anima. Come il colore nasce infatti dall’incontro o dallo scontro della luce con la tenebra, e viene quindi a porsi, quale terzo, in mezzo alle due, così l’anima nasce dall’incontro o dallo scontro dello spirito col corpo, e viene a porsi, quale terza, in mezzo ai due.
Da una parte, dunque, lo spirito, dall’altra il corpo, e al centro l’anima. E’ impossibile pertanto conoscere l’anima se – come fa la psicologia contemporanea – non si considera questa dinamica triarticolazione.
La psicoanalisi freudiana, ad esempio, considera soltanto la realtà del corpo (e della psiche quale suo mero “epifenomeno”), mentre la psicologia analitica junghiana vorrebbe, sì, considerare anche la realtà dell’”anima”, ma, continuando a ignorare quella dello spirito, finisce per ritrovarsi tra le mani solo una “psiche”, schiava come sempre del corpo.
Pensate, per un attimo, all’immagine (assai cara, peraltro, agli psicoterapeuti junghiani) di San Giorgio che affronta il drago per liberare la fanciulla. Vedete, i protagonisti di questa impresa “archetipica” sono per l’appunto tre: San Giorgio, che simboleggia lo spirito; il drago che simboleggia il corpo; la fanciulla che simboleggia l’anima.
Ebbene, che cosa accadrebbe se si eliminasse San Giorgio? E’presto detto: che la fanciulla rimarrebbe prigioniera del drago.
Alla psicologia più recente, ciò non sembra però bastare. Mostra infatti di desiderare, a chiare lettere, che il drago non si limiti a tenere prigioniera la fanciulla, ma che la divori (risucchiandola nel cervello).
Oggi, alla rimozione della coscienza dello spirito, sta facendo infatti seguito la rimozione – patrocinata appunto dalla psicologia (e dalle neuroscienze) – della coscienza dell’anima.
Dice Steiner: “A sua volta questa falsa concezione proviene da un altro gravissimo errore, estesosi specialmente nella seconda metà del secolo XIX, quando venne fraintesa una conquista, in sé veramente grande, della scienza fisica. Sapete che il nome di Julius Robert Mayer (1814-1878 – nda) è conosciuto in relazione alla cosiddetta legge della conservazione della forza o dell’energia. Questa legge afferma che la somma di tutte le forze o energie esistenti nell’universo è costante, che tali energie possono soltanto trasformarsi, in modo che una forza si manifesta una volta come calore, un’altra volta come forza meccanica, e così via. Ma presentando in questa forma la legge di Julius Robert Mayer, la si fraintende radicalmente; ché egli mirava a mettere in luce la metamorfosi delle energie, non già ad enunciare una legge così astratta come quella della conservazione dell’energia. Che cosa è questa legge, vista in una grande concatenazione di fatti nella storia della civiltà umana? E’ un grandissimo ostacolo alla comprensione dell’uomo in genere. Infatti, quando si neghi davvero che delle forze vengano mai a formarsi di nuovo, non si potrà arrivare ad una conoscenza del vero essere dell’uomo, poiché questo vero essere dipende appunto dal fatto che per suo mezzo vengono continuamente generate nuove forze. Certamente, nell’insieme delle condizioni in cui noi viviamo nel mondo, l’uomo è l’unico essere nel quale vengano a formarsi nuove forze, ed anche (come vedremo in seguito) nuove materie. Ma siccome la concezione odierna del mondo non vuole accogliere gli elementi che porterebbero a conoscere pienamente anche l’uomo, così propugna la legge della conservazione dell’energia la quale, in certo senso, non disturba quando si considerino unicamente gli altri regni della natura: minerale, vegetale e animale; annulla invece ogni vera conoscenza non appena ci si voglia accostare all’uomo” (pp. 45-46).
Un interessantissimo esempio del fatto che il principio di conservazione dell’energia (in base al quale non è possibile creare energia ma solo trasformarla) rappresenti – come dice Steiner – “un grandissimo ostacolo alla comprensione dell’uomo” ci viene fornito (suo malgrado) dal celebre neurofisiologo australiano John Eccles.
In questo suo libro, Come l’io controlla il suo cervello (Rizzoli, Milano 1994 – ndr), egli fa la seguente affermazione: “Approfonditi studi sperimentali stabiliscono che le intenzioni mentali (psiconi) possono efficacemente attivare la corteccia cerebrale”.
Ma che cosa sono gli “psiconi”? Sono – spiega Eccles – le “unità mentali” che interagiscono con le “unità nervose” (con i “dendroni” della neocorteccia), precisando che “possono esistere indipendentemente dai dendroni in un mondo esclusivo di psiconi, che è il mondo dell’io”, e che ci potrebbero perciò “essere milioni di psiconi, ciascuno connesso in modo esclusivo con i milioni di dendroni”.
Ho fatto già notare – in altre occasioni – che questo “mondo esclusivo di psiconi, che è il mondo dell’io”, altro non è, in realtà, che il mondo delle idee (come sempre “delle idee” è quel mondo che Jung ha chiamato “degli archetipi in sé”).
Che cosa hanno dunque stabilito “approfonditi studi sperimentali”? Che le “intenzioni mentali”, gli “psiconi”, o le idee (esistenti “indipendentemente dai dendroni”) possiedono un’energia capace di determinare non solo un’attività nervosa, ma anche un previo aumento del flusso sanguigno cerebrale (nella regione interessata).
“Si può prevedere – afferma per l’appunto Eccles – che in futuro si scoprirà che l’immensa serie di pensieri silenziosi di cui siamo capaci è in grado di promuovere attività in così tante regioni specifiche della corteccia cerebrale che gran parte della neocorteccia si potrà considerare sotto l’influenza mentale del pensiero”.
Bene, e come la mettiamo, allora, col principio di conservazione dell’energia? “Per le leggi di conservazione della fisica – ricorda infatti Eccles – si è comunemente creduto che gli eventi mentali non-materiali non potessero esercitare alcuna azione efficace sugli eventi neuronali del cervello”.
Che fare, dunque? Rimettere in discussione la validità, nel caso dell’uomo, di tale principio, o cercare una qualche via che consenta invece di salvaguardarlo?
Eccles ha optato, purtroppo, per questa seconda alternativa, trovando rifugio nelle brume della fisica quantistica (e non nella luce dei qualia o, giustappunto, delle idee).
Ascoltate, infatti, come conclude il suo scritto: “Si ravvisa quindi un livello superiore di complessità nervosa, per arrivare a comprendere il modo in cui la mente può influenzare efficacemente il cervello nelle decisioni coscienti, senza infrangere le leggi di conservazione della fisica” (corsivo nostro).
Fatto sta che il mondo supposto da tali leggi ricorda molto da vicino un caleidoscopio. Come tutti sanno, ruotando un’estremità di questo strumento appaiono figure sempre diverse, ma i frammenti di vetro colorato che le formano sono (per qualità e numero) sempre gli stessi.
Si tratta perciò di un mondo in cui è vano parlare di libertà e creatività.
Notate bene che Steiner non intende “abolire” questa legge, ma portarla, per così dire “a compimento”: a questa legge, che “non disturba” – come ha detto – fin quando si considerano i regni minerale, vegetale e animale, intende infatti aggiungere la “legge” dello spirito (dell’Io): ossia quella della libertà.
Si applica dunque all’uomo il principio di conservazione dell’energia perché lo si ritiene un animale, e lo si ritiene un animale perché gli si applica un siffatto principio (sarebbe interessante peraltro sapere che cosa pensano i sedicenti cristiani di un principio che nega la possibilità che si dia una “Buona Novella”, o che venga “raddrizzata la via del Signore”, dal momento che “sotto il sole – come si usa dire – non c’è, e mai ci sarà, nulla di nuovo”).
Dice Eccles – lo avrete notato – che il mondo degli psiconi “è il mondo dell’io”. Ma non è così. Una cosa infatti è l’Io, altra il mondo delle idee. E che cos’è l’Io? Una sorta di “foro” attraverso il quale, e solo attraverso il quale, penetra incessantemente nel mondo la forza creatrice dello spirito. Non è dunque “pieno di sé” come l’ego, bensì “vuoto di sé”, e per ciò stesso ricolmo di spirito.
La nostra vita – lo abbiamo detto – si divide grosso modo in due parti. Nella prima metà, si realizza soprattutto il karma, e quindi la necessità. Il nostro destino, per concretarsi, deve infatti dispiegarsi nel tempo e nello spazio. Nella seconda metà dovremmo invece sviluppare la nostra libertà. Solo questa può infatti permetterci di oggettivare la necessità, e quindi di conoscere (e magari modificare) il karma.
Superfluo dire che le forze arimaniche, che ispirano gli “oggettivisti” (assolutisti), militano per una necessità che esclude la libertà (per il “determinismo”), mentre quelle luciferiche, che ispirano i “soggettivisti” (relativisti), militano per una libertà che esclude la necessità (per il cosiddetto “libero arbitrio”).
Né gli uni, né gli altri riescono dunque ad andare al di là del dualismo di oggettività e soggettività (Eccles si definisce non a caso un “dualista interazionista”). Entrambi, ignorando lo spirito (la vera libertà), non riescono insomma a emanciparsi dai punti di vista imposti al pensiero dalle loro rispettive e contrastanti nature.
Lasciate comunque che vi legga, per concludere, questo eloquente passo della prima lettera di Paolo ai Corinzi: “Chi mai conobbe i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito del mondo, ma lo spirito di Dio per conoscere i doni che egli ci ha elargito. E questi noi li annunziamo, non con insegnamenti di sapienza umana, ma con insegnamenti dello Spirito, esponendo cose spirituali a persone spirituali. L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui e non è capace di intenderle perché se ne giudica solo per mezzo dello Spirito”.
L.R. – Roma, 30 dicembre 1999
ANTROPOLOGIA 10° Incontro
Risposta a una domanda
Provi a pensare a un metallo: ad esempio, al piombo. Ci appare come una sostanza grigiastra, ma la sostanza che vediamo e tocchiamo non è il piombo, bensì la manifestazione fisica (minerale) del piombo. Se ne assumessimo una certa quantità (inalandola come polvere o assorbendola attraverso la pelle), vedremmo infatti che da tale sostanza – come purtroppo sanno quanti sono affetti da “saturnismo” – si sprigiona un processo, un processo qualitativamente diverso da quello che si sprigionerebbe se assumessimo magari dell’argento.
Il piombo, prima ancora che una sostanza, è dunque un’essenza. Mediante un processo d’incarnazione, l’essenza si trasforma in sostanza e, mediante uno di dis-incarnazione, la sostanza si trasforma in essenza.
Dal punto di vista puramente energetico (eterico), il processo che si sprigiona dal piombo non è diverso da quello che si sprigiona dagli altri metalli. Perché si dia una differenza deve infatti intervenire la qualità: deve cioè intervenire, oltre al corpo (alla sostanza) e al processo (alla forza), anche l’essenza del metallo.
Nella natura, l’essenza è più “reale” del processo (in quanto lo emana), e il processo è più “reale” della sostanza (in quanto la genera), mentre alla nostra coscienza ordinaria (vincolata alla percezione sensibile) la sostanza appare “reale”, mentre il processo, e a maggior ragione l’essenza, appaiono meri concetti astratti.
S’insegna – è vero – che “la funzione sviluppa l’organo”, ma ci si ritrova poi con un livello di coscienza capace di percepire e pensare l’organo, ma non la funzione, che decade così a inferenza o ipotesi astratta.
Certo, pensare che una funzione astratta possa sviluppare un organo concreto è un’incongruenza. Ma, di questi tempi, chi volete che se ne preoccupi?
Riprendiamo però adesso la nostra lettura.
Dice Steiner: “Come insegnanti, verrete a trovarvi nella necessità di rendere intelligibile ai vostri allievi la natura, da un lato, e dall’altro di condurli ad una certa comprensione della vita spirituale (…) Rivolgiamo quindi il nostro sguardo, anzitutto, alla natura esteriore (…) Quando ci troviamo di fronte alla natura in modo da rivolgerle il nostro pensiero, le nostre rappresentazioni, noi in verità ne afferriamo solo quel tanto che di essa si trova in un continuo processo di morte. E’ questa una legge estremamente importante. Rendetevene ben chiaramente conto: per belle che siano le leggi naturali, che potete scoprire con l’aiuto dell’intelletto, delle forze della rappresentazione, esse si riferiscono sempre a ciò che, nell’ambito della natura, perisce” (pp. 46-47).
Per quale ragione – come dice Steiner – “quando ci troviamo di fronte alla natura in modo da rivolgerle il nostro pensiero, le nostre rappresentazioni, noi in verità ne afferriamo solo quel tanto che di essa si trova in un continuo processo di morte”? Per la semplice ragione che le rivolgiamo la parte morta di noi (l’intelletto).
Dal momento che “il simile conosce il simile”, questa ci mette in grado di scoprire le leggi che governano la parte inorganica (minerale) della natura, ma non quelle che ne governano la parte organica (vegetale) e quella animica (animale).
La natura organica e quella animica sono però presenti anche in noi. Su quella minerale si sorregge infatti il “conscio” (la coscienza e l’autocoscienza rappresentative), mentre tanto su quella organica (dormiente) che su quella animica (sognante) si sorregge il cosiddetto “inconscio”.
In noi, dunque, dove la natura muore, nascono la coscienza e l’autocoscienza, e dove la natura vive muoiono la coscienza e l’autocoscienza. Dove nascono la coscienza e l’autocoscienza nasce pure lo spirito. Nasce però – lo abbiamo detto – quale “immagine” o spirito morto.
Il frutto dell’autocoscienza morta dello spirito (dell’Io) è l’ego. Ed è appunto dall’ego che deve partire chiunque intenda gradualmente sviluppare, dell’Io, una coscienza viva (immaginativa), una coscienza qualitativa (ispirativa) e una coscienza spirituale (intuitiva): chiunque intenda insomma trasformare l’ego, rispettivamente, nel “Sé spirituale”, nello “Spirito vitale” e nell’”Uomo spirituale”.
Nello sviluppo della coscienza e dell’autocoscienza si danno dunque dei salti di qualità, ma si dà pure – è importantissimo sottolinearlo – una continuità. E qual è questa continuità? Quella dello stato di veglia. Di norma, godiamo infatti di questo stato finché ci serviamo dei sensi e dell’intelletto, ma lo perdiamo non appena abbandoniamo gli uni e l’altro per dormire e sognare.
In che cosa consiste, dunque, l’evoluzione spirituale? Nel condurre la coscienza e l’autocoscienza a sperimentare in stato di veglia quanto normalmente si sperimenta negli stati di sogno, di sonno e di morte.
Che cosa sperimentiamo infatti, ordinariamente, allo stato di veglia? Soltanto il “creato” (e noi stessi quali “creature”). Il “creare”, i “creanti” e il “Creatore” (dei “creanti”) ci limitiamo invece a sperimentarli – come abbiamo appena detto – sognando, dormendo e morendo.
Sperimentiamo e conosciamo perciò il “creato” in virtù dello spirito “creato”, e, in quanto tale, morto (come viene bene espresso dal participio passato). Mai potremmo dunque conoscere, con lo stesso spirito (profano), il “creare”, i “creanti” e il “Creatore” (dei “creanti”): per poter far questo è necessario infatti “santificare” lo spirito.
Ascoltate che cosa dice appunto Paolo: “Coloro infatti che vivono secondo la carne, nutrono pensieri per le cose della carne, mentre coloro che vivono secondo lo spirito, hanno il pensiero rivolto alle cose dello spirito” (Rm 8,5 – ndr).
Risposta a una domanda
Supponga di fare l’esercizio della concentrazione operando una serie di somme: ad esempio, 6+7=13; 13+8=21; 21+9=30; 30+10=40; e così via. All’inizio, per non sbagliare le somme, sarà attento soprattutto ai numeri. Poi sposterà la sua attenzione dai numeri ai segni “più” e “uguale”. Ora, se i numeri potrebbero rappresentare, che so, delle mele o delle pere, cioè delle cose concrete, quei segni rappresentano invece delle relazioni tra cose: delle relazioni che rivestono, in un caso, la qualità del “più” e, nell’altro, quella dell’”uguale”. Tanto l’uno che l’altro segno costituiscono, per così dire, un “tessuto connettivo” deputato a colmare la lacuna che divide (in ossequio al principio d’”identità”) ad esempio i numeri 6, 7 e 13.
Ho detto che il “più” e l’”uguale” costituiscono una sorta di “tessuto connettivo”, ma avrei potuto anche dire che sono il “filo” che collega i singoli numeri. Quello stesso invisibile “filo” che, non a caso, collega (o dovrebbe collegare) anche i nostri ragionamenti o i nostri discorsi.
Questo “filo” è quel “pensare inosservato” di cui parla Steiner, ne La filosofia della libertà.
Abbiamo appena visto che le relazioni possono rivestire qualità diverse, e quindi rimandare a realtà diverse. Quelle rappresentate dal segno “più” (+) e dal segno “meno” (-) rimandano infatti alla realtà inorganica (al corpo fisico): l’aggiungere o il sottrarre qualche barattolo a un mucchio di barattoli non muta infatti la natura del “mucchio” (dell’aggregato). Quella rappresentata dal segno “per” (x) rimanda invece alla realtà vivente (al corpo eterico), come potrebbe egregiamente esemplificare la proliferazione o per l’appunto la “moltiplicazione” cellulare (magari della morula). Quella rappresentata dal segno della “divisione” (:) rimanda infine alla realtà qualitativa (del corpo astrale), cui si deve, ad esempio, non solo l’arresto della mera proliferazione delle cellule (la gastrulazione), ma anche, e soprattutto, la loro differenziazione o specializzazione (massima – com’è noto – nella sfera cerebrale).
Detto questo, potremmo allora domandarci: ma che cos’è (in sé) o, per meglio dire, chi è la relazione? E’ l’Io, attivo sul piano eterico. Solo l’Io, mediante appunto il relazionare, può infatti fare del molteplice l’uno: ovvero, quell’uno che l’Io stesso è.
Dice Steiner: “Totalmente diverso dalle leggi naturali che si riferiscono a ciò che muore, è quello che si sperimenta quando si rivolge alla natura la volontà vivente che esiste dentro di noi in germe (…) Quel che mette in rapporto col mondo esterno per mezzo dei sensi (voglio dire dei 12 sensi nel loro insieme) non è di natura conoscitiva, ma volitiva. L’uomo moderno ha totalmente perduto la conoscenza di questo fatto. Perciò considera infantile quel che dice Platone, cioè che il nostro vedere proviene dal fatto che una specie di tentacoli si sprigioni dagli occhi e vada verso le cose. Questi tentacoli non sono naturalmente visibili con mezzi esterni, e se Platone ne era cosciente, ciò dimostra appunto ch’egli era penetrato nel mondo soprasensibile. Effettivamente, quando noi guardiamo gli oggetti, si compie, solo in maniera più sottile, un processo simile a quello che avviene quando afferriamo qualche cosa. Quando prendiamo in mano un pezzo di gesso, si tratta di un fatto fisico del tutto analogo a quello spirituale che si svolge quando scocchiamo dagli occhi le forze eteriche per afferrare un oggetto per mezzo della vista” (p. 47).
Lasciamo per ora da parte i “dodici sensi”, poiché avremo modo di parlarne in seguito. Osserviamo, piuttosto, che se il pensare è normalmente un mistero, il percepire (volere) lo è ancor di più. Del primo, infatti, abbiamo almeno, nella coscienza, l’”immagine” o lo spento riflesso, mentre, del secondo, non abbiamo assolutamente nulla. Tanto che qualcuno (se non ricordo male, il celebre psicoanalista freudiano Cesare Musatti) ha addirittura proposto di cancellare la parola “volontà” dai testi di psicologia.
Fatto sta che dovremmo imparare a distinguere la realtà (statica) dell’organo di senso da quella (dinamica o volitiva) dell’attività che per suo mezzo si esplica. Un conto, ad esempio, sono gli occhi, altra il vedere. Non sono gli occhi a vedere, ma è l’Io a vedere attraverso gli occhi.
Dice Steiner che l’uomo moderno “considera infantile” quel che afferma al riguardo Platone. Ma “infantile” si dimostra semmai l’uomo moderno allorché riferisce al piano fisico, e non a quello eterico, quanto detto da Platone.
Del resto, accade lo stesso con Ippocrate. Il suo asserire che l’isteria (da hystéra = “utero”) è prodotta da uno spostamento verso l’alto dell’utero, suscita grande ilarità nei moderni, che, come al solito, interpretano questa sua asserzione in chiave materiale.
In questi casi, sarebbe saggio ricordarsi di quanto dice il TAO-TÊ-CHING: “Il perfetto sapiente comprende la Via / E in essa saldamente si stabilisce / L’imperfetto sapiente comprende la Via / E ora la segue, ora la perde / Il sapiente d’infimo rango sentendo parlare della Via / Ride di essa / Se costui non ne ridesse la Via non sarebbe la Via”.
Anche Ippocrate, come Platone, “era penetrato nel mondo soprasensibile”. “Ippocrate” non è infatti un nome comune di persona, come, che so, Mario, Giovanni o Pasquale, bensì un nome “esoterico” o “iniziatico”. Veniva detto “Ippocrate” colui che aveva “potere [kràtos] sul cavallo [hìppos]”, in quanto il cavallo era simbolo o epitome dell’intero regno animale, e quindi dell’animalità.
Tornando al vedere, non è comunque raro che, in barba ai sapienti “d’infimo rango”, ci capiti di dire (sia lode al “genio del linguaggio”!) che “ci sentiamo osservati”, quasi avvertissimo che lo sguardo altrui, scrutandoci, effettivamente ci tocca o ci palpa.
Fatto sta che noi ci spingiamo con forza (con la forza della sim-patia) verso il mondo perché lo amiamo (come lo amano i bambini). Con la coscienza non ci troviamo però all’altezza di questa forza. Anzi, l’ostacoliamo, poiché a muovere la coscienza ordinaria – come sappiamo – è l’anti-patia.
Si viene così a creare una tragica cesura tra ciò che la nostra volontà realmente (ma inconsciamente) vuole, e ciò che noi pensiamo (coscientemente) di volere (ma che, in realtà, ci limitiamo soltanto a “desiderare” o “bramare”).
Che tale cesura sia invero “tragica” lo dimostra il fatto che è proprio da questa che Steiner prende le mosse ne I punti essenziali della questione sociale.
Ascoltate che cosa dice: “Potrebbe infatti essere che la tragedia che si manifesta oggi (1919 – nda) nei tentativi di soluzione della questione sociale abbia le sue radici proprio in un malinteso delle vere tendenze proletarie; in un malinteso anche da parte di coloro che da questa tendenza hanno derivato le loro concezioni, poiché non è affatto detto che l’uomo si formi sempre il giusto giudizio intorno a quel ch’egli stesso vuole (corsivo nostro). Possono perciò sembrare giustificate le seguenti domande: Che cosa vuole veramente il movimento proletario moderno? Corrisponde questo suo volere a ciò che comunemente si pensa in proposito da proletari e da non proletari? Si manifesta il vero aspetto della questione sociale in quel che molti pensano intorno ad essa? Oppure è necessario seguire una direttiva di pensiero del tutto diversa?”.
La sola cosa da fare (ricordate il Che fare? di Lenin) sarebbe dunque quella di capire ciò che il nostro volere davvero vuole. Per poterlo capire, tuttavia, sarebbe necessario cambiare il nostro modo di pensare, e quindi volere un pensare (cosciente) che sia vivo, forte e profondo quanto il volere (incosciente).
L’ordinario e algido pensare razionalistico, illuministico o intellettualistico (“debole” o “fallibile”), sguazza infatti oziosamente e sterilmente in superficie, poiché non ha, né la capacità, né la voglia di immergersi nella vita dell’anima (individuale e collettiva) per esplorarne i fondali.
Dice Steiner: “L’importante nelle impressioni sensorie dell’occhio e dell’orecchio, non è tanto l’elemento passivo quanto l’attivo, vale a dire ciò che portiamo volontariamente incontro alle cose (…) Il nostro organismo sensorio, che mostra proprio chiaramente nei sensi del tatto, del gusto, dell’olfatto, di essere collegato col sistema del ricambio, però anche con gli altri sensi, fino a quelli superiori, è legato al metabolismo, il quale è di natura volitiva” (p. 48).
Quando ci siamo occupati de La filosofia della libertà abbiamo infatti parlato dell’atto percettivo (dell’attenzione come di un prerequisito della percezione), e abbiamo detto, in precedenza, che si dovrebbe distinguere la realtà (statica) dell’organo di senso da quella (dinamica o volitiva) dell’attività che per suo mezzo si esplica (che per suo mezzo l’Io esplica).
Fatto sta che ogni percezione (ogni immagine percettiva) è il risultato ultimo dell’incontro o dello scontro dello stimolo (della “impressione sensoria”), scaturente dall’essere dell’oggetto, con l’atto percettivo, scaturente dall’essere del soggetto.
Non si dà infatti chiara percezione se tanto lo stimolo che l’atto percettivo non superano una determinata soglia, nel primo caso, d’intensità e, nel secondo, di attenzione.
Tutto questo, però, non viene quasi mai riconosciuto, poiché, del processo percettivo, si preferisce mettere in risalto – come dice Steiner – “l’elemento passivo”.
Non solo, ma si guarda anche a tale processo come a un “evento” che poco o nulla ha a che fare con un oggetto, quale fonte dello stimolo percettivo, e con un soggetto, quale fonte dell’atto percettivo.
La fisica dissolve infatti la realtà (una) dell’oggetto in uno sciame di “particelle elementari”, mentre la neurofisiologia (portandosi al guinzaglio la psicologia) dissolve la realtà (una) del soggetto in uno sciame di neuroni.
Tanto l’una che l’altra vedono insomma gli “alberi”, ma non la “foresta”.
Ciò è grave, poiché il mettere unilateralmente in primo piano “l’elemento passivo” comporta di necessità il lasciare indistinto, sullo sfondo, l’elemento volitivo: cioè a dire, l’elemento che, nella vita dell’anima, è più prossimo all’Io.
Come sapete, infatti, distinguiamo, nell’uomo, il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io, e, nell’anima, il pensare, il sentire e il volere.
Ed è appunto il volere a situarsi tra l’Io e il corpo astrale, così come il sentire si situa tra il corpo astrale e il corpo eterico, e il pensare tra il corpo eterico e quello fisico.
Ma è venuta l’ora di lasciarci. Continueremo la prossima volta.
L.R. – Roma, 13 gennaio 2000
ANTROPOLOGIA 11° Incontro
Stasera, prima di riprendere la lettura, vorrei dire ancora qualcosa sul problema della percezione.
Come procede uno scienziato? Osserva i fenomeni (sensibili), formula delle ipotesi, e poi le verifica (sperimentalmente). La facoltà di osservare la deve ai sensi, la facoltà di formulare delle ipotesi la deve al pensiero, la facoltà di verificare la deve di nuovo ai sensi.
Probativo è dunque, per lui, ciò che gli danno i sensi, e non ciò che gli dà il pensiero: ossia, ciò che gli dà l’esperienza, e non la sola riflessione.
Ebbene, è questo il metodo della moderna anima cosciente. Ove non procedessimo in questo modo (induttivo e scientifico), regrediremmo a quello (deduttivo e speculativo) dell’anima razionale o affettiva.
Non dobbiamo pertanto abbandonare il metodo sperimentale, bensì estenderlo dalla sfera del mondo sensibile alla sfera del mondo extrasensibile. Chiunque voglia conoscere davvero la realtà non può infatti limitarsi a sperimentare le cose (i fenomeni sensibili), ma deve sperimentare, in quanto facenti parte della realtà, anche i pensieri (che pensano le cose), i sentimenti (che reagiscono alle cose) e gli impulsi della volontà (che agiscono sulle cose).
Quale differenza si dà dunque tra la scienza della natura e la scienza dello spirito? Che la prima si limita a studiare le cose, mentre la seconda studia, non solo le cose, ma anche il modo in cui la prima riesce, osservando e pensando, a conoscerle.
Ignorando il modo in cui riusciamo a conoscere le cose, finiamo con l’ignorare anche l’essenza delle cose (la “cosa in sé” di Kant).
Gli scienziati della natura esigono (giustamente) di vedere le cose con i propri occhi, di udirle con le proprie orecchie o di toccarle con le proprie mani, ma ignorano che cosa propriamente vedono, odono o toccano: ignorano, cioè, gli effettivi contenuti delle loro esperienze.
Mi è parso importante dir questo, perché può aiutarci a capire il perché la scienza dello spirito sia la più alta espressione della modernità, e il perché, proprio per questo, non venga apprezzata, sia da coloro che avversano la modernità, sia da coloro che credono che la modernità non possa che essere rappresentata, in un modo o nell’altro, dal materialismo.
Ma il materialismo non è affatto moderno. Si tratta infatti di una metafisica (scientista), e quindi di uno dei tanti frutti dell’anima razionale o affettiva.
Ma come si fa, in concreto, a estendere la conoscenza scientifica dalla sfera del mondo sensibile a quella del mondo extrasensibile? Cominciando col portarla, da una parte, al di là dell’immagine percettiva (esteriore) e, dall’altra, al di là della rappresentazione (interiore). Sono queste infatti a segnare, quali “colonne d’Ercole”, i limiti del mondo da noi normalmente conosciuto.
In questo momento, ad esempio, vedo sulla parete quel quadro. Ne ho dunque una immagine percettiva. Se adesso chiudo gli occhi e torno a immaginarlo, ne ho invece una rappresentazione (o una immagine mnemonica “a breve termine”).
Bene, ma di che cosa sono “immagine” queste due immagini? Che cosa le produce? Si tratta di due cose diverse o della stessa cosa?
E’ proprio quando si tratta di rispondere a questi interrogativi che il posto dell’anima cosciente viene in genere usurpato dall’anima razionale o affettiva e dalle sue astratte e soggettive speculazioni o elucubrazioni.
Per i materialisti, ad esempio, al di là dell’immagine percettiva e della rappresentazione ci sarebbe appunto la “materia”, mentre, per Kant, al di là della prima, ci sarebbe la “cosa in sé”, e al di là della seconda, “l’Io trascendentale”.
Per entrambi, ci sarebbero dunque dei “pensati” (le idee della materia, della cosa in sé e dell’Io trascendentale) non solo non percepiti, ma addirittura impercepibili.
Piaccia o meno, ci troviamo quindi al cospetto di due opposte “fedi”: di quella (arimanica) del materialismo nell’inconoscibile materia, e di quella (luciferica) di Kant nell’inconoscibile spirito.
Fatto sta che se si riconosce – come si riconosce – che l’immagine percettiva e la rappresentazione sono dei prodotti, prima di spingersi a fare delle congetture, più o meno ardite, sulla natura del loro produttore (o dei loro produttori), sarebbe meglio trovare il modo di osservare e sperimentare il produrre.
E in qual modo si può osservare e sperimentare il “produrre”? Impegnandosi nell’esercizio della “concentrazione”, così come viene ad esempio illustrato da Massimo Scaligero nel suo Manuale pratico della meditazione o nel suo Tecniche della concentrazione interiore. Grazie a questo esercizio – spiega infatti – “il pensiero può ripercorrere il proprio processo (dal “pensato-prodotto” al “pensare-produrre” – nda): con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità”.
Potremmo dunque dire, in termini antroposofici, che ogni pretesa metafisica nasce da una hybris: dal portarsi cioè direttamente dal piano fisico a quello astrale (quello delle idee), saltando a piè pari il piano eterico intermedio (quello del pensare come pura forza o puro movimento).
Non a caso, Steiner ha preso le mosse – come ben sapete – dalle opere scientifiche di Goethe: ossia dalle opere di colui che è stato, per il mondo eterico (vivente), quello che Galilei è stato per il mondo fisico (meccanico).
Grazie all’esercizio interiore (e allo studio) ci prepariamo dunque a sperimentare in modo cosciente quanto viene ordinariamente sperimentato in modo incosciente. Come mi capita spesso di dire, non si tratta infatti di credere in qualcosa, bensì di prendere coscienza di qualcosa.
Certo è difficile, ma lo è soprattutto per il fatto che non possiamo servirci a tal fine di strumenti esteriori, bensì dobbiamo fare di noi stessi, con il massimo rigore (superiore a quello richiesto dalla scienza naturale), degli “strumenti” d’indagine.
Per scoprire che cosa si nasconde al di là dei confini del mondo da noi ordinariamente conosciuto, non possiamo comunque partire dall’immagine percettiva, che ci si dà viva e forte, in quanto frutto dell’inconscia attività del volere, ma dobbiamo partire dalla rappresentazione, che ci si dà invece spenta e debole, in quanto frutto della cosciente e riflessa (cerebrale) attività del pensare.
Ma che cosa scopriamo dopo essere passati, in un primo tempo, dall’esperienza ordinaria della rappresentazione a quella immaginativa del pensare, e, in un secondo, dall’esperienza immaginativa del pensare a quella ispirativa e intuitiva del concetto? Lo abbiamo detto, quando ci siamo occupati de La filosofia della libertà: che il concetto (che sta alle spalle della rappresentazione) e il percetto (che sta alle spalle dell’immagine percettiva) sono una sola cosa. E’ infatti una stessa entelechia (l’essenza unitaria dell’oggetto o del fenomeno) a darsi al pensare in veste di concetto (quale contenuto essenziale della rappresentazione), e al volere in veste di percetto (quale contenuto essenziale dell’immagine percettiva).
Dice Steiner: “Pensate come il nostro rapporto con la natura ci diventa vivo, se cominciamo davvero a tener conto di quanto è stato qui esposto. Allora ci diremo: quando usciamo fuori, in mezzo alla natura, e ci sentiamo abbagliati dalla luce e dai colori che ci splendono intorno, noi ci uniamo, in quanto li accogliamo in noi, con ciò che la natura proietta verso l’avvenire. Quando poi facciamo ritorno alla nostra camera, e riflettiamo sulla natura e ne indaghiamo le leggi, ci occupiamo invece di ciò che in essa continuamente muore” (p. 49).
Vedete quanto Steiner insiste su questo? Ma lo fa per la semplice ragione che se non si capisce questa dinamica non si capisce nulla.
Non so se conoscete quel ciclo di conferenze, intitolato: La Bhagavad-Gita e le Lettere di Paolo. In esso, Steiner fa osservare che la prima di queste due opere si presenta in forma sublime, in quanto si tratta del prodotto finale di una fase evolutiva che viene dal passato, mentre la seconda si presenta in forma povera, in quanto si tratta del prodotto iniziale di una fase evolutiva che va verso il futuro.
Che le cose stiano così, potrebbe dimostrarlo già il semplice fatto che usiamo regalare dei fiori, e non dei semi (ve lo immaginate un corteggiatore che regala alla sua bella una bustina di semi?). E perché lo facciamo? E’ ovvio: perché i fiori sono più belli dei semi. Eppure, i fiori sono stati un giorno semi, e i semi saranno un giorno fiori; tanto che potremmo dire: “I fiori sono semi morti, mentre i semi sono fiori vivi”.
Tutta la grandezza della scienza naturale risiede dunque nel fatto di essere una scienza di ciò ch’è morto (dei fiori). Ma al mondo, insieme alle cose morte, ci sono anche quelle vive (i semi). E abbiamo forse, di queste, una scienza altrettanto grande? No, non l’abbiamo; e non l’abbiamo perchè riusciamo naturalmente a oggettivare ciò ch’è morto, ma non a oggettivare spiritualmente ciò ch’è vivo.
Che cosa rimproverava appunto Goethe agli entomologi? Di studiare i cadaveri delle farfalle, e non le farfalle. Si è liberi, certo, di studiare i cadaveri delle farfalle, ma non si può pretendere di studiare le farfalle vive con lo stesso metodo con cui si studiano quelle morte.
Dice Steiner: “Se l’uomo non fosse in grado di salvare, attraverso tutta la sua vita terrena, qualcosa che proviene dalla sua vita prenatale e che resta costantemente in lui, se non potesse salvare qualcosa che, alla fine della sua vita prenatale, si è ridotto a semplice vita di pensiero, egli non perverrebbe mai alla libertà. Infatti sarebbe legato a ciò ch’è morto, e quando volesse suscitare alla libertà ciò che in lui stesso è affine alla natura morta, dovrebbe suscitare alla libertà qualcosa di morto” (p. 49).
La libertà è stata creata; ed è stata creata – come ormai sappiamo – grazie alla morte.
I minerali, le piante e gli animali in tanto non sono liberi in quanto obbediscono ciecamente alle proprie leggi. Rivolgendosi alla propria (trascendente) specie, è come infatti se dicessero: “Sia fatta la tua volontà!”.
Anche l’uomo, rivolgendosi alla propria (immanente) “specie” (al Padre, attraverso il Figlio inabitante l’Io), può dire: “Sia fatta la tua volontà!”; ma l’uomo, a differenza dei minerali, delle piante e degli animali, è in grado di fare la “sua” volontà, perfino in contrasto con quella divina.
Perché ciò divenisse possibile, si è dovuto però sacrificare il pensiero. Qualcosa – dice appunto Steiner – “si è ridotto a semplice vita di pensiero”. Se questo qualcosa non si fosse “ridotto” così, se in esso si fosse conservata la viva forza dello spirito, il pensiero avrebbe infatti la forza di un istinto, e non ci permetterebbe perciò di essere liberi.
Che cosa sono in realtà gli istinti animali? Sono pensieri viventi (pensanti gli animali); e che cosa sono invece i pensieri umani? Sono istinti morti (pensati dall’uomo).
E’ proprio con questi istinti morti, ovvero con queste forme prive di forza, che ci è dato però conoscere le forme prive di forza: cioè gli esseri del mondo minerale.
Che cos’è dunque la scienza ordinaria? E’ la conoscenza del mondo sviluppata dalla sola testa; e che cos’è invece la cosiddetta “scienza occulta”? E’ la conoscenza del mondo sviluppata dalla testa e dal restante organismo, e quindi da tutto l’uomo.
Ricordiamoci quanto dice Scaligero: la scienza naturale è il mezzo (dell’anima cosciente), non il fine. Il fine dell’uomo è infatti l’uomo, e quindi l’autocoscienza spirituale (l’”Uomo spirituale”).
Dice Steiner che se l’uomo “volesse suscitare alla libertà ciò che in lui stesso è affine alla natura morta, dovrebbe suscitare alla libertà qualcosa di morto”.
Anziché utilizzare la “semplice vita di pensiero” per cercare di rientrare nella sfera della vita dalla quale siamo usciti, passando così dalla libertà negativa alla libertà positiva, ci siamo in effetti accomodati nella sfera della morte, creando o “suscitando alla libertà” cose morte: riempiendo ossia il mondo dei prodotti della tecnica. Ma con questi tentiamo in realtà di stordirci per dimenticare che siamo delle “anime morte” (“Consumo, per dimenticare”).
Dovremmo infatti attraversare la sfera della morte (morire e ri-nascere), e non prendervi – come ci costringono a fare le forze arimaniche – fissa dimora.
Risposta a una domanda
L’unico essere che realmente muore è l’uomo. E realmente muore perché realmente nasce, in quanto è l’unico essere che viene sulla Terra con tutto se stesso. Sulla Terra, infatti, i minerali hanno il corpo fisico, ma non il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io; i vegetali, il corpo fisico e il corpo eterico, ma non il corpo astrale e l’Io; gli animali il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale, ma non l’Io.
Dice Steiner: “D’altro canto, se volesse servirsi di ciò che come essere volitivo lo congiunge con la natura, egli ne resterebbe stordito, perché in ciò che lo collega alla natura, quale essere volitivo, tutto giace ancora in germe. In tal caso l’uomo sarebbe sì un essere di natura, ma non un essere libero” (p. 49).
Come vedete, si può essere storditi (“ossessivamente”) dalla testa (per così dire, dalla “cultura”), e si può essere storditi (“istericamente”) dalla pancia (dalla natura).
Dice Steiner: “Al di là di tali due elementi – la facoltà di afferrare per mezzo dell’intelletto ciò ch’è morto, e di afferrare per mezzo della volontà il vivente, ciò che è in via di divenire – c’è nell’uomo qualcosa che lui solo, e nessun altro essere terreno, porta in sé dalla nascita fino alla morte: voglio dire il pensare puro, quel pensare che non si rivolge alla natura esteriore, ma solo a quel soprasensibile che vive nell’uomo stesso e fa di lui un essere autonomo. Al di là di ciò ch’è sotto la morte, e al di là di ciò ch’è sopra la vita. Perciò se si vuol parlare della libertà umana, bisogna considerare questo elemento autonomo nell’uomo, questo pensiero puro, liberato dai sensi, nel quale vive sempre anche la volontà” (p. 50).
Il pensiero “puro” è indipendente dall’esperienza dei sensi. Può esserlo, però, a due livelli diversi: al livello del pensare (quale verbo o attività), e al livello del concetto. Di norma, siamo però incoscienti tanto della purezza del pensare, poiché identifichiamo (in modo proiettivo) la sua attività con quella del cervello, quanto della purezza del concetto, poiché lo concepiamo solo in modo astratto (arrivando anzi a identificare il concetto “puro” con il concetto “astratto”).
Quello del concetto “puro” è in un certo senso un paradosso. Si tratta infatti di un “germe”, di cui però conosciamo soltanto l’”immagine”. E’ un “germe”, in quanto è appunto in virtù del concetto “puro” che possiamo usufruire (inconsciamente) del giudizio, ed è in virtù del giudizio che possiamo usufruire (altrettanto inconsciamente) dell’immagine, vuoi quale cosciente immagine percettiva, vuoi quale cosciente rappresentazione.
Abbiamo parlato, poco fa, di semi e di fiori. Ebbene, potremmo dire, volendo, che i concetti “puri” stanno alle immagini percettive e alle rappresentazioni così come i semi stanno ai fiori.
Nella pratica interiore – lo abbiamo detto – non si può però pervenire all’esperienza del concetto “puro” se prima non si perviene, mediante l’esercizio della concentrazione, a quella del pensare “puro”.
Di questo esercizio, abbiamo però parlato la volta scorsa, e non staremo quindi a ripeterci.
Risposta a una domanda
Ricordo di aver già precisato che il pensiero intellettuale, combinatorio o algoritmico (noti che àlgos significa “dolore”) si muove in modo discreto (allo stesso modo in cui si muovono, non foss’altro che per l’intervallo sinaptico, gli impulsi nervosi), mentre quello vivente (eterico) si muove in modo continuo.
Potremmo piuttosto domandarci (sulla falsariga di Nicodemo): “Ma come può un uomo risalire dal pensiero discreto a quello continuo”? E’ presto detto: grazie alla forza del Cristo. Egli ci ha infatti raggiunto nella sfera della morte e del pensiero discreto (del Golgotha), per darci appunto la possibilità, risorgendo con Lui, di tornare alla vita (alla “vita nova”).
E’ tardi. Continueremo la prossima settimana.
L.R. – Roma, 20 gennaio 2000
ANTROPOLOGIA 12° Incontro
La volta scorsa, rispondendo a una domanda, ho ricordato che il pensiero intellettuale, essendo deputato a intessere relazioni tra elementi giustapposti, si muove in modo discreto.
Supponiamo che qua si dia il fenomeno A e là quello B, e che si tratti di scoprire se tra questi due fenomeni, separati nello spazio, si dia o meno un’estrinseca relazione di causa-effetto.
Per scoprirlo, dovremo servirci del pensiero intellettuale, che “saltando”, per così dire, dall’uno all’altro, è appunto in grado di gettare un ponte tra gli oggetti che si trovano gli uni fuori degli altri o gli uni accanto agli altri.
E’ questa la sua specializzazione, ma anche il suo limite.
Come abbiamo più volte ricordato, il suo movimento discontinuo, discreto o sincopato non può infatti dare ragione di quello continuo della vita o del tempo e, ancor meno, della realtà essenziale della qualità.
Va fatta, tuttavia, una considerazione della massima importanza. Noi diciamo: spazio, tempo, qualità, essere. Ma se l’essere rappresenta l’Io, che cosa rappresentano, allora, le altre tre categorie (collegate, rispettivamente, al corpo fisico, al corpo eterico e al corpo astrale)? Nient’altro che modi di essere e di esistere dell’Io, o gradi, gerarchicamente ordinati, della sua manifestazione.
Abbiamo anche detto, una sera, che l’Io, tessendo relazioni, fa del molteplice l’uno, quell’uno che l’Io stesso è.
Anche al più basso di tali livelli (quello fisico), l’Io infatti unifica, mediante l’idea dello spazio (e delle relazioni che implica), la molteplicità delle cose.
Dice Steiner: “Io contemplo la natura; la corrente della morte è in me, ed è anche la corrente della rinascita: morire e rinascere. Di questo rapporto la scienza moderna comprende assai poco, poiché considera la natura come un’”unità”, confondendo continuamente ciò che muore e ciò che diviene. Chi voglia invece riconoscere nettamente queste due correnti nella natura, deve porsi una domanda molto importante: come andrebbero le cose nella natura se l’uomo non vi fosse inserito?” (p. 50).
C’è dunque da distinguere tra monismo e monismo. Un conto, infatti, è un monismo che faccia – come si suol dire – “d’ogni erba un fascio”, altro è un monismo che sappia cogliere il molteplice nell’uno e l’uno nel molteplice (non a caso, il meccanicismo arimanico sa cogliere il molteplice, ma non nell’uno; mentre il misticismo luciferico sa cogliere l’uno, ma non nel molteplice).
Abbiamo appena detto, ad esempio, che lo spazio, il tempo e la qualità sono modi di essere e di esistere dell’Io, o gradi, gerarchicamente ordinati, della sua manifestazione. Il che sta a significare che la sola vera unità è quella dell’Io, e che, per realizzarla, bisogna avere la pazienza e l’umiltà di ascendere i vari gradi della sua manifestazione.
Risposta a una domanda
Ricorda quella sera in cui vi ho invitati a immaginare il tempo come una circonferenza e i quattro archi di cerchio in cui viene divisa, dal diametro orizzontale e da quello verticale, come quattro diverse fasi del suo divenire (cfr. 5° Incontro – ndr)?
Ebbene, provi adesso a immaginare la stessa circonferenza divisa, da un solo diametro, in due parti, così che una semicirconferenza (quella, diciamo, A-B) rappresenti il tempo intercorrente tra la nascita e la morte, e l’altra (quella, diciamo, B-A) rappresenti invece il tempo intercorrente tra la morte e una nuova nascita.
Un fatto è certo: per la coscienza intellettuale, la vita e la morte non possono essere che due opposti stati. In quanto vincolata ai sensi, può infatti concepire il divenire soltanto in modo astratto (soltanto indirettamente, attraverso lo spazio), e attribuirlo unicamente alla fase (terrena) che va dalla nascita alla morte.
Per questo livello di coscienza, non c’è pertanto continuità tra la vita e la morte. Per cogliere la continuità o il divenire occorre infatti salire dalla coscienza intellettuale a quella immaginativa.
Quest’ultima, tuttavia, è in grado di sperimentare la continuità, ma non la qualità, né – come abbiamo detto a suo tempo – l’enantiodromia.
Che cosa accade, infatti, nel punto che abbiamo chiamato B? Che la morte terrena si trasforma in una nascita spirituale. E in quello che abbiamo chiamato A? Che la morte spirituale si trasforma in una nascita terrena.
E’ dunque ingenuo affermare: “Tutto è spazio o morte” (come fanno i materialisti); “Tutto è tempo o vita” (come fanno i vitalisti o i “bioenergetici”); “Tutto è qualità o idea” (come fanno gli idealisti). Il Tutto (o l’Uno) è infatti nello spazio o nella morte, nel tempo o nella vita, nella qualità o nell’idea, allo stesso modo in cui questi sono, a loro volta, nel Tutto (o nell’Uno).
Ascoltate quanto dice appunto Bertrando Spaventa (1817-1883): il vero problema “è intendere, non l’ente per sé senza gli stati suoi, né gli stati suoi senza l’ente, ma come l’ente, mediante gli stati suoi, si fa quello che è”.
Il vero problema è dunque intendere, sia come l’Io si fa idea, come l’idea si fa vita, come la vita si fa morte, sia, all’inverso, come la morte si fa vita, come la vita si fa idea, come l’idea si fa Io (del Logos, il Prologo del Vangelo di Giovanni dice appunto: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta. In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende fra le tenebre; ma le tenebre non l’hanno ricevuta”).
Risposta a una domanda
Nelle “tenebre” dobbiamo vedere l’ego. Per cominciare a capire (almeno un poco) quanto afferma Giovanni nel suo Prologo, potrebbe provare a parafrasarne l’inizio così: “In principio era il Divenire, e il Divenire era presso l’Essere, e il Divenire era l’Essere. Il Divenire era in principio presso l’Essere. Tutto è divenuto per mezzo del Divenire, e senza il Divenire neppure una delle cose divenute è divenuta”.
Senza dimenticare, però, che non è che il Verbo sia il “divenire”, e che Dio sia l’”essere”; è che il Divenire è il “Verbo” e l’Essere è “Dio”.
Risposta a una domanda
Dopo la morte, raccogliamo quanto abbiamo seminato durante la vita terrena (così come, dopo la nascita, raccogliamo, in forma di destino, quanto hanno seminato le Gerarchie durante la vita celeste).
Per questo, vogliamo tornare sulla Terra. Solo qui possiamo infatti rimediare, da uomini liberi, ai danni prodotti dai nostri errori.
L’Oriente ci offre, a questo proposito, una bella immagine: lo stesso vento che rovescia una barca, ne fa andare a gonfie vele un’altra. Che si verifichi la prima o la seconda di queste eventualità non dipende infatti dal vento, ma dal grado di perizia del marinaio.
Steiner arriva a dire, allo stesso proposito, che nostro compito è appunto quello di trasformare il negativo in positivo o le disgrazie in fortune.
Si ricordi dell’esercizio della “positività”. Mi è capitato più volte di sottolineare che si tratta di un esercizio ben più profondo e difficile di quanto in genere s’immagini. Non si tratta infatti di adottare un atteggiamento suadente, dolciastro, melenso o buonista quale quello suggerito, ad esempio, dal “Think pink” della New age, bensì d’impegnarsi a scoprire qual è la ragione di quelli che hanno torto, o quale sia il bene che si occulta nel male. Se è vero, infatti, che il male è un bene dis-locato nel tempo o nello spazio, è anche vero, allora, che dobbiamo andare a scovare il bene al di là del tempo o dello spazio: al di là cioè dei luoghi in cui ci si presenta appunto la sua de-formazione, quando non addirittura il suo capovolgimento.
Fatto sta che nessuna “positività” del sentimento è sincera, se non deriva da una conquista del pensiero o della conoscenza.
Dice Steiner: “Se l’uomo non facesse parte dell’evoluzione della terra, non ci sarebbero in gran parte, nemmeno gli animali, poiché gran parte, specialmente degli animali superiori, è sorta nell’evoluzione della terra solo pel fatto che l’uomo, per così dire, si è fatto largo coi gomiti. Giunto a un certo gradino della sua evoluzione terrestre, dovette espellere per forza dal suo proprio essere (nel quale allora era contenuto ben altro che non oggi) gli animali superiori; dovette eliminarli al fine di poter progredire egli stesso (…) L’uomo, in stati precedenti della sua evoluzione, era unito al mondo animale che, in seguito, eliminò come un sedimento. Gli animali sulla terra non sarebbero divenuti ciò che sono oggi, se l’uomo non avesse dovuto diventare ciò che è attualmente. Senza la presenza degli uomini nell’evoluzione terrestre, le forme animali e la terra avrebbero tutt’altro aspetto da quello che hanno oggi” (p. 51).
Chi ha studiato La scienza occulta queste cose le sa già. Si tratta però – come sempre – non tanto di saperle, quanto piuttosto d’imparare a pensarle. Solo pensandole in modo giusto è possibile renderle infatti e-videnti.
Ascoltate quanto dice al riguardo Steiner, ne Il Vangelo di Giovanni in relazione con gli altri tre e specialmente col Vangelo di Luca: “Forse alcuni si meraviglieranno che io parli di teologi, cioè di persone che discorrono di spiritualità, come di pensatori materialistici. Ma non si tratta di quello che uno crede e di quello che studia, ma del come si studia, indipendentemente dal contenuto dello studio stesso”.
Proviamo comunque a pensare, tornando a noi, a Michelangelo. Quando decise di scolpire la Pietà, ordinò per prima cosa un blocco di marmo; da questo tirò fuori poi la Pietà. E come la tirò fuori? Lo ha spiegato Michelangelo stesso: eliminando, dal blocco, il marmo che c’era in più.
Sembrerebbe una battuta, ma non è così. Rispetto a che cosa, infatti, il marmo era “in più”? E’ ovvio: rispetto all’idea che egli aveva della Pietà. Per chi, come lui, “vedeva” tale idea con gli occhi dello spirito, non c’era altro da fare, in effetti, che liberare la sua forma dalla materia che l’occultava e imprigionava.
Allorché l’opera prese corpo, non venne però alla luce solo la Pietà, ma venne alla luce anche tutto ciò che da quel blocco di marmo era stato espulso o eliminato.
Dunque, come la Pietà, prima di essere scolpita, era unita al marmo, così l’uomo, “in stati precedenti della sua evoluzione, era unito al mondo animale”; e come Michelangelo ha eliminato (“come un sedimento”) quel marmo che non permetteva all’idea della Pietà di prendere forma visibile, così lo “scultore” cosmico ha eliminato (“come un sedimento”) quel “mondo animale” che non permetteva all’idea dell’uomo di prendere forma visibile.
Dice Steiner: “In quanto agli altri regni, minerale e vegetale, essi pure sarebbero da lungo tempo irrigiditi, non più capaci di evoluzione, se sulla terra non ci fosse l’uomo. Anche qui la moderna concezione del mondo, poggiante sopra una visione unilaterale della natura, direbbe: ebbene, gli uomini muoiono, i loro corpi vengono inceneriti oppure sepolti, e così restituiti alla terra, ma ciò non ha importanza per l’evoluzione, perché essa si svolgerebbe tal quale anche se non accogliesse in sé i cadaveri umani. Una simile risposta proverebbe unicamente che si è del tutto incoscienti della realtà del processo che si svolge nel continuo trasmettere dei cadaveri umani alla terra, attraverso la sepoltura o la cremazione (…) Da molto tempo l’evoluzione terrestre sarebbe arrivata al suo termine, se non le fossero state continuamente apportate le forze dei cadaveri umani che con la morte si distaccano dall’animico-spirituale. Da queste forze, che l’evoluzione terrestre continuamente riceve grazie all’apporto dei cadaveri umani, essa viene mantenuta: i minerali ne ricevono l’impulso a continuare le loro cristallizzazioni; altrimenti essi sarebbero da un pezzo frantumati e dissolti. Le piante che, senza quell’apporto, da un pezzo non potrebbero più crescere, ne ricevono l’impulso a continuare la loro crescita; e lo stesso avviene per le forme animali inferiori. L’uomo dunque trasmette alla terra, per mezzo del proprio cadavere, il lievito, il fermento del suo sviluppo futuro” (pp. 51-52).
Abbiamo detto e ripetuto che l’uomo è un Io che ha un corpo astrale, un corpo eterico e un corpo fisico. Già, ma da dove li ha presi? Dal mondo: dal mondo fisico, ha preso il corpo fisico; dal mondo eterico, il corpo eterico; dal mondo astrale, il corpo astrale. E come li ha presi? Li ha presi, per così dire, in “prestito”, così da doverli prima o poi restituire.
Ma quando verrà, per lui, il momento di restituirli – è questo il punto – li restituirà migliori o peggiori?
Ben si capisce, infatti, che se li restituirà migliori (più umani), migliorerà il proprio destino e quello del mondo, mentre, se li restituirà peggiori (meno umani), peggiorerà il destino di se stesso e del mondo.
Migliorando sul serio noi stessi, miglioriamo dunque il mondo.
Che cosa facciamo, ad esempio, con le sostanza minerali, vegetali e animali di cui ci alimentiamo? Le digeriamo: vale a dire, in parte le assimiliamo e in parte le eliminiamo. E che cosa vuol dire “assimilarle”? Vuol dire “umanizzarle”, e quindi, alla lettera, transustanziarle.
Fatto si è che l’evoluzione dell’uomo e quella della Terra sono tutt’uno. L’evoluzione umana è infatti una fase o un momento dell’evoluzione terrestre, così come l’evoluzione terrestre è una fase o un momento dell’evoluzione umana.
Dice Steiner: “Il cibo che noi ingeriamo è su per giù lo stesso che ingeriscono anche gli animali; dunque noi trasformiamo le sostanze esteriori come le trasformano gli animali; ma noi le trasformiamo col concorso di qualcosa che gli animali non hanno, qualcosa che discende dal mondo spirituale per congiungersi col corpo fisico umano. Con ciò facciamo di tali sostanze qualcosa del tutto diverso da quello che ne fanno gli animali o le piante; e le sostanze e le forze che vengono trasmesse alla terra col cadavere umano, sono forze trasformate; non sono più le stesse ricevute dall’uomo alla sua nascita (…) In tal modo, pel tramite dell’uomo, si trasmette al processo terrestre fisico-sensibile qualcosa che fluisce continuamente in questo dal mondo spirituale. Nascendo, l’uomo porta con sé, dal mondo soprasensibile, qualcosa che s’incorpora nelle materie e nelle forze che durante la vita terrena compongono il suo corpo, e poi, alla sua morte, viene accolto dalla terra. Continuamente l’uomo è tramite di qualcosa che fluisce per tal modo dal soprasensibile al sensibile, al fisico” (pp. 52-53).
Come abbiamo detto, quando abbiamo parlato del cosiddetto “principio di conservazione dell’energia”, è in virtù dell’Io che l’uomo è continuamente “tramite di qualcosa che fluisce dal soprasensibile al sensibile, al fisico”.
Che cosa fanno le piante? Fanno fare alla sostanza un salto di qualità, trasformandola incessantemente da minerale in vegetale. E gli animali? Le fanno fare un ulteriore salto, mutandola da vegetale in animale. Le piante fanno così salire la sostanza dal piano fisico a quello eterico, gli animali dal piano eterico a quello astrale.
Nessuno, tranne l’uomo, è quindi in grado di elevare la sostanza fino al piano dello spirito. L’Io umano è infatti l’anello di congiunzione tra la sostanza e l’essenza, tra il mondo materiale e quello spirituale.
A patto, naturalmente, che l’Io sia l’Io, e quindi “veicolo” dello spirito.
In quanto libero, infatti, l’uomo può anche chiudersi nel proprio ego. E che cos’è l’ego? E’ appunto l’Io arroccato nella sua libertà negativa: ovvero, nel suo essere libero da tutto, tranne che da sé.
Questo stato di cose discende essenzialmente dal fatto che, donandosi al mondo e agli altri, l’Io si sente crescere, mentre l’ego si sente diminuire. Nell’andare incontro al mondo e agli altri, l’Io infatti si ritrova, mentre l’ego si perde e, temendo appunto di perdersi, o di essere sopraffatto, si difende, chiudendosi.
Insomma, quanto per l’ego è “altro”, per l’Io (inabitato dal Logos) è invece “sé”.
Dice Steiner che in tanto si aderisce alla “moderna concezione del mondo, poggiante sopra una visione unilaterale della natura” in quanto si “è del tutto incoscienti della realtà del processo che si svolge nel continuo trasmettere dei cadaveri umani alla terra, attraverso la sepoltura o la cremazione”.
Eccoci, dunque, ancora una volta al cospetto dell’aspetto squisitamente “moderno” della scienza dello spirito. Che cosa c’invita infatti a fare Steiner? Non a “credere” a questo o a quello, bensì a sollevare alla coscienza quanto continuerebbe altrimenti a vivere nel cosiddetto “inconscio”.
Vedete, sappiamo che l’anima cosciente comincia la propria evoluzione nel 1413, ma sappiamo anche che, nel 1879, comincia una nuova reggenza dell’Arcangelo Michele. Possiamo quindi considerare questa data come l’inizio della seconda fase evolutiva dell’anima cosciente: come la data d’inizio, cioè, del passaggio dalla fase scientifico-naturale a quella scientifico-spirituale.
Non è un caso, che proprio in quegli anni nasca (a prescindere dall’antroposofia) la psicoanalisi (gli Studi sull’isteria di Freud e Breuer sono del 1885): che venga cioè a porsi, sul piano scientifico, il problema dell’inconscio.
Freud (in misura maggiore) e Jung (in misura minore) hanno però tradito – come credo di aver più volte dimostrato – il compito di riportare alla coscienza quanto fu necessario un tempo rimuovere perché l’ego e l’intelletto (basi del moderno individualismo) potessero liberamente svilupparsi.
A tal fine, infatti, che cosa fu realmente rimosso? Di certo, non quanto alberga, come credeva Freud, nell’inconscio “personale” (la “psicosessualità”), e neppure quanto alberga, come credeva Jung, nell’inconscio “personale” e in quello “collettivo” (lo “psicoideo” mondo archetipico), bensì quanto alberga, vive e opera, a un ben più profondo livello, nel mondo dello spirito.
Per rendersene conto, basterebbe considerare l’enorme sproporzione che c’è tra l’interpretazione freudiana del celeberrimo mito di Edipo (ridotto, dal fondatore della psicoanalisi, a un naturalistico – e per molti versi grottesco – “romanzo familiare”) e quella presentata invece da Steiner, nell’undicesima conferenza de Il Vangelo di Giovanni in relazione con gli altri tre e specialmente col Vangelo di Luca.
Lasciate che ve ne legga, a titolo d’esempio, alcuni passi.
“Abbiamo visto che nell’interiorità dell’uomo, là dove il corpo eterico e il corpo astrale si compenetrano, domina la madre; che là dove l’io si trova nel corpo fisico, si esprime il padre. Vale a dire: in ciò che è comune a tutti noi, che appartiene alla specie, che forma la nostra vita rappresentativa e la nostra vita di saggezza interiore, domina la madre, domina l’elemento femminile; in ciò che viene creato dall’unione dell’io col corpo fisico, nella forma esteriormente differenziata, in ciò che fa dell’uomo un “io”, domina il padre, l’elemento maschile (…) Per il fatto di avere in sé il corpo eterico e il corpo astrale, l’uomo ha in sé l’elemento materno. Egli ha per così dire, oltre alla madre esteriore che è sul piano fisico, l’elemento materno, la madre, dentro di sé; e oltre al padre che è nel mondo fisico, egli ha in sé l’elemento paterno, il padre. Stabilire un giusto rapporto tra padre e madre in se stessi doveva apparire come un ideale, un grande ideale”.
Ma che cosa avveniva durante l’antica iniziazione? “Durante quell’iniziazione, dall’insieme costituito da corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale ed io, venivano estratti il corpo eterico e il corpo astrale, mentre l’io rimaneva indietro. Di conseguenza l’uomo non poteva avere autocoscienza durante i tre giorni e mezzo dell’iniziazione. L’autocoscienza era spenta (…) Accadeva qualcosa che veniva espresso con una formula che sembrerà strana; se però la si comprende, non pare più strana. Si diceva che quando un uomo veniva iniziato secondo il metodo antico, l’elemento materno usciva, e quello paterno rimaneva indietro. Vale a dire: l’uomo uccideva in sé l’elemento paterno e si univa con sua madre entro se stesso. Con altre parole: egli uccideva il padre in sé, e sposava sua madre”.
Morale della favola: i miti non sono pane per i denti dell’ordinario razionalismo, né per quelli (alquanto spuntati) dell’ordinario e complementare irrazionalismo più o meno misticheggiante.
Abbiamo fatto più tardi del solito. Continueremo giovedì prossimo.
L.R. – Roma, 27 gennaio 2000
ANTROPOLOGIA 13° Incontro
Abbiamo detto, l’ultima volta, che l’evoluzione dell’uomo e quella della Terra sono tutt’uno. L’uomo è infatti la fonte dalla quale sgorgano incessantemente le forze creatrici dello spirito, e anche il “luogo” in cui la Terra perviene alla coscienza di sé.
Qual è allora il problema? Il problema è che l’uomo non fa defluire tali forze (attraverso l’Io) verso la Terra, ma le trattiene dentro di sé (nell’ego) e, così facendo, le altera o corrompe.
Quanti di voi conoscono il Dell’amore immortale di Scaligero sanno infatti che, dell’Io, sono propri il coraggio e la dedizione, mentre, dell’ego, sono propri la paura e il rattenimento.
Dice Steiner: “Potete rappresentarvi che dal soprasensibile piove in continuazione qualcosa verso il basso, nel sensibile, che queste gocce rimangono infeconde per la terra se l’uomo non le accoglie in sé e non le trasmette, attraverso se stesso, alla terra. Queste gocce, che l’uomo accoglie alla sua nascita, e che depone alla sua morte costituiscono una continua fecondazione della terra mediante forze soprasensibili” (pp. 53-54).
Fatto si è che l’Io mette le “forze soprasensibili” al servizio dell’uomo e della terra, mentre l’ego le mette al servizio di se stesso, sottraendole così (per “appropriazione indebita”), tanto all’uno che all’altra. Mettendole al proprio servizio, l’ego finisce però col distruggersi, poiché si tratta di forze ben più grandi di lui. E’ questa, in un certo senso, la “maledizione” dell’ego: ovvero, quella che fatalmente lo colpisce, allorquando pretende di essere ciò che non è (l’Io).
Prometeo, ad esempio, può essere un buon simbolo dell’ego. Egli è infatti un (astuto) Titano (appunto come l’ego), e non un Eroe (quale è invece l’Io): un Titano che donò agli uomini il fuoco, rubandolo agli dei, e che fu per questo incatenato a una roccia, dove un’aquila veniva durante il giorno a mangiargli il fegato, che gli ricresceva durante la notte. E non è l’ego incatenato appunto al corpo fisico (minerale), dove le forze intellettuali (anti-patiche) consumano, durante la veglia, quelle vitali (sim-patiche), che si rigenerano durante il sonno?
Come fu dunque necessario, per liberare Prometeo, l’intervento di Eracle, così è necessario, per liberare l’ego, l’intervento dell’Io. Ch’è come dire – dal punto di vista de La Filosofia della libertà – che, per liberare il “libero pensatore” (il Titano luciferico), occorre l’intervento del “pensatore libero” (dell’Eroe cristico).
Dice Steiner: “Premesso questo, possiamo chiedere: come si comportano, dentro la natura umana, le forze apportatrici di morte? Abbiamo visto che, se l’uomo non vivificasse continuamente la natura esteriore, essa dovrebbe perire. Che cosa fanno dunque le forze di morte entro la natura umana? Fanno sì che l’uomo, per loro mezzo, produca tutto ciò che nel suo organismo è sistema osseo e sistema nervoso (…) Se in noi agiscono le forze apportatrici di morte, e noi le lasciamo come sono, esse formano il nostro scheletro; se invece, mentre agiscono ulteriormente, noi le indeboliamo, si forma in noi il sistema nervoso” (p. 54).
Abbiamo già visto, a suo tempo, che le forze “apportatrici di morte” sono delle forze archetipiche che potrebbero essere messe in rapporto con quelle del Thanatos freudiano.
Si tratta di forze spirituali che non solo agiscono “dentro la natura umana”, ma che, in questa, lasciano anche la loro impronta. E il sistema osseo e (in forma attenuata) il sistema nervoso sono per l’appunto l’impronta lasciata, nella nostra natura, dal Thanatos.
Non ci è facile realizzarlo, perché l’odierna neurofisiologia attribuisce al sistema nervoso tanto la capacità di pensare quanto quelle di sentire e di volere.
Così facendo, tuttavia, si finisce solo col confondere le cose, e col perdere così di vista la specifica qualità del pensare o, per essere più precisi, del rappresentare.
Ogni rappresentazione costituisce infatti una specie di lithos o “coagulo”, e implica quindi un processo di condensazione (salino) analogo a quello che trasforma uno stato liquido in uno stato solido.
Va tenuto presente, però, che il passaggio dal primo al secondo di questi stati non avviene in modo immediato, ma attraverso stati intermedi, quali ad esempio quello di “gel” e quello di “cartilagine”.
Come la sostanza cartilaginea, pur tendendo a diventare ossea, può dunque conservare il proprio stato, così la sostanza nervosa, pur tendendo a diventare ossea, può conservarsi nervosa.
Dice appunto Steiner: “Che cos’è un nervo? Un nervo è qualcosa che tende continuamente a diventare osso, ma ne è impedito dal fatto di essere in rapporto con elementi che non sono né di natura ossea, né di natura nervosa” (p. 54).
Come vedete, si tratta di afferrare immaginativamente il processo di metamorfosi indotto, nella sostanza, da una determinata qualità (dal Thanatos), e non di limitarsi a distinguere intellettualmente (e in ossequio al “principio d’identità”) uno stato dall’altro (quello liquido da quello di gel, quello di gel da quello cartilagineo, e quello cartilagineo da quello osseo).
Dice Steiner: “L’altra corrente invece, quella delle forze apportatrici di vita, agisce continuamente nel sistema muscolare e sanguigno, e in tutto ciò che vi appartiene. Se il nervo non diventa osso, è unicamente perché tale tendenza viene impedita dal sistema del sangue e dei muscoli che le si oppone (…) Gli antichi conobbero sempre una certa parentela tra midollo o sostanza nervosa, e midollo o sostanza ossea, e furono d’avviso che l’uomo pensi con le ossa, altrettanto che coi nervi. Infatti è vero. Noi andiamo debitori di tutto ciò che è scienza astratta alle facoltà del nostro sistema osseo” (pp. 54-55).
Dal momento – come dice sempre Steiner – ch’è “estremamente importante che nell’uomo si stabilisca una giusta azione e reazione” tra il sistema delle ossa e dei nervi e quello dei muscoli e del sangue, non è affatto improprio affermare – come talvolta si fa – che si può “crepare di salute”. Quand’è infatti che si “crepa di salute”? Quando le forze di vita (appunto di “salute”) del sistema dei muscoli e del sangue prendono un abnorme sopravvento su quelle di morte (di “malattia”) delle ossa e dei nervi.
Abbiamo già detto, al riguardo, che il prevalere delle prime (calde) può dar luogo a processi di infiammazione, mentre il prevalere delle seconde (fredde) può dar luogo a processi degenerativi.
Va comunque sottolineato che al di là dei processi di vita e di quelli di morte si dà, quale terzo, il processo umano (il processo dell’Io). E’ questo, infatti, a mettere in reciproco e per l’appunto “umano” rapporto gli opposti, come avviene ad esempio in quello (di 1 a 4) vigente, nel corso di un minuto, tra il numero delle respirazioni (18) e quello delle pulsazioni (72).
Può essere interessante peraltro osservare che la medicina non sembra ancor oggi in grado di contrastare i processi degenerativi con lo stesso successo con cui riesce invece a contrastare quelli infiammatori. Tanto che potremmo dire: “La medicina conosce bene gli “anti-biotici”, ma non altrettanto i “biotici””. Potrebbe sembrare una battuta, ma non lo è. Anche la moderna scienza medica è infatti progenie di quell’intelletto (di quel sistema nervoso od osseo) ch’è deputato a contrastare, proprio in virtù delle forze “apportatrici di morte”, le forze “apportatrici di vita”.
Afferma Steiner che “andiamo debitori di tutto ciò che è scienza astratta alle facoltà del nostro sistema osseo”.
Ricordo, a questo proposito, che qualche tempo dopo aver intrapreso lo studio della Scienza della logica di Hegel, mi venne questo pensiero: “Perché riflettere sulla “logica dell’essere”, e non piuttosto sull’essere della logica?”. Non è infatti, la logica, figlia del logos? E non “figlia unica”, poiché esistono – come abbiamo visto – una logica della morte, una logica della vita, e anche una logica della qualità (o dell’essenza).
Allorché perciò si risale dalla prima di queste logiche alla seconda, dalla seconda alla terza e dalla terza alla quarta, non si giunge – come pensava Hegel – alla logica dell’essere, bensì all’essere della logica: ovvero, all’Io.
Fatto sta che quanto – per riprendere le parole di Steiner – “piove in continuazione” nel sensibile, arriva alla nostra coscienza ordinaria soltanto dopo essere stato, per così dire, “asciugato”. E come facciamo ad “asciugarlo” (a farlo cioè discendere dal suo stato reale a quello riflesso)? Servendoci della mediazione (della struttura riflettente) fisica, nervosa od ossea.
Per quale ragione, ad esempio, è sorta, unitamente alla scienza moderna, la concezione meccanica del mondo? Perché il mondo lo si è preso appunto a pensare (inconsciamente) mediante il sistema (o lo specchio) osseo.
Lo abbiamo detto: il simile conosce il simile; il mondo ci rivela le sue qualità a seconda delle mediazioni (fisica, eterica o astrale) di cui ci serviamo; e se ci serviamo unicamente di quella ossea, vedremo ovunque delle ossa, e quindi dei “meccanismi”.
Dice Steiner: “L’uomo fa della geometria, si forma, ad esempio, la rappresentazione di un triangolo. Come mai? A chi rifletta davvero su queste cose, può apparire miracoloso che l’uomo sviluppi la rappresentazione del triangolo astratto, che nella vita concreta non si trova in nessun luogo, puramente per una fantasia geometrico-matematica. Molti misteri si celano dietro i fatti palesi del mondo! Immaginate, per esempio, di stare in piedi in un dato punto di una camera. In certi momenti il vostro essere soprasensibile compie movimenti singolari, dei quali di solito nulla sapete; all’incirca così: avanzate un poco in una direzione, poi arretrate un poco, e poi ritornate al posto di prima. Questa linea che percorrete nello spazio e che rimane incosciente, descrive veramente la forma di un triangolo. Tali movimenti esistono in realtà; solo che noi non li scorgiamo (…) L’uomo, avendo la sua spina dorsale nella verticale, sta sul piano dove un tale movimento si compie. Egli non ne è cosciente, non dice a se stesso: io ballo descrivendo continuamente una forma triangolare. Invece egli disegna un triangolo e dice: questo è un triangolo. In realtà si tratta di un movimento incosciente che egli esegue nel cosmo. Tali movimenti che fissiamo disegnando figure geometriche, noi li eseguiamo in realtà con la terra. La terra non ha solamente il moto che le attribuisce la concezione copernicana; essa descrive continuamente altri movimenti artistici ed altri ancora, molto più complicati, come quelli inerenti alle linee dei corpi geometrici: il cubo, l’ottaedro, il dodecaedro, l’icosaedro, ecc. Questi corpi non sono inventati, sono delle realtà, ma realtà inconsce. In queste e in altre forme geometriche sono contenuti meravigliosi accenni a questo sapere, per gli uomini subcosciente, che proviene dalla conoscenza essenziale di cui è dotato il nostro sistema osseo. A questo non arriva però la nostra coscienza; essa si spegne prima, e viene solo riflessa nelle forme geometriche che l’uomo descrive. L’uomo è inserito nel cosmo e, facendo geometria, riproduce qualcosa ch’egli stesso vi compie” (pp. 56-57).
Molti anni fa (prima d’incontrare la scienza dello spirito), presi per un breve periodo a dipingere. Ma che cosa accadde? Che un bel giorno, sfogliando il catalogo di una mostra del pittore francese Robert Delaunay (1885-1941), scoprii un dipinto praticamente identico a uno mio.
Per carità, quello di Delaunay era un quadro, mentre il mio, al confronto, era solo una crosta! Ma il punto è un altro. Trattandosi di due quadri assolutamente astratti, era in effetti sorprendente, a prescindere dal loro valore artistico, che vi si trovassero raffigurate, quasi con i medesimi colori, le stesse forme.
Il fatto tanto mi colpì, che smisi di dipingere e mi misi alla ricerca di una sua possibile spiegazione. Cercai a destra e a manca, finché non m’imbattei in un breve saggio di Aniela Jaffé (nota allieva di Jung), intitolato: Il simbolismo nelle arti figurative (in C.G.Jung: L’uomo e i suoi simboli – Casini, Firenze-Roma 1967 – ndr).
Vi si affermava che il “risultato, caotico ma poderoso” di molte opere di diversi artisti moderni, di quelle di Jackson Pollock, ad esempio, o di Georges Mathieu, richiamano le forme della materia quali sono rivelate dalle microfotografie. E tale affermazione veniva appunto corredata da una microfotografia della forma delle vibrazioni prodotte nella glicerina da onde sonore, invero assai simile ad alcuni dipinti di Pollock.
Allorché poi scoprii, grazie sempre a una foto pubblicata in un altro libro, che la bellezza e la raffinatezza delle geometrie della sezione trasversale della spina di un comune riccio di mare non hanno nulla da invidiare a quelle dei mandala orientali o dei rosoni delle cattedrali gotiche, giunsi a questa conclusione: “Anche quando pensiamo di darci alla fantasia più sfrenata, non usciamo mai dalla realtà”.
Oggi tuttavia aggiungerei: “Non usciamo mai dalla realtà con il nostro essere, ma ne usciamo con la coscienza riflessa del nostro essere”. Questa – come ormai sappiamo – ci presenta infatti l’essere come un non-essere, allo stesso modo in cui – tornando a Steiner – ci presenta i reali movimenti compiuti da noi e dalla Terra come astratte figure geometriche.
Dice Steiner: “Nelle mie prime opere vedrete sempre ritornare un’idea per mezzo della quale volli porre la conoscenza sopra una base diversa da quella su cui poggia oggi. Per la filosofia exoterica che deriva dal pensiero anglo-americano, l’uomo è veramente un semplice “spettatore” del mondo, per quanto riguarda il suo processo animico. Anche se l’uomo non ci fosse, così pensa quella filosofia, anche se nella sua anima non risperimentasse ciò che avviene nel mondo fuori di lui, tutto resterebbe tale quale è. Ciò vale per la scienza della natura, riguardo allo svolgimento di fatti da me citato, ma vale anche per la filosofia. Il filosofo odierno si sente molto a suo agio quale “spettatore” del mondo, vale a dire nell’elemento della conoscenza apportatore di morte. Io volevo strappare la conoscenza a questo elemento apportatore di morte. Perciò ho sempre ripetuto: l’uomo non è un semplice spettatore del mondo; è il teatro sul quale si svolgono sempre di nuovo i grandi avvenimenti cosmici; la vita animica dell’uomo è la scena sulla quale si svolge il divenire del mondo” (pp. 57-58).
“Il filosofo odierno – dice Steiner – si sente a suo agio quale “spettatore” del mondo”: si sente cioè a suo agio nel darsi al “voyeurismo” o alla “scoptofilia”.
Dicendo così – sia chiaro – non intendo assolutamente offendere il “filosofo odierno”, ma soltanto operare una diagnosi.
Un conto, infatti, è il pensiero che guarda passivamente le cose, altro il pensiero che penetra attivamente nella loro essenza.
Già ricordai, del resto, allorché ci occupammo de La filosofia della libertà, che Franz von Baader (1765-1841), autore assai apprezzato da Goethe, Schlegel ed Hegel, ha intitolato un suo scritto: Sull’analogia dell’istinto di conoscere e dell’istinto di generare (in F. von Baader: Filosofia erotica – Rusconi, Milano 1982 – ndr), e che Steiner, rammentando anche il biblico “Or Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino…”, ha riconosciuto, in più occasioni, la validità di una siffatta analogia.
Nella stessa occasione, sottolineai anche il fatto che Kant, nonostante i gravi limiti della sua concezione, ha avuto il merito di riconoscere la rappresentazione come un’attiva produzione del soggetto, e non come una passiva ri-produzione interiore dell’oggetto esteriore (quale la considerano gli empiristi).
Il suo idealismo critico ha però messo in luce la realtà del soggetto, oscurando quella dell’oggetto (della “cosa in sé”), mentre il materialismo, tanto nella sua espressione scientifica, quanto in quella filosofica, ha messo in luce la realtà dell’oggetto, oscurando quella del soggetto (dell’Io).
L.R. – Roma, 3 febbraio 2000
ANTROPOLOGIA 14° Incontro
Cominciamo subito a leggere.
Dice Steiner: “Che cosa avviene effettivamente nell’entità umana? Da un lato abbiamo la natura osseo-nervosa; dall’altro, la natura sanguigno-muscolare. Dalla cooperazione di entrambe vengono continuamente create a nuovo sostanze e forze. La terra è preservata dalla morte pel fatto che nell’uomo stesso vengono create a nuovo sostanze e forze (…) Fin d’ora vedete quanto sia erronea la concezione della conservazione della materia e dell’energia, come viene presentata di solito, perché essa è confutata da ciò che accade nell’interno della natura umana, e costituisce un ostacolo per una vera comprensione dell’entità umana. Solo quando si riconquisterà l’idea sintetica che è effettivamente impossibile che dal nulla nasca qualche cosa, ma che una cosa può venir trasformata in modo da perire mentre un’altra ne sorge, solo allora si sarà guadagnato qualcosa di fecondo nel campo delle scienze” (pp. 58-59).
Afferma Steiner che è “impossibile che dal nulla nasca qualche cosa”.
Ma molti non la pensano così. Ad esempio, secondo i cattolici, la creazione sarebbe avvenuta “ex nihilo” (mediante cioè il passaggio dal “non-essere” all’”essere”) e, secondo gli hegeliani, il divenire nascerebbe (quale “sintesi”) dal rapporto dialettico tra l’essere (la “tesi”) e il nulla (l’”antitesi”).
Tanto gli uni che gli altri fanno dunque nascere, dal “nulla”, qualcosa.
A suo tempo, ho fatto però notare (cfr. L’essere, il mondo delle Madri e la soglia, 1 dicembre 2003 – ndr) che il “nulla”, a ben vedere, è condannato a non potersi reggere su di sé: che è ossia condannato a essere sempre il nulla di qualcosa (di un essere determinato), e mai il nulla dell’essere (indeterminato).
Le cose, in concreto, stanno comunque così: a una coscienza come quella ordinaria, che identifica l’Io con il corpo fisico, un Io dis-identificato, e quindi indipendente dal corpo fisico, non può apparire in effetti che un “nulla”.
Mefistofele, infatti, vorrebbe far credere a Faust che l’essere o lo spirito (l’essere autocosciente) è un “nulla”, proprio perché non ha (come il concetto) realtà fisica (né, potremmo aggiungere, eterica o astrale).
Chiunque tuttavia riesca, in virtù della coscienza intuitiva, a “identificare” finalmente l’Io con l’Io (e non più, dunque, col corpo fisico, come fa la coscienza rappresentativa, o con il corpo eterico e il corpo astrale, come potrebbero rispettivamente fare la coscienza immaginativa e quella ispirativa), scoprirà che l’Io, proprio in quanto vuoto di fisicità (di etericità e di astralità), è colmo o saturo di essere (o di spirito).
L’esperienza del vero Io non è dunque l’esperienza del “vuoto” o del “nulla”, bensì quella della pienezza o del turgore dell’essere (o dello spirito).
Afferma appunto Scaligero (nel Dell’amore immortale – nda): “L’amore è l’essere dello spirito”; “L’essere dell’uomo, nell’essere, è amore”.
Ben si comprende, a quel punto, che ogni cosa, nascendo, proviene dall’essere, che ogni cosa, morendo, ritorna all’essere, e che ogni cosa, per mezzo appunto del nascere e del morire, diviene e si rinnova.
Dice Steiner: “Trovate come un assioma, nei trattati di fisica, la legge dell’impenetrabilità dei corpi: cioè che nello spazio occupato da un corpo non può, al tempo stesso, prendere posto un altro. Ciò viene enunciato come una proprietà generale dei corpi. Invece si dovrebbe dire soltanto: quei corpi o quegli esseri che sono tali da non permettere che nello spazio dov’essi sono, possano trovarsi al tempo stesso altri esseri di uguale natura, sono “impenetrabili”. I nostri concetti dovrebbero essere adoperati solamente per separare una data sfera da un’altra; dovrebbero formulare soltanto dei postulati, e non dare definizioni che abbiano la pretesa di essere universali” (p. 59).
Qual è la differenza tra l’enunciato che si trova nei “trattati di fisica” e quello formulato da Steiner? E’ semplice: che alla luce del primo tutti i corpi devono essere giudicati “impenetrabili”, mentre alla luce del secondo alcuni (quelli fisici) vanno giudicati “impenetrabili”, altri “penetrabili” (da corpi di “uguale natura”).
L’enunciato di Steiner non nega dunque la validità di quello dei “trattati di fisica” (in quanto lo comprende), bensì nega la sua pretesa di avere valore generale o universale.
Che cosa significa, quindi, che “i nostri concetti dovrebbero essere adoperati solamente per separare una data sfera da un’altra”? Che il concetto di “impenetrabilità”, per restare in tema, vale per una sfera di realtà (quella materiale), mentre quello di “penetrabilità” vale per un’altra sfera di realtà (quella animico-spirituale), e che non si può perciò, dando “definizioni che abbiano la pretesa di essere universali”, ritenere valido un solo concetto per entrambe le sfere.
Dice Steiner: “Così non si dovrebbe formulare una “legge” riguardo alla conservazione delle sostanze e delle forze, bensì ricercare per quali entità questa legge ha un’importanza. Il secolo XIX ebbe appunto la tendenza a stabilire una legge dichiarandola valida per tutti i campi. Invece noi dovremo adoperare la nostra vita animica per accostarci alle cose ed osservare quali esperienze esse suscitano in noi” (pp. 59-60).
Da che cosa dovremmo essere portati verso la scienza dello spirito? E’ presto detto: dall’amore per la realtà. Non dovrebbe essere infatti una “concezione del mondo” a guidarci verso la realtà, bensì dovrebbe essere la realtà a guidarci verso una “concezione del mondo”.
Per questo, mi capita talvolta di dire che chi ama la realtà più di se stesso (o di ciò con cui si è identificato) giungerà prima o poi all’antroposofia, e che chi non giunge all’antroposofia ama appunto se stesso (o ciò con cui si è identificato) più della realtà.
Non si deve pertanto “partire – come si suol dire – da un principio” (da questo o da quell’altro “principio”), bensì dalla realtà, e giungere così ai suoi molteplici “principi” (alle molteplici idee o ai molteplici lógoi che la governano).
Dice appunto Scaligero: “Le verità sono tante, la realtà è una”. Guai dunque a chi ama l’una o l’altra verità più della realtà, poiché sono proprio tali parziali verità, amate più della realtà, a possederci, e a renderci così dogmatici, intolleranti o fanatici.
Ma per quale ragione si è portati ad amare delle singole verità più della realtà? Per la semplice ragione che queste servono, a mo’ di grucce, a dare sicurezza a quanti non hanno ancora imparato a reggersi sulle proprie gambe (sul proprio Io).
Dimostrare a qualcuno che il valore delle idee, delle verità, dei principi o delle leggi cui si uniforma non è “assoluto”, ma “relativo”, equivale infatti a togliergli la terra sotto i piedi.
Fatto sta che ad avere valore “assoluto” – come abbiamo altre volte sottolineato – non sono le idee, le verità, i principi o le leggi, bensì è l’Io (quell’Io inabitato dal Logos, che non è venuto per abolire la “Legge”, ma per darle appunto “compimento”).
Come si diventa dunque “assolutisti”? Assolutizzando quanto ha valore relativo (l’idea); e “relativisti”? Relativizzando quanto ha valore assoluto (l’Io).
Abbiamo finito la terza conferenza. Passiamo alla quarta.
Dice Steiner: “L’educazione e l’insegnamento dell’avvenire dovranno assegnare un valore tutto speciale alla formazione della volontà e del sentimento (…) Solo quando si conosce davvero la volontà, è possibile conoscere pure, almeno in parte, gli altri moti dell’anima, i sentimenti. Che cosa è veramente un sentimento? Un sentimento è molto affine alla volontà. Vorrei dire: la volontà non è che il sentimento attuato, e il sentimento è la volontà trattenuta. La volontà che ancora non si estrinseca del tutto, che resta trattenuta nell’anima, è il sentimento; il sentimento è la volontà attutita. Perciò si potrà comprendere la natura del sentimento solo dopo che si sarà afferrata la natura della volontà” (p. 61).
E’ importante notare che ci si serve qui del pensiero non per dare una “definizione” del sentimento, ma per orientarne e guidarne l’osservazione.
Come vedete, ci troviamo sempre in un ambito dinamico: cioè in presenza di giochi di forze. Dice Steiner che il “sentimento è molto affine alla volontà”; ma si potrebbe anche dire che il sentimento e la volontà sono la manifestazione, a due livelli diversi, di una stessa forza. Il primo è infatti una volontà che si realizza “trattenendosi” all’interno (dell’anima), mentre la seconda è un sentimento che si realizza “attuandosi” all’esterno (dell’anima).
Ricordiamoci che, nell’anima, agiscono il pensare, il sentite e il volere, ma che il pensare è fortemente influenzato, in alto, dall’Io (dallo spirito), e che il volere è fortemente influenzato, in basso, dal corpo (dagli istinti).
L’anima, dunque, è soprattutto “anima” al centro, laddove agisce appunto il sentire.
Non dimentichiamo, inoltre, che tutto nasce dall’Io. Ho fatto spesso, al riguardo, l’esempio del Sole. Nel Sole, luce e calore sono inscindibili; nell’uomo, invece, vi è un’organizzazione (quella neuro-sensoriale) che accoglie la luce e respinge il calore, e un’altra (quella metabolica e degli arti) che, di contro, accoglie il calore e respinge la luce. E’ nella sua organizzazione mediana, che sta tra quella della luce senza calore e quella del calore senza luce, che prendono quindi forma i sentimenti.
Riassumendo, potremmo perciò dire: la volontà, quale immediata espressione dell’Io, muore nel pensare ordinario (nel rappresentare) della sfera cefalica; vive imbrigliata e interiorizzata nel sentire della sfera ritmica; e vive sbrigliata ed esteriorizzata nel volere della sfera metabolica.
Dice Steiner: “Quando consideriamo l’uomo nella sua totalità, dobbiamo riconoscere in lui corpo, anima e spirito. Anzitutto nasce il corpo, almeno nei suoi elementi più grossolani (…) L’elemento animico, nei suoi caratteri principali, è ciò che scende dall’esistenza prenatale a congiungersi col corpo. Ma lo spirito esiste solo in germe nell’uomo odierno; nell’uomo di un lontano avvenire le cose saranno diverse” (p. 62).
Abbiamo imparato, studiando La scienza occulta, che nelle fasi evolutive dell’”antico-Saturno”, dell’”antico-Sole”, dell’”antica-Luna” e della Terra sono stati deposti nell’uomo, rispettivamente, i germi del corpo fisico, del corpo eterico, del corpo astrale e dell’Io. C’è stata dunque un’evoluzione che è partita dal corpo fisico ed è arrivata all’Io.
Questo punto d’arrivo è però, al tempo stesso, un punto di partenza: ovvero, il punto di partenza dell’evoluzione, libera e cosciente, di quell’Io (di quello spirito) che esiste appunto “solo in germe nell’uomo odierno” (solo come ego), e che “nell’uomo di un lontano avvenire” esisterà invece come “Uomo spirituale” (dopo essere esistito, ovviamente, come “Sé spirituale” e “Spirito vitale”).
Pensiamo ancora una volta al Prologo del Vangelo di Giovanni: “Ma a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il potere di diventare figli di Dio; i quali, non dal sangue, né da voler di carne, né da voler dell’uomo, ma da Dio sono nati”.
Dal momento che Dio si rivolge a Mosé con queste parole: “Così dirai ai figli d’Israele: “Io-sono mi ha inviato da voi””, potremmo anche dire, però, che “diventare figli di Dio”, o nascere “da Dio”, equivale a diventare figli dell’Io, o a nascere dall’Io (da quell’Io – non ci stancheremo mai di ripeterlo – in cui vive il Logos o, per l’appunto, il “Figlio dell’uomo”).
Quella partita dal corpo fisico e arrivata all’Io (all’ego) è stata dunque l’evoluzione (alterata dal “peccato originale”) del “figlio di Dio” o del “vecchio Adamo”; quella che parte dall’Io (dall’ego) per arrivare, in un “lontano avvenire”, all’”Uomo spirituale”, è invece l’evoluzione del “Figlio dell’uomo” o del “nuovo Adamo”.
Quest’ultimo verrà infatti alla luce quando l’Io, facendo leva sulla forza del Logos che lo inabita, umanizzerà e redimerà, in qualità di “Sè spirituale”, il proprio corpo astrale, in qualità di “Spirito vitale”, il proprio corpo eterico, e in qualità di “Uomo spirituale” il proprio corpo fisico (la “resurrezione della carne”).
Risposta a una domanda
L’evoluzione partita dal corpo fisico e arrivata all’Io è stata un’evoluzione che, per un verso, ha allontanato l’uomo dallo spirito, ma che, per l’altro, lo ha portato alla coscienza (sensibile), all’autocoscienza (egoica) e alla libertà (“da”).
Pensi, ad esempio, a quel realismo ingenuo, che viene anche detto “percezionismo”. Mena vanto – come sa – di fondarsi interamente sull’intelletto e sulla percezione dei sensi. Ma è forse suo merito il poter disporre di un intelletto e di una percezione dei sensi? Niente affatto! E’ quindi in realtà un ozioso che vive soltanto di rendita, per di più utilizzando e sfruttando tali doni dello spirito per glorificare se stesso, e non appunto lo spirito.
Sarebbe bene meditare, al riguardo, la cosiddetta “parabola dei talenti” e, in specie, le parole con cui si conclude: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 25, 29-30 – nda).
Dice Steiner: “Osserviamo le vespe, le api, anche i cosiddetti animali inferiori, e vedremo, dalla forma dei loro corpi fisici, come in essi sia radicato qualcosa che nel corpo fisico umano non esiste con la stessa forza ed estensione. E’ qui in giuoco ciò che abbracciamo nel concetto complessivo di istinto. Sicché, in realtà, possiamo studiare l’istinto soltanto se lo consideriamo in connessione con la forma del corpo fisico (…) Se vogliamo studiare la volontà, dobbiamo cercarla anzitutto nel dominio dell’istinto, e renderci conto che lo troviamo esplicato nelle forme dei corpi fisici dei diversi animali. Se volessimo disegnare le forme principali dei singoli animali, avremmo il disegno dei diversi generi di istinti (…) Nel nostro corpo fisico vive, configurandolo e compenetrandolo, il corpo eterico che per i sensi esterni è invisibile, soprasensibile. Studiando la natura della volontà, scopriamo che il corpo eterico, compenetrando il corpo fisico, compenetra pure ciò che in questo si estrinseca come istinto. Allora l’istinto diventa inclinazione. Nel corpo fisico la volontà è istinto; ma non appena il corpo eterico si impadronisce dell’istinto, la volontà diventa inclinazione” (pp 64-65).
Se la volontà – come ha detto Steiner – “è una croce per gli psicologi”, l’istinto, l’inclinazione e (come vedremo) la brama lo sono ovviamente altrettanto.
Freud, ad esempio, lascia da parte l’istinto (Instinkt), e basa la sua teoria sull’impulso (Trieb), quale generica “forza propulsiva indeterminata” (quale forza che ha perciò poco a che fare con quella dell’impulso di cui parleremo più avanti), e Jung confessa, candidamente, di non sapere affatto che cosa sia.
Ascoltate appunto ciò che scrive: “Sono ben lungi dal sapere che cosa sia lo spirito per se stesso, ed altrettanto lontano dal sapere che cosa siano gli istinti. L’uno è per me un mistero tanto quanto gli altri” (C.G.Jung: Freud e Jung. Contrasti in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna – Einaudi, Torino 1969 – ndr).
Chiunque sia invece in grado di sperimentare la natura della volontà, avrà chiaro che questa – come dice Steiner – si manifesta sul piano fisico come “istinto” e sul piano eterico come “inclinazione”.
In termini goethiani, potremmo anche dire che l’inclinazione (più interiore) è una “metamorfosi ascendente” dell’istinto (più esteriore). Si tratta certo di differenze sottili, ma non per questo trascurabili (se si vuole fare davvero scienza, e non confondere ogni cosa nel calderone della cosiddetta “vita emotiva”). Il genio del linguaggio, ad esempio, ci fa dire che l’istinto ci “guida”, mentre l’inclinazione si “asseconda” (“astra inclinant, non determinant”). Il che conferma che sentiamo più intima (più vicina all’anima) l’inclinazione che non l’istinto (vincolato al corpo).
Trattandosi della manifestazione della volontà nel corpo eterico, dovremmo parlare d’inclinazione soprattutto quando ci riferiamo ai temperamenti. Il melanconico, il sanguigno, il collerico e il flemmatico altro non sono infatti che delle (durevoli) “inclinazioni” ad agire e re-agire, nei confronti del mondo e di se stessi, in un particolare modo o “stile”, o secondo un particolare modello (prevalentemente dinamico) di comportamento.
L.R. – Roma, 10 febbraio 2000
ANTROPOLOGIA 15° Incontro
Giovedì scorso, abbiamo concluso il nostro incontro parlando dell’istinto e dell’inclinazione come di due livelli di manifestazione della volontà: il primo fisico; il secondo eterico.
Consideriamo adesso il terzo: quello astrale.
Dice Steiner: “L’uomo possiede inoltre il corpo astrale o corpo senziente, che è ancora più interiore degli altri due. Esso, a sua volta, afferra l’inclinazione, e allora avviene non solo un’interiorizzazione, ma un fatto di coscienza: istinto e inclinazione vengono sollevati alla coscienza, e ne nasce la brama, il desiderio. Questo si trova ancora nell’animale, come vi si trova l’inclinazione, poiché l’animale possiede tutti e tre questi corpi: fisico, eterico e astrale. Ma la brama va già considerata come qualcosa di molto interiore. Dell’inclinazione si parla come di qualcosa che si manifesta unitariamente dalla nascita fino alla più tarda età, mentre per la brama si parla di qualcosa che si rafforza con l’anima, che si manifesta in singole occasioni. Una brama non è qualcosa di caratterologico, che abbia bisogno di essere attaccato all’anima, bensì sorge e scompare; con ciò dimostra di essere più propria all’anima che non lo sia una semplice inclinazione” (p. 66).
In realtà, ci troviamo all’interno del corpo senziente, e non ancora dell’anima senziente. Si parla quindi di “anima” (di “un fatto di coscienza”) solo perché il corpo astrale – come spiega Steiner in Teosofia – è unità o sintesi di corpo senziente e anima senziente (questa è inserita infatti in quello come la spada nel fodero o la mano nel guanto).
La volontà si dà dunque come istinto nel corpo fisico, come inclinazione nel corpo eterico e come brama nel corpo senziente.
Ma lasciamo adesso il corpo, e vediamo come la volontà si dà nell’anima (nell’anima senziente, nell’anima razionale o affettiva e nell’anima cosciente).
Dice Steiner: “Che cosa accade nell’uomo (mentre non può più accadere nell’animale) quando egli accoglie nel suo io, vale a dire nelle sue tre anime (senziente, razionale e cosciente) ciò che vive nella sua corporeità come istinto, inclinazione e brama? Che cosa ne risulta? Qui non possiamo più distinguere altrettanto nettamente come per la corporeità, poiché nell’anima, e specialmente in quella dell’uomo odierno, tutto è più o meno mescolato e confuso (…) In taluni psicologi si trovano ancora mantenute le antiche rigorose demarcazioni tra volere, sentire e pensare; altri, specialmente coloro che si ispirano allo Herbart (Johann Friedrich Herbart, 1776-1841 – nda), accentuano più il lato del pensiero; altri (quelli della scuola del Wundt) (Wilhelm Maximilian Wundt, 1832-1920 – nda) piuttosto il lato volitivo. Comunque manca, in genere, una chiara consapevolezza di come debba veramente farsi questa divisione dell’anima. Ciò deriva dal fatto che, nella vita pratica, l’io compenetra effettivamente tutte le facoltà animiche e che, nell’uomo attuale, la distinzione fra le tre non appare chiara e netta nemmeno nella vita pratica. Perciò nemmeno il linguaggio dispone di parole adeguate per distinguere ciò che nell’anima è di natura volitiva – istinto, inclinazione, brama – quando sia afferrato dall’io. In genere, lo si chiama “motivo”; sicché quando parliamo degli impulsi volitivi che si manifestano nell’anima vera e propria, nell’io, parliamo di motivo, e allora sappiamo che il motivo è proprio dell’uomo: gli animali possono avere brame, ma non hanno motivi” (pp. 66-67).
Ricorderete che, studiando La filosofia della libertà, abbiamo già trattato del “motivo”, concludendo che ci sono dei motivi (detti lì “molle”) che risalgono in modo più o meno cosciente e spontaneo dalla natura e altri (detti lì “scopi”) che discendono in modo più o meno cosciente e coercitivo dalla cultura.
Per l’anima – dice Steiner – “non possiamo più distinguere altrettanto nettamente come per la corporeità, poiché nell’anima, e specialmente in quella dell’uomo odierno, tutto è più o meno mescolato e confuso”.
Tenendo conto, tuttavia, di quanto affermato ne La filosofia della libertà, potremmo forse chiamare “impulsi” (da pellěre = spingere) i “motivi” che si danno nell’anima senziente (in cui prevale l’attività dormiente del volere); “moventi” (da movēre = muovere) quelli che si danno nell’anima razionale o affettiva (in cui prevale l’attività sognante del sentire); e “scopi” (da sképtesthai = guardare) quelli che si danno nell’anima cosciente (in cui prevale l’attività vigile del pensare o del rappresentare).
David Shapiro, ad esempio, nel suo Stili nevrotici (cfr. 5° incontro – ndr), illustra appunto uno “stile impulsivo”, spiegando che quella “impulsiva” è un’azione (naturale) che “non è sentita come completamente deliberata o pienamente voluta”, e che i tipi “impulsivi” sono poveri, sia di “implicazioni affettive durevoli”, sia di “interessi attivi, di scopi, mete o valori, al di là delle immediate occupazioni della vita quotidiana”: ossia poveri – diremmo noi – tanto dei “motivi” da cui è “mossa” (naturalmente) l’anima razionale o affettiva, quanto di quelli cui “guarda” (idealmente) l’anima cosciente (in forma appunto di “scopi”, “mete” o “valori”).
Dunque, ricapitolando, la volontà si presenta nel corpo come istinto, inclinazione e brama, e, nell’anima, come motivo (come impulso, movente e scopo). Vediamo ora come si presenta nello spirito.
Dice Steiner: “Chi osserva l’uomo dal punto di vista della sua natura volitiva, dirà: quando io so quali sono i motivi di un uomo, posso dire di conoscerlo. Eppure non completamente! Perché, mentre l’uomo sviluppa dei motivi, sotto sotto risuona sommessamente qualche altra cosa, e questa va presa molto seriamente in considerazione. Vi prego ora di distinguere molto esattamente ciò che intendo dire parlando di questo sommesso risuonare interiore ch’è presente nell’impulso volitivo, da ciò che in esso ha invece a che fare con la rappresentazione. Non voglio ora parlare di quest’ultima. Non è questo che intendo; bensì voglio parlare di quella specie di eco che risuona con un’impronta di volontà. Prima vi è una cosa che, anche quando abbiamo dei motivi, agisce sempre ancora nella volontà: l’anelito (…) Compiamo forse un’azione nella nostra vita, senza poi sentire che avremmo potuto farla assai meglio? Sarebbe assai triste d’essere compiutamente soddisfatti di una nostra azione, poiché non esiste cosa che non sarebbe stato possibile far meglio di come l’abbiamo fatta (…) Molti errori vengono commessi in questo campo. Gli uomini danno una grande importanza al pentimento quando hanno compiuto un’azione non buona. Ma il pentimento è per lo più frutto di egoismo. Ci si pente perché si vorrebbe aver fatto meglio, per essere migliori noi stessi. Questo è un sentimento egoistico. Non lo è invece la contrizione di chi si propone di far meglio un’altra volta la medesima azione. Più alto assai del semplice pentimento è il proposito, lo sforzo di far meglio in avvenire. In tale proposito di compiere l’azione in modo migliore, ci accompagna l’anelito che abbiamo detto. Ora possiamo dunque chiederci: Che cos’è veramente questo desiderio che risuona in noi come anelito? Per chi sia veramente in grado di osservare l’anima umana, questo è il primo elemento fra tutti quelli che sussistono in noi dopo la morte. L’anelito a far meglio, nella forma in cui l’ho mostrato ora, è un residuo che portiamo con noi dopo la morte, e che appartiene già al sé spirituale” (pp. 67-68).
Sapete che Platone fa nascere l’essere femminile e l’essere maschile dalla scissione dell’androgino originario.
Ma che cosa rappresenta essenzialmente l’androgino? La sintesi degli opposti, l’uno o l’Io.
La scissione dell’androgino è dunque la scissione di un uno (di un Io) che diventa, nel corpo e nell’anima, un due: ad esempio, uno yin e uno yang, un rappresentare e un volere, un apparato sanguigno-muscolare e un apparato osseo-nervoso.
Quando mai, d’altronde, si sarebbe concepito il “dualismo” se le cose non stessero così? Quando mai si sarebbe cioè divisa, come ha fatto Cartesio, la res cogitans dalla res extensa, o parlato, come ha fatto Freud, di un “misterioso salto dalla mente al corpo”?
Che cosa cerca perciò l’Io? Cerca se stesso. Si cerca nel mondo e negli altri mediante appunto la volontà. Aneliamo a tornare a noi stessi, a ritrovarci e, per questo siamo sempre irrequieti e non troviamo mai pace. Ma l’Io non ritroverà mai l’Io (e, attraverso l’Io, il Logos) se la sua ricerca non verrà guidata dal pensiero. La volontà fornisce infatti la forza, ma è il pensiero a dover fornire la forma (l’idea).
È tragico, dunque, non sentirsi insoddisfatti o infelici nella presente condizione umana, ma è altrettanto tragico sentirsi soddisfatti o felici per qualunque cosa sia altra dall’Io. Dice infatti il Cristo: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo”; oppure: “Chi beve di quest’acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno”.
Abbiamo detto che “l’Io cerca l’Io”; avremmo potuto anche dire, però, che “l’Io attrae l’Io”. È questa la radice segreta di quell’anelito che – come dice Steiner – risuona sommessamente nell’interiorità (e che, dopo la morte, ci condurrà a una nuova vita terrena).
“Il pentimento – dice sempre Steiner – è per lo più frutto di egoismo”.
Il pentimento è infatti sano quando si limita a esprimere la coscienza dell’errore, poiché è solo da questa che può nascere il proposito (“di far meglio in avvenire”). Indulgere invece, da pentiti, nell’automortificazione, può essere uno dei tanti stratagemmi messi in atto (più o meno scientemente) dall’ego per non cambiare se stesso, e per non far posto all’Io.
Ogni pentimento che non si limiti a esprimere la coscienza dell’errore, non è, psicodinamicamente, che una “ferita narcisistica”.
Ho detto, altre volte, che come esiste il “delirio di potenza” (espresso, sul piano noetico, dal dogmatismo) così esiste il “delirio d’impotenza” (espresso, sul piano noetico, dall’agnosticismo), e ch’è proprio questo a farci “piangere addosso”, a farci commiserare la condizione umana, invece di spingerci a fare del nostro meglio per restituirle la coscienza del rango, della dignità e della forza che le sono propri.
Fatto sta che nel riconoscimento dell’errore, vive e opera la verità: quella verità che sempre ci soccorrerà se avremo il coraggio conoscitivo di non “accontentarci”, e di voler andare fino in fondo.
Dice il proverbio: “Sbagliando s’impara”. È così. Hanno paura infatti di sbagliare soltanto coloro che, non amando a sufficienza la verità, non sanno imparare dai propri errori, né modificare se stessi.
L’uomo anela insomma all’uomo o alla propria umanità, e lungo il cammino che vi conduce deve misurarsi necessariamente con l’errore. Com’è dunque un peccato sbagliare senza accorgersi di avere sbagliato, così è un peccato rimanere fermi o arrestarsi per paura di sbagliare.
Dice Steiner: “Qui opera molto fortemente il cosiddetto subcosciente dell’uomo. Nella nostra coscienza solita non avremo sempre la chiara rappresentazione di voler far meglio in avvenire un’azione oggi da noi compiuta. Ma vive in noi come una seconda persona, che sviluppa sempre (non nella rappresentazione, ma nella volontà) una chiara immagine di come, se il caso si presentasse, compiremmo meglio quella stessa azione. Non sottovalutate una tale nozione né, in genere, l’idea di questa seconda persona che vive in noi, e di cui tanto si parla oggi nella psicanalisi, nella psicologia analitica” (p. 69).
Qual è dunque la differenza tra l’anelito e il proposito? Che il primo è un proposito indeterminato, mentre il secondo è un anelito determinato (“non – come precisa Steiner – nella rappresentazione, ma nella volontà”).
Abbiamo parlato, a suo tempo, del volere nel pensare, mostrando che la qualità (morta) del volere operante nel rappresentare è diversa, ad esempio, dalla qualità (viva) del volere operante nell’immaginare (della coscienza immaginativa).
Raccomanda Steiner di non sottovalutare la “nozione” del “cosiddetto” subcosciente. Freud e Jung non l’hanno sottovalutata (l’hanno semmai sopravvalutata), ma si sono comunque persi.
E si sono persi perché hanno creduto di poter penetrare nel subcosciente, in cui opera il vivo pensare nel volere, con la coscienza in cui opera il morto volere nel pensare.
Prendiamo, ad esempio, gli archetipi del Puer e del Senex di cui parla Jung. Gli effetti (psichici) del primo hanno una determinata qualità; quelli del secondo, la qualità opposta. Si tratta dunque di forze governate da forme (da leggi) diverse, e quindi di manifestazioni del pensare nel volere (è infatti il pensare – come sappiamo – a dare forma alla forza).
E com’è possibile, allora, afferrare lo straordinario e potente pensare nel volere con il nostro ordinario e impotente volere nel pensare? (Considerate che laddove Jung crede di afferrare le forze del Puer e del Senex, la scienza dello spirito afferra invece, rispettivamente, quelle luciferiche e arimaniche).
Certo, a Freud e a Jung va riconosciuto l’indubbio merito di aver posto, sul piano scientifico, il problema dell’inconscio. Un conto però è porlo, altro risolverlo. E mai si riuscirà a portare alla luce ciò che veramente vive nell’inconscio finché ci si continuerà a servire dell’ordinario intelletto (o, in sua vece, di una forma mentis più o meno misticheggiante).
“Vive in noi – dice ancora Steiner – come una seconda persona”. Ma noi dovremmo penetrare nell’inconscio proprio con l’intento di riunire questa “seconda persona” (il non-ego) alla “prima” (all’ego), poiché l’Io può venire alla luce soltanto in virtù della morte e della ri-nascita dell’ego (appunto quale Io), e della morte e della ri-nascita del non-ego (appunto quale Io).
Dice Steiner: “In ciascuno di noi esiste, sotto sotto, quasi sotterraneamente, “l’altro”. E in questo “altro” vive anche “l’uomo migliore”, quello che per ogni azione compiuta forma sempre l’inconscio, il subconscio proponimento di farla meglio la prossima volta. Solo più tardi, quando l’anima sarà liberata dal corpo, dal proposito che abbiamo detto sorge la risoluzione. Il proposito resta del tutto in germe dentro l’anima; più tardi segue la risoluzione. E la risoluzione risiede nell’uomo-spirito, come il proposito nello spirito vitale, e come il puro anelito nel sé spirituale” (p. 70).
L'”uomo migliore” è l’Io: quell’Io che attende, in ciascuno di noi, di venire alla luce come “Sé spirituale”, come “Spirito vitale” e come “Uomo spirituale”. I primi due si fanno sommessamente sentire, durante la vita, grazie all’anelito e al proposito, mentre il terzo interviene, dopo la morte, per realizzare ciò cui abbiamo anelato e ciò che ci siamo riproposti.
Durante la vita, potremmo aggiungere, la forza della risoluzione si fa sentire, nella sfera del pensiero, come persuasione e, nella sfera della volontà, come decisione. È importante ricordarlo, perché si tratta, per così dire, di una forza spirituale “in via di estinzione” (da non confondere con quella naturale dei tipi cosiddetti “volitivi” o “decisionisti”, che altro non sono, per lo più, che dei “collerici” o “biliari”).
Carlo Michelstaedter (1887-1910), al più importante dei suoi scritti (alla sua tesi di laurea), ha dato appunto questo titolo: La persuasione e la rettorica (Adelphi, Milano 1995 – ndr).
Ebbene, quanti sono oggi i “persuasi”: cioè a dire, quelli che hanno maturato la loro “persuasione” alla luce e al calore della conoscenza? E quanti invece i “retori”: cioè a dire, quelli che non sono persuasi di niente, e che tentano affannosamente di nascondere il loro vuoto interiore con la verbosità, la dialettica o il fanatismo?
Si è fatto tardi. Continueremo la prossima settimana.
L.R. – Roma, 17 febbraio 2000
ANTROPOLOGIA 16° Incontro
Parlando, nei nostri ultimi incontri, dell’istinto, dell’inclinazione, della brama, del motivo (che abbiamo proposto di suddividere in “impulso”, “movente” e “scopo”), dell’anelito, del proposito e della risoluzione, altro non abbiamo fatto, in definitiva, che parlare della volontà.
Ricorderete che, studiando La filosofia della libertà, dicemmo che il realismo “ingenuo” è il realismo delle “cose”, mentre il realismo “metafisico” è il realismo della “forza” o dell’”energia”, e quindi, a ben vedere, della volontà: vale a dire, di una realtà in sé sconosciuta.
Conosciamo, ad esempio, l’energia termica e l’energia elettrica e sappiamo che l’una può convertirsi o trasformarsi nell’altra; abbiamo anche scoperto, grazie a Einstein, l’equivalenza tra massa ed energia, ma che cosa sia essenzialmente l’energia rimane un mistero.
Così come rimane un mistero che cosa sia essenzialmente quella forza della volontà che conosciamo solo indirettamente (e a-posteriori) attraverso la rappresentazione dell’azione: ossia, del modo in cui tale forza si è attuata o determinata.
Schopenhauer sostiene, ad esempio, che la “cosa in sé” di Kant è appunto la “Volontà” (maiuscola). Essendo però la volontà una “forza” e non una “cosa”, parlarne come di una ”cosa” vuol dire parlare non della volontà, ma della sua “rappresentazione”. (Ignaro di ciò, Schopenhauer ha intitolato la sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione, mentre avrebbe dovuto intitolarla: Il mondo come rappresentazione della volontà e rappresentazione o, più semplicemente: Il mondo come rappresentazione).
Certo, per poter parlare della volontà, e non semplicemente della sua rappresentazione, occorre portarsi al di là dell’astratto orizzonte speculativo e cominciare a “sporcarsi le mani” con la pratica o l’esercizio interiore.
Come la scienza naturale osserva e studia (nell’ordine) il mondo sensibile, così la scienza dello spirito studia e osserva (nell’ordine) il mondo sovrasensibile; e in tanto prima lo studia e poi l’osserva, in quanto non può servirsi dei medesimi organi di senso di cui si serve, trovandoli già pronti, la scienza naturale, ma deve svilupparne altri, extrasensibili, per mezzo appunto dello studio e dell’esercizio interiore.
A che cosa miriamo, ad esempio, praticando l’esercizio della “concentrazione”? A sviluppare, per così dire, un “occhio” capace di osservare quel movimento del pensare che – come dice Steiner ne La filosofia della libertà – passa comunemente “inosservato”.
Ma se passa comunemente inosservato il movimento (pre-cosciente) del pensare, non è difficile capire come passino ancor più inosservati quello (subcosciente) del sentire e quello (incosciente) del volere.
Non si tratta dunque di rappresentarsi la volontà (e di rappresentarsela – alla stessa stregua di Schopenhauer – come una realtà che non ha nulla a che fare con quella del pensiero), quanto piuttosto di sperimentarne la forza attraverso il pensare, poiché il movimento del pensare è già volontà. “Ogni esercizio di pensiero – afferma appunto Scaligero – è in sostanza esercizio della volontà”.
Fatto si è che il pensare, il sentire e il volere (collegati, rispettivamente, alla terza, alla seconda e alla prima Gerarchia) sono tre atti dell’Io, ma ch’è soltanto il primo ad affacciarsi, seppure in modo riflesso, alla coscienza; ove questa apprenda perciò a superare il suo stato riflesso e a osservare il suo movimento, diviene possibile una prima e lucida esperienza della forza extrasensibile o sovrasensibile della volontà.
Dice Steiner: “La psicologia corrente parla solo di un “volere generale”. E nondimeno l’insegnante e l’educatore devono intervenire in tutte e tre queste forze dell’anima (nell’anelito, nel proposito e nella risoluzione – nda) a portarvi regola e ordine. Quando si vuole educare e istruire bisogna lavorare appunto con ciò che si svolge nelle profondità della natura umana. Per maestri ed educatori è sempre estremamente importante sapere che non basta orientare la propria opera secondo le relazioni umane ordinarie, ma che bisogna configurarla partendo dalla comprensione dell’uomo interiore (…) Pensate soltanto a che cosa avverrebbe se le scuole future fossero organizzate secondo l’ideale marxistico o socialistico. In Russia ciò è già avvenuto, e per questo la riforma scolastica di Lunaciarsky (Anatol Lunaciarsky [1875-1933], commissario del popolo per l’educazione dal 1917 al 1929) è qualcosa di orrendo. E’ la morte della cultura! E se già dal bolscevismo viene molto di male, la cosa peggiore sarà il metodo bolscevico di insegnamento, perché distruggerà radicalmente la cultura trasmessa dai tempi precedenti. Questo metodo non raggiungerà subito il suo fine nella prima generazione, ma lo potrà raggiungere tanto meglio nelle successive, facendo così scomparire ogni cultura dalla terra (…) Bisogna badare a questi fenomeni. Occorrono uomini consapevoli che il progresso dal lato sociale esige un’educazione fondata sopra una conoscenza approfondita dell’essere umano” (pp. 71-72).
Queste parole, pronunciate nell’agosto del 1919, si sono rivelate purtroppo profetiche.
Che n’è stato, infatti, della grande tradizione culturale europea? Non è stata appunto “distrutta”? E dove regnavano un tempo i giganti (un Goethe, un Hegel, uno Schelling, un Beethoven o un Wagner), non regnano forse oggi i “nani”? Se ci si guarda attualmente intorno, si stenta addirittura a credere che sia esistita una cultura di tale livello.
D’altro canto, quale altra fine avrebbe potuto fare la cultura una volta mortificata, da un lato, dal materialismo “collettivistico” di stampo politico, ideologico o dottrinario (quello del non-ego, rappresentato dallo Stato o dalla Chiesa) e, dall’altro, dal materialismo “individualistico” di stampo economico (quello dell’ego)?
Non ci si rende conto, in effetti, che quanto viene seminato nel pensare viene poi raccolto nel sentire e infine nel volere. E che cosa è stato ed è tuttora seminato? E’ presto detto: l’anima incosciente o l’autoincoscienza.
Pensate, ad esempio, alla cosiddetta “post-modernità”. Chi non sa ancora in che cosa consista la “modernità”, può forse sapere in che cosa consista la post-modernità? Ma poco importa: basta la parola! Chiunque sia però consapevole, grazie alla scienza dello spirito, che la modernità è rappresentata dalla coscienza intellettuale (rappresentativa), e che una vera “post-modernità” dovrebbe essere pertanto rappresentata dalla coscienza immaginativa, non può che piangere calde lacrime di fronte a tanta irresponsabile faciloneria: a una faciloneria cui naturalmente sfugge che una cultura – come si usa oggi (orribilmente) dire – di “nuova generazione” può essere davvero tale se si libera del passato (della tradizione o della “cultura trasmessa dai tempi precedenti”) non ignorandolo o rigettandolo, bensì superandolo: ovvero, assimilandolo, trasformandolo e rinnovandolo (come ha fatto appunto Steiner con il “goetheanismo”).
Dice Steiner: “Che cosa si vuole oggi secondo i cosiddetti programmi socialistici? Si vuole che i ragazzi si comportino fra loro come si comportano gli adulti. E’ la cosa più falsa che si possa tentare nell’educazione. Dobbiamo invece divenire coscienti che il fanciullo ha da sviluppare forze animiche ed anche corporee diverse da quelle che sviluppano gli adulti nei loro reciproci rapporti. Per progredire nell’educazione bisognerà basarsi sulle profondità dell’anima e chiedersi seriamente: che cosa agisce sulla natura volitiva profonda dell’uomo da parte dell’educazione e dell’insegnamento?” (p. 73).
Abbiamo detto, la volta scorsa, che la forza della risoluzione si fa sentire, nella sfera del pensiero, come persuasione e, nella sfera della volontà, come decisione.
Ebbene, non è oggi crescente, in particolare tra i giovani, il numero di coloro che si sentono indecisi e insicuri (fino a patire, in molti casi, degli “attacchi di panico”)? E non è altresì crescente il numero di coloro che s’illudono di poter rimediare a tale fragilità interiore ricorrendo all’uso di droghe?
Ma questo è quanto si finisce col raccogliere quando si seminano il materialismo e l’intellettualismo astratto: quando ci si ostina, cioè, a non voler trascendere, come i tempi esigerebbero, l’esangue cultura dei “nervi” o della “testa” (vincolata alla percezione sensibile).
Cos’altro potrebbe spingerci, ad esempio, a consumare eroina, droga cosiddetta di “evasione”, se non appunto l’illusoria speranza di poterci così liberare dalla prigionia dei “nervi” e della ”testa”? E che cos’altro potrebbe spingerci a consumare invece cocaina, droga cosiddetta di “prestazione”, se non appunto l’illusoria speranza di riuscire così a cavar fuori dai “nervi” e dalla “testa” quella energia che non siamo più in grado di cavar fuori dalla volontà?
Nei confronti di questo tragico fenomeno, ci si divide in genere tra “proibizionisti” e “antiproibizionisti”, ma è raro che ci si domandi – come dice Steiner – “che cosa agisce sulla natura volitiva profonda dell’uomo da parte dell’educazione e dell’insegnamento”.
Dice Steiner: “Tutto quanto è intellettuale è già volontà senile, è già volontà pervenuta alla vecchiaia. Dunque qualunque istruzione ordinaria, nel senso intellettuale, qualunque ammonimento e, in genere, tutto ciò che nell’educazione viene dato in concetti, non può agire ancora sul fanciullo nell’età in cui si svolge l’educazione (…) Guardiamoci dal credere di poter avere un’influenza sul fanciullo soltanto mediante ciò che pensiamo di aver concepito giustamente. In realtà possiamo influire sul suo sentimento mediante un ripetersi di azioni (…) Il metodo giusto non sta nel dare al bambino ammonimenti, regole morali, ecc., ma nel dirigere la sua attenzione su qualcosa che riterrete atto a destare in lui il sentimento di ciò che è giusto, e nel farglielo poi ripetere e ripetere, finché diventi per lui un’abitudine. Più tale abitudine resterà incosciente, e tanto meglio sarà per lo sviluppo del sentimento; invece quanto più il fanciullo avrà coscienza di eseguire ripetutamente l’azione per dedizione, perché essa dev’essere fatta, e tanto più solleverete quell’azione al grado di vero impulso di volontà. Insomma: una ripetizione inconscia coltiva il sentimento; una ripetizione pienamente cosciente coltiva il vero impulso volitivo accrescendo la forza della decisione” (pp. 73-74).
Come si vede, non si tratta di fare prediche, bensì di agire in modo illuminato: ossia, alla luce di una reale conoscenza dell’essere umano.
Solo questa può infatti indicarci come far sì che ciò che forniamo alla “testa” non rimanga nella “testa”, ma passi nel restante organismo, per educare così tutto l’uomo (il pensare, il sentire e il volere). Potremmo dire, in termini antroposofici, che si tratta di riuscire a far passare ciò che viene afferrato in prima istanza dalla parte “frenica” del corpo astrale (legata al sistema neuro-sensoriale) alla parte “timica” dello stesso (legata al sistema renale) e, soprattutto, al corpo eterico-fisico.
Si potrebbe anche dire, al riguardo, che si tratta di riuscire ad attraversare, con l’educazione, la soglia che divide la parte animico-spirituale da quella eterico-fisica; tenendo ben presente, però, che, nel caso del bambino (che deve calarsi nel corpo eterico-fisico), tale soglia deve essere attraversata, per così dire, dall’alto verso il basso, mentre, nel caso dell’adulto (che deve svincolarsi dal corpo eterico-fisico), deve essere attraversata dal basso verso l’alto.
Per ottenere questo – dice Steiner – l’educatore deve far ricorso, sia alla ripetizione o iterazione “inconscia”, sia a quella “pienamente cosciente”.
Quanti, ai tempi della scuola, hanno dovuto imparare qualche poesia “a memoria”, ricorderanno di non aver fatto altro che ripeterla e ripeterla. Un bel giorno, però, è venuto fuori un “cervellazzo” e ha detto: “Smettiamo d’imparare poesie a memoria, perché non servono alla vita”, senza per nulla considerare (appunto da “cervellazzo”) che le poesie sono il mezzo e la memoria il fine, e che questa serve (eccome!) alla vita.
Abbiamo poc’anzi affermato (citando Scaligero), che “ogni esercizio di pensiero è in sostanza esercizio della volontà”; potremmo anche dire, tuttavia, che “ogni esercizio di memoria è in sostanza esercizio della volontà”, in specie se svolto – come suggerisce Steiner – a ritroso: cioè a dire, dalla sera alla mattina, ove si tratti dei ricordi della giornata, o dall’ultima alla prima parola, ove si tratti invece di una poesia o di una prosa.
Dice Steiner: “I metodi pedagogici antichi, più ingenui e patriarcali, applicavano anche ingenuamente tali principi; le cose diventavano abitudini e contenevano elementi pedagogici ottimi (…) Gli uomini di tempi passati, non solo dicevano ogni giorno il “Padre nostro”, ma avevano altresì un libro di storie che leggevano per lo meno una volta ogni settimana. Perciò erano uomini che, riguardo alla volontà, avevano forze più considerevoli di quelle che si formano con l’educazione attuale; lo sviluppo della volontà dipende infatti dalla ripetizione, e dalla ripetizione cosciente. Non basta dunque proclamare astrattamente che bisogna educare anche la volontà, e credere che, se si hanno delle buone idee al riguardo e si inculcano al fanciullo, mercè qualche astuto provvedimento, si raggiungerà lo scopo. In realtà ciò non serve affatto a rafforzare la volontà, e i fanciulli che si educano a mezzo di “ammonimenti morali” diventano lo stesso uomini deboli e nervosi (…) Riassumendo: l’assegnare quotidianamente a ciascun fanciullo qualche azione da fare ripetutamente ogni giorno, e in certi casi anche durante tutto l’anno scolastico, è una disciplina che rinvigorisce molto energicamente la volontà. Prima di tutto, crea un contatto tra gli scolari, poi rafforza l’autorità dell’insegnante, e abitua i ragazzi ad una attività ripetuta che agisce potentemente sulla volontà. In questo senso agisce con forza tutta speciale sulla formazione della volontà l’elemento artistico, prima di tutto perché l’esercitare un’arte deve poggiare sulla ripetizione e poi perché ciò che l’uomo si appropria in fatto d’arte gli porta sempre nuova gioia. L’arte non si gode una volta sola, ma sempre di nuovo (…) Per questa ragione le mète che noi perseguiamo con la nostra pedagogia sono strettamente connesse con l’elemento artistico” (pp. 74 -75).
E’ sconcertante e doloroso il dover constatare che oggi sono “deboli” e “nervosi” non solo gli allievi, ma anche gli insegnanti (ossia, gli allievi di ieri).
Ma quale modello da emulare (in specie, tra i sette e i quattordici anni) possono costituire degli insegnanti così “deboli” e “nervosi” (e magari, per reazione, “autoritari”) da non poter veicolare alcuna “autorevolezza”? E come si può pretendere, poi, che i giovani diventino adulti se gli adulti non solo non si dimostrano tali, ma si mettono addirittura a scimmiottare i giovani?
Diceva Jung (l’ho già ricordato): “Gli inconsci si parlano”. L’inconscio dell’allievo o del giovane “parla” dunque con quello dell’insegnante o dell’adulto, e ben presto si accorge che costui (fatte, ovviamente, le dovute eccezioni) non può fargli da amorevole guida, perché è più disorientato e più smarrito di lui; al punto da incoraggiarlo e sollecitarlo, il più precocemente possibile, a guidarsi (“democraticamente”) da sé o – come spesso si dice – a “responsabilizzarsi”.
Ogni prematura “responsabilizzazione“ degli allievi o dei giovani è però segno di una prematura “de-responsabilizzazione” degli insegnanti o degli adulti.
Ove avessimo voglia di scherzare, potremmo dunque paragonare l’odierno educatore a un barbone che, per la strada, cerchi di smerciare ai passanti un libro, intitolato: “Come diventare miliardari”.
Al cospetto di questa moderna “strage degli innocenti”, la voglia di scherzare però passa. (Proprio mentre stiamo rielaborando queste note, il Times di Londra parla di una Prozac generation, riferendo che tra il 1991 e il 2001, il numero di minori a cui sono stati prescritti antidepressivi è cresciuto del 70 per cento, che tra loro 35.000 sono sotto Prozac, e che dal 1950 ad oggi, in Europa, il numero di suicidi tra gli adolescenti è quadruplicato – ndr).
E chi è l’Erode di turno? E’ facile: la superficialità “profonda”, l’ignoranza “colta” (l’ignorantia docta) o – volendo dirla con Robert Musil – la “stupidità “intelligente”” del materialismo (amaro frutto – come detto – dell’autoincoscienza).
Fatto si è che l’anima infantile, crescendo, dovrebbe essere nutrita in primo luogo d’amore, in secondo luogo di bellezza e in terzo luogo di verità (“Non di solo pane vivrà l’uomo…”). Che questa affermazione risuoni oggi alle orecchie dei più (in specie se intellettuali) ingenua, banale o retorica, se non addirittura ridicola, può bastare a illuminarci sul carattere dei tempi in cui viviamo.
Abbiamo finito la quarta conferenza. Giovedì prossimo cominceremo la quinta.
L.R. – Roma, 24 febbraio 2000
ANTROPOLOGIA 17° Incontro
Cominciamo la quinta conferenza.
Dice Steiner: “Avrete osservato che finora, parlando dell’uomo, ne ho considerato specialmente l’attività intellettuale, conoscitiva, da un lato, e l’attività volitiva dall’altro. Vi ho pure mostrato come la prima delle due stia in rapporto col sistema nervoso e l’altra con l’attività del sangue. Se riflettete su tutto ciò, vi chiederete: come stanno le cose riguardo alla terza attività dell’anima, cioè a quella del sentimento? (…) Dobbiamo però renderci conto chiaramente di un’altra cosa, a cui ho spesso accennato per diversi rapporti. Non si possono soltanto collocare pedantescamente l’una accanto all’altra queste facoltà dell’anima: pensare, sentire e volere, perché nel complesso dell’anima vivente c’è sempre un trapasso dall’una all’altra (…) Nell’atto volitivo troverete sempre nascosta, in qualche modo, l’attività del rappresentare (…) Una sottile attività volitiva pervade la formazione dei pensieri, li collega fra loro, per arrivare a giudizi e conclusioni. Perciò dobbiamo limitarci a dire: l’attività volitiva è “principalmente” attività volitiva, ma ha in sé la sottocorrente dell’attività pensante; e viceversa l’attività pensante è “principalmente” tale, ma ha in sé una sottocorrente volitiva” (pp. 76-77).
Abbiamo già parlato a suo tempo del fatto che muoviamo i primi passi nello studio dell’anima imparando a distinguere il pensare, il sentire e il volere, ma che poi, progredendo, dobbiamo portarci al di là di questa visione schematica delle sue facoltà.
Per far questo, dobbiamo però portarci al di là dell’intelletto, poiché è appunto l’intelletto a trovarsi a suo agio con gli schemi. E’ un fatto, non una critica. Infatti, come l’intelletto si trova a suo agio con gli schemi, così gli occhi, ad esempio, si trovano a loro agio con i colori, ma non con i suoni.
Lo sforzo di pensare dinamicamente la vita del volere nel pensare, o quella del pensare nel volere, costituisce quindi un esercizio.
“Una sottile attività volitiva – dice Steiner – pervade la formazione dei pensieri, li collega fra loro, per arrivare a giudizi e conclusioni”. A questo proposito, ricorderete che, una sera, ho sottolineato la necessità di non limitarsi ad affermare – come spesso si fa – che, per trascendere l’intelletto, occorre “immettere” il volere nel pensare (come se nel pensare ordinario non vi fosse alcun volere), bensì d’impegnarsi a distinguere la qualità del volere (nel pensare) che caratterizza l’attività intuitiva, quella ispirativa o quella immaginativa dalla qualità (morta) del volere che caratterizza l’ordinaria attività rappresentativa.
So che questo non è facile, perché ci si figura in genere la morte come una mera “assenza di vita”, e non come un’entità (un principio attivo), allo stesso modo in cui ci si figura in genere la libertà come una mera “assenza di costrizione”, e non come un soggetto o un Io.
Ci sarà però difficile comprendere la differenza tra il pensiero cosiddetto “riflesso” (rappresentativo) e il pensiero cosiddetto “vivente” (immaginativo), se non comprenderemo e sperimenteremo la differenza tra la “volontà di morte” (arimanica) che muove, dis-animandolo, il primo e la “volontà di vita” (michaelita) che muove, animandolo, il secondo.
Dice Steiner: “Questo interpenetrarsi delle attività dell’anima si riscontra anche impresso nel corpo, in cui l’attività animica in questione si manifesta. Guardiamo per esempio l’occhio umano: se lo osserviamo nella sua totalità, vediamo in esso proseguire i nervi; ma vediamo proseguire nell’occhio anche le vie del sangue. Per il fatto che vi proseguono i nervi, penetra nell’occhio l’attività del pensiero, della conoscenza; e per il fatto che vi proseguono le vie del sangue, vi penetra l’attività volitiva. Così anche nel corpo volontà e rappresentazione sono congiunte fino alla periferia delle attività sensorie; è così per tutti i sensi e per gli arti che servono alla volontà: la conoscenza passa attraverso i nervi, e la volontà attraverso i vasi sanguigni (…) Osserviamo la differenza, tanto importante, tra la struttura dell’occhio umano e quella dell’occhio animale. Nell’occhio dell’animale, l’attività sanguigna è molto maggiore che non in quello dell’uomo (…) Da ciò potete dedurre che l’animale manda nell’occhio molto maggiore attività sanguigna che non l’uomo, e lo stesso fa anche per gli altri sensi. Vale a dire che l’animale sviluppa nei suoi sensi molta più simpatia istintiva verso il mondo circostante che non l’uomo. L’uomo, in realtà, ha molta più antipatia per il mondo che non l’animale, ma nella vita ordinaria ciò non gli viene a coscienza (…) Ma se gli uomini non avessero per il mondo circostante un’antipatia maggiore di quella degli animali, non se ne staccherebbero tanto come se ne staccano effettivamente. L’animale ha molta più simpatia con l’ambiente, perciò è molto maggiormente legato con esso, è tanto più dipendente, che non l’uomo, dal clima, dalle stagioni e così via. E appunto perché ha tanta maggiore antipatia contro l’ambiente, l’uomo è un individuo” (pp. 77-78-79).
Dobbiamo dunque al fatto di avere “per il mondo circostante un’antipatia maggiore di quella degli animali” la possibilità di “oggettivarlo”, e quindi di conoscerlo (scientificamente).
Per poterlo correttamente “oggettivare”, è tuttavia necessario che in noi viga un sano (fisiologico) rapporto tra le forze (sanguigne) della sim-patia e quelle (nervose) dell’anti-patia.
Solo l’Io può farsi garante di un simile rapporto. Solo l’Io (quale terzo) è infatti in grado di creare e ricreare incessantemente un equilibrio tra queste due opposte forze, correggendo, di volta in volta, gli eccessi della sim-patia per mezzo dell’anti-patia, e viceversa.
Fatto sta che anche il conoscere, come il vedere, deve essere messo umanamente “a fuoco”. Non vediamo infatti bene le cose, sia quando ci sono troppo (simpaticamente) vicine, sia quando ci sono troppo (antipaticamente) lontane.
Sapete che Nietzsche ha definito l’uomo “una corda tesa tra la bestia e il super-uomo”. Noi potremmo dire invece, parafrasando: “L’uomo è una corda tesa tra la sim-patia e l’anti-patia” (così come, del resto, tra la percezione e il pensiero, l’esalazione e l’inalazione, la sistole e la diastole).
“L’uomo – asseriva Protagora – è la misura di tutte le cose”; ma in tanto lo è in quanto l’umano stesso è, per così dire, “misura”, e per ciò stesso “qualità” (la misura – afferma Hegel – è il “quanto qualitativo”).
Diversa da quella dell’uomo è appunto la “misura” dell’animale, così come diversa è quella dell’Angelo. L’ordine cosmico è infatti un ordine “gerarchico”, e, in questo, il posto (o il grado) dell’uomo non è quello dell’animale né quello dell’Angelo.
Tale posto l’uomo è però chiamato a conquistarselo.
Dice Steiner: “Nelle numerose azioni che non compiamo soltanto per ragionamento, ma per amore, per entusiasmo, per dedizione, la simpatia prevale così fortemente nel volere, da emergere anche sopra la soglia della nostra coscienza, sì che il nostro volere stesso ci appare permeato di simpatia, mentre di solito si limita a congiungerci obiettivamente col mondo circostante. Come la nostra antipatia per il mondo esterno, ci viene a coscienza nel conoscere solo eccezionalmente, non sempre (ad esempio, “quando sentiamo un odore che ci fa nausea, questa nausea non è se non un accrescimento di quanto si produce in ogni attività sensoria, rimanendo però sotto la soglia della coscienza” [p. 79] – nda), così la nostra simpatia per il mondo, sempre esistente in noi, può diventarci eccezionalmente cosciente, nell’entusiasmo, nella devozione, nell’amore” (p. 80).
Quanti hanno studiato Teosofia, ricorderanno che Steiner, descrivendo il viaggio che ciascun uomo intraprende nel mondo animico dopo la morte, parla di sette regioni che si caratterizzano proprio in funzione del rapporto vigente tra le forze della sim-patia e quelle dell’anti-patia.
Nella prima, quella della Luna, la “brama ardente” scaturisce da un prevalere dell’anti-patia sulla sim-patia; nella seconda, quella di Mercurio (o della “sensibilità fluida”), l’antipatia viene equilibrata dalla simpatia; nella terza, quella di Venere (o dei “desideri”), la sim-patia prevale sull’anti-patia. Nella quarta, invece, quella del Sole (o del “piacere e dispiacere”), è attiva unicamente la sim-patia. E’ solo però nella quinta, nella sesta e nella settima, quelle di Marte, di Giove e di Saturno, che la sim-patia, ancora chiusa, per così dire, in se stessa nella regione solare, viene ad assumere il carattere effusivo e irradiante – come dice Steiner – della “luce animica”, della “forza animica attiva” e della “vita animica”.
C’è dunque un moto della sim-patia che va, quale brama, dall’oggetto al soggetto (attraendolo), e ce n’è uno che va, quale amore, dal soggetto all’oggetto. Si può capire, così, il perché Scaligero affermi che la brama, spiritualizzata, si muta in dedizione.
Potrebbe forse stupire che, nella regione della “brama ardente”, l’anti-patia prevalga sulla sim-patia. Basta però pensare a quel punto in cui la carta prende fuoco allorché vi si fanno convergere, per mezzo di una lente, i raggi solari, per capire che è proprio l’ampiezza dell’area sulla quale si riversa l’anti-patia (l’ampiezza dell’area di quanto non c’interessa o non amiamo) a restringere quella sulla quale di conseguenza si concentra, ardendola, la sim-patia.
Dice Steiner: “Ora contempliamo un mistero meraviglioso della natura umana, un mistero che in realtà è sentito da ogni uomo alquanto sveglio, ma che l’educatore e l’insegnante dovrebbe portarsi pienamente a coscienza. Per quanto strano possa sembrare, il fanciullo agisce sempre mosso, più o meno, dalla pura simpatia; anche quando giuoca, salta e schiamazza, egli compie ogni sua azione per pura simpatia per la medesima. Quando la simpatia nasce nel mondo, è forte amore, forte volere; ma non può rimanere così, bensì deve venir compenetrata dal rappresentare, deve venire, in certo modo, continuamente “rischiarata” dal rappresentare. Ciò si fa su vasta scala quando facciamo penetrare nei nostri semplici istinti gli ideali, gli ideali morali. Ed ora capirete meglio che cosa significhi in questo campo l’antipatia. Se gli impulsi, di cui osserviamo la presenza nel bambino, ci restassero solamente simpatici per tutta la vita, come lo sono al bambino, ci svilupperemmo animalescamente sotto l’influsso dei nostri istinti. Questi istinti devono diventarci antipatici, e lo diventano infatti attraverso i nostri ideali morali, ai quali gli istinti sono antipatici, e che nella simpatia infantile degli istinti versano, per tutta la nostra vita ulteriore tra la nascita e la morte, l’antipatia. Ecco perché lo sviluppo morale è sempre qualcosa di ascetico. Basta che questo elemento ascetico sia preso nel senso giusto” (pp. 80-81).
Teniamo presente che non esiste niente di più spirituale della natura. I minerali, le piante e gli animali sono esseri molto più spirituali di noi. Ma in tanto lo sono, in quanto non si conoscono e non possono conoscersi. Come si fa infatti a conoscersi? E’ presto detto: dividendosi (in se stessi). Per sapere che si è un Io deve infatti esserci un Io che vede un Io. Perché ciò sia possibile, il circolo o l’anello della natura (l’inconscia continuità naturale) deve dunque spezzarsi, così che una sua estremità possa osservare e pensare, avendola di fronte a sé, l’altra.
Permettetemi di leggervi, al riguardo, questo bellissimo passo di Bertrando Spaventa (1817-1883): “Perché il No? il Non essere, la negazione? e dopo, e non ostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è, che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere (…) quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice: Essere, non dice E’, non dice punto” (B.Spaventa: Le prime categorie della logica di Hegel in Opere – Sansoni, Firenze 1972, vol. I, p. 399 – ndr).
Potremmo perciò dire, dal nostro punto di vista: “Se non ci fossero altro che il volere e la simpatia ci sarebbe il Sì, ma non il No. In tanto c’è infatti il No, in quanto ci sono anche il rappresentare e l’anti-patia”.
Qual è allora il problema? Che al No della coscienza rappresentativa, che ha fatto seguito al Sì dell’incoscienza naturale, avremmo già dovuto cominciare a far seguire un Sì cosciente: ovvero, quel Sì che si può pronunciare soltanto alla luce di quei gradi della conoscenza superiore nei quali il pensare e la coscienza si ri-uniscono alla vita, all’anima e allo spirito, e la vita, l’anima e lo spirito si riuniscono al pensare e alla coscienza.
Inutile aggiungere che l’”elemento ascetico”, “preso nel senso giusto”, non ha nulla a che vedere con quell’elemento repressivo chiamato da Freud “Super-io”. Non è questione infatti di reprimere e di mortificare, bensì di trasformare e di glorificare (lo spirito, l’anima e il corpo).
Dice appunto il “Vecchio”, della Favola di Goethe: “L’amore non domina, ma forma, e questo è più”.
Dice Steiner: “Veniamo ora al sentire, che sta in mezzo tra il conoscere e il volere (…) In mezzo, dunque, tra il pensare e il volere, sta il sentire, che in una direzione è affine al pensare e nell’altra al volere. Come non possiamo tener separate nettamente le attività del pensare e del volere nella totalità dell’anima, tanto meno possiamo tenerle separate nel sentire. Qui gli elementi volitivi e conoscitivi confluiscono energicamente, confondendosi” (p. 81).
Il sentire, nella direzione in cui è affine al pensare, diventa un po’ più anti-patico e freddo, mentre in quella in cui è più affine al volere diventa un po’ più sim-patico e caldo. Il primo lo si potrebbe abbastanza bene osservare nei temperamenti spiccatamente flemmatici; il secondo, in quelli spiccatamente sanguigni (entrambi – come sappiamo – gravitano infatti nella sfera mediana del sentire).
Va comunque ricordato che il sentire è una forza ordinariamente “narcisistica” (cioè una forza che non esce da noi stessi), e che, su di esso, finiscono col riversarsi tutte le abituali storture del pensare, del volere e dei loro reciproci rapporti.
Fatto si è che il sentire “oggettivo” della specie aiuta ogni animale (soprattutto se non domestico) a orientarsi nel mondo (a scegliersi l’habitat, il cibo, il partner, o ad avvertire il pericolo), mentre quello “soggettivo” dell’uomo, lo informa su se stesso, e non sul mondo: vale a dire, su ciò che gli piace o non gli piace, e non su ciò che è bello o brutto o su ciò che è buono o cattivo (mai si sarebbe arrivati a dire, altrimenti: “Non è bello quel ch’è bello, ma è bello quel che piace”).
E’ chiaro, quindi, che per poter restituire al sentire (a un nuovo e più alto livello) la sua originaria e perduta “oggettività” (“oggettualità”, direbbe Freud), possiamo soltanto cominciare col far leva sul pensare “oggettivo”: vale a dire, sul pensare scientifico. Dal momento, tuttavia, che il pensare scientifico-naturale è in grado di ri-educare o ri-abilitare il sentire soltanto nell’ambito dei nostri rapporti con la realtà inorganica, chi voglia ricondurlo all’”oggettività” anche nell’ambito dei suoi rapporti con le realtà della vita, dell’anima e dello spirito, deve allora conquistarsi un pensare scientifico-spirituale.
Il che vuol dire, in sostanza, che deve passare dal pensare del nervo al pensare del sangue. Normalmente, infatti, il pensare “oggettivo” è supportato dal nervo, mentre il sentire e il volere “soggettivi” sono supportati dal sangue.
Restituire gradualmente e pazientemente “oggettività” al sentire (e al volere), mediante il pensare scientifico-spirituale, vuol dire dunque rinnovare il sangue (il “succo molto peculiare”, di Goethe): vuol dire ossia sottrarlo, quale veicolo, alla nostra inferiore natura (all’Es) e restituirlo, purificato o redento, allo spirito (all’Io).
Ascoltate quanto scrive Scaligero, nel suo Manuale pratico della meditazione: ”Il sentire, come pura forza dell’anima, può sorgere là dove è tacitato il sentire normale, che è comunque il veicolo della natura animale dell’uomo. In conseguenza della meditazione, il sentire tende a sorgere come forza di ritmo dell’anima, già in tal senso indirettamente sollecitata da ogni saggio collegamento del pensiero con la volontà”.
Continueremo giovedì prossimo.
L.R. – Roma, 2 marzo 2000
ANTROPOLOGIA 18° Incontro
Riprendiamo a parlare del sentire e, in particolare, del sentire nel pensare.
Dice Steiner: “Si ebbe una volta, a Heidelberg, una discussione di una certa importanza (almeno esteriore) tra lo psicologo Franz Brentano (1838-1917 – nda) e il filosofo Sigwart (Christoph von Sigwart, 1830-1904 – nda). Si trattava di stabilire che cosa risiede nell’attività del giudizio umano. Sigwart diceva: “Quando l’uomo pronuncia il giudizio: “L’uomo dev’essere buono”, in tale giudizio parla sempre anche un sentimento; la decisione viene presa dal sentimento”. Brentano invece riteneva che l’attività del giudizio e quella del sentimento, che si esprime nei moti della nostra anima, siano talmente differenti tra loro, che la funzione, l’attività del giudizio non potrebbe affatto venir compresa ove si credesse che solo vi intervenga il sentimento, mentre il nostro giudizio, nel quale entrerebbe qualcosa di soggettivo, vuol pur essere obiettivo (…) Riflettete bene a ciò che veramente va osservato qui: abbiamo, da un lato, l’attività del giudizio, che naturalmente ha da decidere su qualcosa di ben obiettivo (…) Dunque il contenuto del giudizio ha da essere obiettivo. Ma quando noi giudichiamo, entra in giuoco ancora tutt’altro. Pel fatto che le cose sono obiettivamente giuste, non sono però ancora coscienti nella nostra anima; dobbiamo prima di tutto rendervele coscienti, e ciò non può accadere senza la cooperazione dell’attività del sentimento. Perciò Brentano e Sigwart avrebbero dovuto mettersi d’accordo dicendo: sì, il contenuto obiettivo del giudizio è assodato all’infuori del sentimento, ma affinché nella soggettiva anima umana possa formarsi la convinzione della giustezza del giudizio, deve intervenire l’attività del sentire” (pp. 82-83).
Potremmo dire, in breve, che il giudicare è deputato a scoprire come stanno obiettivamente le cose, mentre il sentire è deputato a sancire l’obiettività (o la giustezza) del giudizio, per mezzo della “persuasione” o “convinzione”.
Ma il fatto merita di essere approfondito. Che cosa facciamo, in realtà, quando diciamo: “L’uomo dev’essere buono”? Prendiamo il concetto di “uomo” e il concetto di “buono” e li uniamo mediante il giudicare (mediante il “dev’essere”). E quale forza opera nel giudicare? Quella appunto del sentire o, più precisamente, del sentire nel pensare.
E’ su questa che si basa infatti la logica, ed è sempre grazie al sentire nel pensare che avvertiamo l’illogicità o la sconclusionatezza di un giudizio così come avvertiamo una “stonatura” musicale. Non sentiamo appunto alcuna “stonatura” logica solo quando tra i concetti, per dirla con Goethe, c’è un’”affinità elettiva”. Dunque, come Mozart (1756-1791), componendo, ha detto: “Cerco due note che si amano”, così, giudicando, si potrebbe dire: “Cerco due concetti che si amano”.
Ma perché i concetti si amano e si ricercano? Perché l’intelletto li separa (come singole tessere) dal loro mondo unitario (dal mosaico), li isola, e li rende per ciò stesso – come dice Hegel – “irrequieti”.
Ricordate quanto afferma Steiner (in Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo)? “Concetto è il pensiero singolo quale viene fissato dall’intelletto (…) Per la ragione, le creature dell’intelletto rinunciano alle loro esistenze separate e continuano a vivere soltanto come parte di un tutto. Chiameremo idee queste configurazioni create dalla ragione”.
Dobbiamo dunque alla “ragione” o all’indeterminata attività del giudicare (in cui è attivo – come detto – il sentire nel pensare) la facoltà di formulare giudizi determinati.
Diceva Goethe: “Qual è la cosa più difficile? Vedere con i propri occhi ciò che si ha sotto il naso”. E non abbiamo appunto “sotto il naso” , dalla mattina alla sera, i nostri giudizi? E “la cosa più difficile” non è proprio vedere, con i nostri occhi, non solo in qual modo si formino, ma anche come si trasformino alla fine in rappresentazioni?
Fatto sta che siamo in primo luogo incoscienti del modo di essere e di agire della nostra coscienza (ordinaria). Abbiamo infatti coscienza della rappresentazione, ma non degli elementi di cui è la sintesi, né dei processi di cui è l’esito (cerebralmente riflesso).
Afferma Steiner: “Pel fatto che le cose sono obiettivamente giuste, non sono però ancora coscienti nella nostra anima”. Una cosa, infatti, è la verità, che sta nel mondo (la verità del mondo), altra la coscienza della verità, che sta “nella nostra anima” (la verità della nostra anima), e che non può starvi “senza la cooperazione dell’attività del sentimento”.
Dice Steiner: “Avendo così cercato l’elemento del sentire da un lato nella conoscenza, nella rappresentazione, dall’altro nella volontà, abbiamo veduto ch’esso costituisce un’attività animica intermedia tra il conoscere e il volere, la quale irradia il proprio essere nelle due direzioni. Il sentimento è conoscenza ancora incompiuta, come pure è volontà incompiuta: è conoscenza trattenuta e volontà trattenuta” (pp. 83-84).
Notiamo che anche il giudicare, nella sfera della conoscenza, è “un’attività animica intermedia” tra il concetto e l’immagine. La rappresentazione (cosciente) non è infatti che il riflesso cerebrale dell’immagine (pre-cosciente): non è, cioè, che un’immagine definita e irrigidita. Si mettano a confronto le immagini vive e mobili del sogno con quelle morte e inerti della veglia, e subito si capirà quale differenza vi è tra la natura (eterica) dell’immagine e quella (fisica) del suo riflesso cerebrale.
Nel conoscere, abbiamo dunque a che fare con i concetti, con il giudicare, con le immagini pre-coscienti e con le rappresentazioni coscienti.
Ebbene, i primi li possiamo mettere in rapporto (per via intuitiva) col volere, il secondo (per via ispirativa) col sentire, le terze (per via immaginativa) col pensare, e le quarte (per via riflessa) con l’ordinario rappresentare. Il che vuol dire, quindi, che la nostra ordinaria relazione con i concetti è incosciente, con il giudicare sub-cosciente, con l’immagine pre-cosciente, e con la rappresentazione cosciente.
Dice Steiner: “Come ci si presentano dunque le manifestazioni corporee del sentire? Le vedrete sempre nascere là dove, nel corpo umano, le vie del sangue e le vie dei nervi vengono in qualche modo a toccarsi (…) Tutto il nostro vedere e udire è percorso da un sommesso sentimento, ma noi non lo scorgiamo, e tanto meno quanto l’organo sensorio è separato dal resto del corpo. Nell’attività visiva dell’occhio non scorgiamo quasi affatto il simpatizzare e antipatizzare del sentimento perché l’occhio, immerso nella cavità ossea, è quasi separato dal resto dell’organismo (…) Meno attenuata è tale azione nell’udito, il quale, molto più che non la vista, sta in un rapporto organico con l’attività generale dell’organismo (…) Per questo l’attività sensoria che si svolge nell’orecchio è fortemente accompagnata dal sentimento” (p. 84).
Ricordo di aver accennato, una sera, ai dodici sensi, e di aver detto che ne avremmo trattato più avanti. Non siamo ancora arrivati a quel punto, ma posso anticipare che Steiner distingue i sensi che ci mettono in rapporto con il nostro mondo interno (quelli “propriocettivi” del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio), sia dai sensi che ci mettono in rapporto col mondo esterno (quelli “eterocettivi” dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore), sia dai sensi (dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io) che ci mettono infine in rapporto con “l’interno dell’esterno” (con l’interiorità del mondo esterno).
Come si vede, il senso dell’udito si affaccia proprio sulla linea che separa il mondo esterno dal mondo “interno dell’esterno”: che separa, ossia, il corpo del mondo dall’anima e dallo spirito del mondo. I rumori, ad esempio, gli parlano del corpo del mondo, mentre i suoni gliene rivelano l’anima. Perché si riveli lo spirito del mondo non basta però il senso dell’udito, ma occorre – come vedremo in seguito – quello superiore del linguaggio.
Ho voluto anticipare queste nozioni perché ci permettono di capire meglio il perché – come dice Steiner – “l’attività sensoria che si svolge nell’orecchio è fortemente accompagnata dal sentimento” (dall’anima).
In ogni caso, egli prosegue rammentando il contrasto sorto tra Richard Wagner (1813-1883) e il critico musicale Eduard Hanslick (1825-1904). Il primo si dichiarava convinto (“unilateralmente”, osserva Steiner) che “nella musica dovesse vivere soprattutto il sentimento”, mentre il secondo sosteneva, nel suo Del bello musicale, che l’essenza della musica risiede “nei legami obiettivi tra suono e suono, in arabeschi sonori donde ogni sentimento sia escluso”.
Dice Steiner: “In quel libro, tutto ciò è svolto con ammirevole sicurezza, fino alla conclusione che la musicalità suprema risiede nella pura armonia, nell’arabesco musicale; e abbondante scherno vi viene rovesciato invece sulla musica wagneriana per la sua tendenza a poggiare interamente sulle basi del sentimento. Una tale disputa mostra appunto la confusione psicologica delle idee moderne sulle attività dell’anima, altrimenti non sarebbe potuta nemmeno sorgere una tendenza unilaterale come quella di Hanslick” (p. 85).
Chi conosce, di Steiner, L’essenza della musica e l’esperienza del suono nell’uomo (Antroposofica, Milano 1973 – ndr), ricorderà, probabilmente, che la melodia è affine al pensare (al rappresentare), mentre l’armonia e il ritmo sono rispettivamente affini al sentire e al volere.
Parlando prima della logica, ho detto che un nesso illogico o sconclusionato corrisponde, sul piano musicale, a una stonatura, e una stonatura non è che una rottura dell’armonia.
Diversamente dalla melodia, che è data dal susseguirsi, nel tempo, di note diverse, l’armonia è data infatti dal loro risuonare simultaneo: dalla coesistenza, cioè, nell’hic et nunc, di note diverse che, stando bene insieme o amandosi, per l’appunto si “armonizzano”.
Dice Hegel che “ogni cosa è un sillogismo”, ma si potrebbe anche dire, a maggior ragione, che ogni cosa è un’”armonia”. Che cosa afferma infatti Steiner, ne La filosofia della libertà? Che ogni oggetto non è, in definitiva, che una “somma di percezioni”: una “somma di percezioni” che il pensiero trasforma appunto in un armonico insieme di concetti (subordinati), e, in ultimo, in un solo concetto (sovraordinato).
E’ tale “insieme”, dunque, a manifestarsi, sul piano immaginativo (visivo), quale Gestalt e, sul piano ispirativo (uditivo), quale “armonia”; sia l’una che l’altra sono infatti radicate nell’essenza delle cose o, nel caso dell’uomo, nel Logos (nell’unico Essere dei molti Io). “L’unità originaria dei molti “Io” – scrive appunto Scaligero (in Dell’amore immortale) – è la sorgente metafisica che nel mondo si attua come amore”.
Dice Steiner: “Si perviene a una vera comprensione nello studio dell’anima umana solo se si resta sul terreno che ho cercato di delimitare nel mio saggio Verità e scienza, e anche nella Filosofia della libertà. Allora si può parlare di un’”anima unitaria” senza cadere nell’astrazione, perché ci si trova su un terreno sicuro, partendo dal punto di vista che l’uomo non abbraccia da bel principio la realtà intera, ma si familiarizza solamente a poco a poco col mondo in cui viene a vivere. Egli va sviluppandosi a poco a poco, finché ciò che prima non era ancora realtà per lui, lo diventa grazie al compenetrarsi di pensiero e osservazione. L’uomo deve conquistarsi la realtà” (pp. 86-87).
Ci familiarizziamo in effetti con la realtà man mano che integriamo i percetti (i contenuti dell’osservazione) con i concetti (con i contenuti del pensiero). Per poterli integrare “come Dio comanda”, vale a dire con i loro concetti (e non con quelli che ci garbano o ci passano per la testa), e per poterci così conquistare la realtà del mondo e di noi stessi, dobbiamo però affrontare e vincere il “drago” dell’odierna cultura materialistica.
Dice Steiner: “Molti elementi errati si sono intromessi nella cultura spirituale moderna, ed agiscono più incisivamente che mai nel campo della pedagogia. Perciò dobbiamo fare ogni sforzo per mettere i concetti giusti al posto di quelli falsi, e allora potremo esercitare nel modo giusto anche tutto quel che avremo da fare per l’insegnamento” (p. 87).
Abbiamo finito la quinta conferenza. Cominciamo la sesta.
Dice Steiner: “Alle considerazioni che, in linee generali, abbiamo già fatte dal punto di vista animico, ne aggiungeremo ora altre dal punto di vista spirituale (…) Ogni qualvolta vogliate, da qualsiasi punto di vista, studiare giustamente l’uomo, dovrete sempre ritornare a questa distinzione delle facoltà animiche umane: del conoscere, che si svolge nel pensare, del sentire e del volere. Finora abbiamo osservato tali attività collocandole, per così dire, nell’atmosfera dell’antipatia e della simpatia; ora vogliamo guardare il pensare, il sentire e il volere dal punto di vista spirituale” (pp. 88-89).
Che cosa vuol dire “guardare il pensare, il sentire e il volere dal punto di vista spirituale”? Vuol dire guardarli dal punto di vista dei livelli, dei gradi o degli stati di coscienza (della veglia, del sogno e del sonno).
Dice Steiner: “Ogni parte, ogni elemento dell’attività che chiamiamo “conoscere” è dentro in tutto ciò che il vostro io compie; e ciò che il vostro io compie è, a sua volta, tutto implicato nell’attività del conoscere. Siete interamente nella chiarità (nella “luce” – nda), vivete in un’attività pienamente cosciente, per dirla in modo concettuale. Sarebbe infatti un guaio se, nel conoscere, non foste pienamente coscienti, se cioè aveste il senso che, mentre formate un giudizio, nel vostro io avviene qualcosa, ma subconsciamente, e che il giudizio è il risultato di tale processo incosciente” (p. 89).
Che cosa accadrebbe, infatti, se un architetto non fosse pienamente cosciente mentre progetta un palazzo, o un ingegnere un ponte? Che il palazzo e il ponte molto probabilmente crollerebbero; e sarebbe davvero un “guaio”.
Quanto è raro, per fortuna, che capiti agli architetti e agli ingegneri, che operano sul piano fisico, quasi sempre, purtroppo, capita invece agli intellettuali o ai cosiddetti “uomini di cultura”: ossia a coloro che operano sul piano spirituale e possono perciò influenzare, in modo più o meno diretto, l’educazione.
Quante delle loro opinioni non sono infatti, a ben vedere, che il risultato di processi inconsci? Quel ch’è peggio, però, è che il “senso” (o il sospetto) che tali opinioni siano il risultato di processi inconsci, non ce l’hanno ormai più, né coloro che le esprimono, né coloro che le ascoltano. Eppure, come crollano materialmente i palazzi e i ponti progettati da persone non del tutto rispettose (in quanto non pienamente coscienti) delle leggi che regolano la vita fisica, così crollano animicamente i giovani educati da persone non del tutto rispettose (in quanto non pienamente coscienti) delle leggi che regolano la vita animico-spirituale.
Dice Steiner: “Non così nel volere. Nella nostra attività volitiva più semplice, cioè nel camminare, noi viviamo in piena coscienza solo nella rappresentazione di ciò che facciamo. Nulla sappiamo di quanto si compie entro i nostri muscoli mentre moviamo una gamba dopo l’altra, di ciò che si svolge nell’organismo e nel meccanismo del nostro corpo” (pp. 89-90).
Passando dal pensare (cosciente o vigile) al volere (incosciente o dormiente), passiamo dalla luce alla tenebra. Nei sogni, ad esempio, la sfera della volontà è per l’appunto simboleggiata dal colore nero, da caverne oscure o da luoghi bui. Abbiamo però già parlato, in rapporto alla teoria dei colori di Goethe, della tenebra, e, in rapporto a Schopenhauer, della differenza tra la volontà e la rappresentazione della volontà, e non starò quindi a ripetermi.
Dice Steiner: “Il sentire, poi, sta proprio nel mezzo tra il volere e il conoscere pensante; ed è in parte compenetrato dalla coscienza, in parte da qualcosa d’incosciente” (p. 91).
Così come i sogni sono appunto compenetrati, in parte “dalla coscienza, in parte da qualcosa d’incosciente”; con la differenza, però, che i sogni – dice Steiner – “li ricordiamo, mentre i sentimenti li sperimentiamo direttamente” (p. 92).
Dice Steiner: “Dal punto di vista spirituale, il sonno ordinario senza sogni non è altro che la dedizione dell’uomo, con tutta la sua anima, a ciò cui egli si abbandona col suo volere durante il corso della sua giornata. La sola differenza sta in questo: nel sonno vero e proprio noi dormiamo con tutto il nostro essere animico, mentre durante la veglia, dormiamo solo col nostro volere. Nel sognare, come lo intendiamo nella vita solita, noi ci abbandoniamo con l’intero essere nostro allo stato animico che chiamiamo “sogno”, mentre durante la veglia, ci abbandoniamo a tale stato sognante soltanto col sentire” (p. 92).
Come si vede, la vera natura della volontà è “abbandono” o “dedizione”. Durante il sonno siamo infatti abbandonati o dediti al mondo e agli altri, poiché non vi è più separazione tra soggetto e oggetto. La natura della pura volontà non è dunque bramosa, avida o accaparratrice.
In che cosa dovrebbe pertanto consistere, da questo punto di vista, l’amore? Nel riuscire a fare di giorno, e coscientemente, quanto sempre facciamo di notte, e incoscientemente.
Fatto si è che come, nel passato, dallo stato di sonno si è evoluto e differenziato quello di sogno, e come dallo stato di sogno si è evoluto e differenziato quello di veglia, così, nel futuro, lo stato di veglia tornerà a integrare, per amore, prima quello di sogno (così che avremo anche una veglia immaginativa), poi quello di sonno (così che avremo anche una veglia ispirativa), e infine quello di morte (così che avremo anche una veglia intuitiva), realizzando in questo modo la piena continuità della coscienza.
Dice Steiner: “Considerando la cosa pedagogicamente, non vi meraviglierete più nel constatare che i vari bambini sono tra loro diversi riguardo al grado di risveglio della loro coscienza (…) Vedrete infatti che bambini in cui prevale la disposizione al sentimento, nei quali dunque il pensiero non è ancora pienamente desto, sono piuttosto sognatori. In tal caso ne prenderete occasione per agire su di loro per mezzo di forti sentimenti (…) Altri bambini, ancora più “addormentati”, persino ottusi nella vita del sentimento, si riveleranno in seguito come particolarmente disposti all’energia del volere (…) Con un bambino del genere occorre l’intùito necessario per risvegliare la sua volontà, vale a dire che si deve agire sul suo “sveglio” stato di sonno (perché in definitiva ogni sonno ha la tendenza a giungere al risveglio), in modo che a poco a poco egli arrivi più avanti a risvegliare il suo sonno come volontà (…) Lo tratterete dunque sulla sua facoltà conoscitiva, martellandogli dentro, per così dire, alcune cose che agiscano fortemente sulla sua volontà. Lo farete camminare mentre parla; lo farete uscire dal banco (non ne avrete certo molti in una classe e, del resto, mentre per lui la cosa sarà formatrice, per gli altri sarà stimolante) e gli farete recitare delle frasi accompagnando le parole con movimenti” (pp. 92-93-94).
Notiamo, dunque, che ogni bambino “va preso – come si suol dire – per il suo verso”: in ragione, cioè, della sua costituzione, del suo temperamento e del suo carattere; e che il metodo educativo proposto da Steiner presenta delle analogie con quello della medicina omeopatica.
Sul bambino in cui prevale naturalmente il sentimento si è chiamati infatti ad agire con “forti sentimenti” (“potenziati” o “dinamizzati”, per così dire, dalla consapevolezza o dalla scienza dell’educatore), così come sui bambini in cui prevale la volontà si è chiamati invece ad agire con forti impulsi volitivi (sempre, ovviamente, “potenziati” e “dinamizzati”).
Abbiamo fatto più tardi del solito. Continueremo la prossime settimana.
L.R. – 9 marzo 2000
ANTROPOLOGIA 19° Incontro
Cominciamo subito a leggere.
Dice Steiner: “Ora possiamo chiederci: come si comporta il vero centro dell’uomo, l’io, di fronte a questi diversi stati (di veglia, di sogno e di sonno – nda)? Per intenderlo più facilmente, partiamo dalla premessa, indiscutibile, che quel che chiamiamo “mondo”, o “cosmo”, è una somma di attività. Queste attività si esprimono per noi nei diversi campi della vita elementare. Sappiamo che nella vita elementare dominano certe forze, per esempio la forza vitale che regna tutt’intorno a noi. Poi, intessuto tra le forze elementari e la forza vitale, v’è tutto ciò che produce il fuoco, il calore (…) Vi sono però anche forze superiori al calore, ed anche di queste è pervaso il nostro ambiente; noi passiamo attraverso ad esse quando, come uomini fisici, andiamo pel mondo. Il nostro corpo fisico, sebbene non lo sappiamo nella nostra coscienza ordinaria, è in grado di sopportare ciò. Invece col nostro io, che è la creazione più recente della nostra evoluzione, non potremmo andare e venire in mezzo a tali forze, se esso dovesse avere, nei riguardi di esse, una dedizione immediata. Il nostro io deve ancora venir preservato dall’immergersi nelle forze cosmiche che da ogni lato lo circondano. Un giorno sarà abbastanza evoluto da esserne capace; per ora non lo è. Perciò occorre che, per quanto riguarda il nostro io pienamente sveglio, noi non veniamo immersi nel vero mondo che ci attornia, ma solo nell’immagine di esso” (pp. 94-95).
La miglior prova che la nostra coscienza ordinaria viene sovrastata dalle forze cosmiche (che pervadono il nostro ambiente) è costituita dal fatto che quando apriamo loro le porte cadiamo nel sonno e nel sogno. Dovrebbe essere chiaro, perciò, che l’unica cosa che possiamo fare è sviluppare la nostra coscienza così che, aprendosi a tali forze, non debba rinunciare a se stessa.
Teniamo comunque presente che, cadendo nel sonno e nel sogno, perdiamo la coscienza dell’Io, ma non l’Io. L’Io, che durante la veglia ci dà l’immagine o la forma (pensante) di sé, stando, per così dire, “fermo” di fronte allo specchio cerebrale, quando dormiamo o sogniamo si mette invece in movimento per agire inconsciamente e subconsciamente come una forza.
Ciò può spiegare il perché alcuni (come ad esempio Nietzsche), patendo il vuoto di forza, di vita o di realtà dell’ordinario pensiero intellettuale, si lascino andare irrazionalmente (misticamente o vitalisticamente) ai moti del sentire e del volere.
Ma lasciarsi andare a tali moti, che non sono quelli del sentire e del volere nel pensare, significa mettersi nelle mani di forze (“misologiche”, direbbe Hegel) rimaniche paventano, e quindi evitanoiche paventanore nel pensare, significa abbandonarsi a delle forzetornia, che fanno regredire a stati di coscienza che, nell’epoca dell’anima cosciente, veicolano non più il Logos, ma entità a Lui avverse.
Non è dunque evitando il Calvario o il Golgota dell’intelletto che si può ritrovare la vita umana, bensì morendo e risorgendo, in grazia appunto del Logos.
Sarà bene rammentare, al riguardo, che le entità luciferiche inducono a evitare, paventandola, la morte, mentre quelle arimaniche inducono a evitare, paventandola, la resurrezione.
Dice Steiner: “Gli psicologi si affaticano per cercare di constatare i rapporti tra il corpo e l’anima. Parlano di “reciproca azione” tra i due, di parallelismo psico-fisico, e di molte altre cose ancora le quali, in sostanza, sono concetti puerili. Il processo reale in questione è infatti il seguente: quando il mattino l’io passa allo stato di veglia, esso penetra nel corpo; non però nei processi fisici di questo, bensì nel mondo d’immagini che dei processi esteriori il corpo produce, fin nelle sue profondità più recondite. Da ciò viene trasmessa all’io la conoscenza pensante” (p. 95).
Ogni mattina, al momento del risveglio, l’Io comincia a guardare nello specchio corticale e a vedervi riflesse, tanto l’immagine di sé, quanto le immagini del mondo che lo circonda e che percepisce. A questo livello, non ha perciò cognizione di sé e del mondo quale forza o realtà.
Dice Steiner: “Diverso è il caso per il sentire. Qui l’io penetra già nel corpo stesso, e non solo nelle immagini. Tuttavia se, in tale penetrazione, l’io fosse pienamente cosciente, esso, animicamente parlando, brucerebbe (…) Noi possiamo sperimentare tale penetrazione, in cui consiste il sentire, solo in uno stato di sogno, in una coscienza attutita. Ciò che avviene nel nostro corpo nel sentire è sopportabile soltanto in un sogno (…) Ciò che si svolge nel volere può essere da noi sperimentato solamente dormendo. Sarebbe qualcosa di terribile se dovessimo sperimentare nella vita ordinaria tutto ciò che si svolge nel nostro volere. Si proverebbero i dolori più terribili, se dovessimo sperimentare come si consumino nelle nostre gambe, mentre camminiamo, le forze apportate dagli alimenti al nostro organismo. E’ una gran fortuna per noi che tale processo non si sperimenti, se non in uno stato di sonno, perché il provarlo in condizioni di veglia significherebbe una sofferenza indicibile” (pp. 95-96).
Forse ricorderete che, parlando della Scienza occulta, dissi che la scienza “non-occulta” (naturale) è la scienza della testa, e quindi di ciò ch’è morto (o sensibilmente conscio), mentre la scienza “occulta” (dello spirito) è la scienza del restante organismo, e quindi di ciò ch’è vivo (o extrasensibilmente inconscio).
Chiunque voglia varcare le “colonne d’Ercole” dell’intelletto per penetrare scientemente in tale sfera deve perciò munirsi dello strumento adatto. E qual è questo strumento? Lo sappiamo: un pensare che non sia un vuoto rappresentare, ma che sia vivificato e animato, al suo interno, dalla luce del sentire e dal calore del volere.
Ricordate, ne La filosofia della libertà, l’obiezione mossa da Eduard von Hartmann (1842- 1906) a Steiner, e cioè che il pensare non fornirebbe alcuna garanzia, poiché non sarebbe che la manifestazione cosciente di una forza incosciente? Ma il problema – dissi allora – sta proprio nel vedere se tale forza incosciente è altra dal pensare, o non piuttosto un altro pensare: ovvero, un pensare di cui quello ordinario non è appunto che immagine.
La foto, che so, di un leone non è infatti l’immagine morta di un essere vivo e reale, e non – come crede von Hartmann (sulla scia di Kant) – di un essere (in sé) sconosciuto?
Dice Steiner: “Ora comprenderete come si svolga veramente la vita dell’io durante lo stato che di solito chiamiamo “stato di veglia”, e che abbraccia tre stati: uno di veglia totale, uno (per così dire) di veglia sognante, e un terzo stato di veglia dormiente” (p. 96).
Nello stato di “veglia totale” (del pensare) abbiamo – come si è visto – le immagini; nello stato di “veglia sognante” (del sentire) abbiamo invece le ispirazioni (“Qui – dice Steiner – è il focolare di tutto ciò che, in fatto di sentimenti, nell’artista si eleva a coscienza di veglia; e da qui provengono pure quelle che, nell’uomo sveglio, sorgono spesso come “idee subitanee” o “fantasie”, che emergono nella coscienza sveglia e poi diventano immagini” – p. 97); nello stato di “veglia dormiente” abbiamo infine le intuizioni (“L’io, – dice sempre Steiner – negli atti volitivi dorme, e ciò che si sperimenta allora, con una coscienza fortemente attutita, appunto in una coscienza di sonno, si sperimenta in forma di intuizioni incoscienti” – p. 98).
E’ interessante notare che Steiner, parlando delle ispirazioni, accenna al fenomeno dell’”incubo”. Si potrebbe dire che gli incubi sono, in qualche modo, le contro-immagini delle ispirazioni. Quando dovesse capitarci (sognando) di avere un incubo, faremmo perciò bene a chiederci qual’è l’ispirazione che vuole raggiungerci, ma che non riesce a farlo perché le opponiamo – come dicono gli psicoanalisti – “resistenza”.
Si dice che non vi sia peggior sordo di quello che non vuol sentire; ebbene, quando siamo sordi, in tal senso, alle ispirazioni – donateci magari dal nostro Angelo custode – ecco che questi può vedersi allora costretto ad alzare la voce, trasformando così l’ispirazione in un incubo.
Trattando di queste cose, è comunque importante ricordare (a prescindere dalle rappresentazioni coscienti) che un conto sono le immaginazioni precoscienti, le ispirazioni subcoscienti e le intuizioni incoscienti, altro sono le immaginazioni, le ispirazioni e le intuizioni coscienti: cioè quelle che si possono avere soltanto sviluppando, rispettivamente, la coscienza immaginativa, la coscienza ispirativa e quella intuitiva.
Delle prime (incoscienti) usufruiamo dalla mattina alla sera. Ove così non fosse, non saremmo infatti in grado di rappresentarci neppure una sedia, in quanto è appunto in virtù di un’inconscia attività intuitiva che riusciamo ad afferrare il concetto (A) corrispondente a un determinato percetto (X), a collegare, in virtù di un’inconscia attività ispirativa (giudicante) il percetto a tale concetto (X è A = A è X), e a far nascere, dalla loro feconda unione, e in virtù di un’inconscia attività immaginativa, l’immagine: ossia, quell’immagine che, in virtù della percezione sensibile e dello specchio corticale, ci dà in ultimo la “chiara” e “distinta” rappresentazione (A è A).
In che cosa consiste dunque il passaggio dalla coscienza cosiddetta “naturale” alla coscienza spirituale? Nel passaggio, potremmo dire, dall’incoscienza della coscienza alla coscienza della coscienza o, in altri termini, dalla neonata autocoscienza dell’ego alla matura autocoscienza dell’Io o dell’“Uomo spirituale”.
Dice Steiner: “Ora se vogliamo farci uno schema della vita dell’io nel corpo, e lo facciamo come segue: I) veglia – conoscenza per immagini; II) sogno – sentire ispirato; III) sonno – volere intuitivo o intùito, non riusciremo a intendere bene perché l’elemento intuitivo, di cui gli uomini parlano per istinto, sorga più facilmente, nella vita quotidiana, nella conoscenza per immagini, che non il più vicino sentire ispirato. Ma se invece di fare uno schema erroneo, come più sopra, lo disegnate in modo giusto, la cosa vi apparirà più comprensibile” (p. 99).
Per disegnarlo “in modo giusto” (vedi figura p. 100), dobbiamo quindi disegnare una circonferenza, dividerla in tre parti uguali, numerare queste così come abbiamo numerato quelle del precedente “schema erroneo”, e poi immaginare (tracciando magari delle frecce) un movimento orario che dalla prima, attraverso la seconda, discende alla terza, e che, proseguendo, dalla terza risale alla prima.
Non sarà difficile così constatare che, nel suo moto di risalita, il “volere intuitivo o intùito” (rappresentato dalla terza parte) è più prossimo alla “conoscenza per immagini” (rappresentata dalla prima parte) che non al “sentire ispirato” (rappresentato dalla seconda parte).
Come vedete, è immettendo nella realtà il movimento che vengono ancora una volta a risolversi le difficoltà create dalla staticità dell’intelletto (quelle emergenti, ad esempio, dal primo schema).
Sapete che faccio uso anch’io di schemi, ma che lo faccio sempre con grande circospezione. Bisogna infatti essere elastici, e perciò pronti a modificarli a seconda di quanto si vuole in quel momento mettere in luce o evidenziare.
Non capita del resto, nella vita, che quanto non riusciamo a vedere, se l’osserviamo da un certo punto di vista, riusciamo viceversa a scorgerlo non appena adottiamo, spostandoci, un punto di vista diverso? Certo, è più facile spostarci con il corpo che non con l’ego o con il pensiero. Ciò non toglie, però, che dobbiamo far di tutto per mettere gli schemi al servizio della realtà, e non la realtà al servizio degli schemi.
Dice Steiner: “Nel discendere nel corpo e poi nel risalire, il volere intuitivo ha meno strada da fare per arrivare alla coscienza immaginativa, che non il sentire ispirato e sognante. Perciò gli uomini dicono spesso di avere intuizioni indeterminate, ma scambiano ciò che viene chiamato “intuizione” nel mio libro L’iniziazione, con l’intuizione superficiale della coscienza ordinaria” (p. 100).
Per mia esperienza, sono soprattutto i tipi stenici (isterici) ad avere queste intuizioni “superficiali”. Ciò dipende dal fatto che si tratta di tipi in cui in genere prevale l’anima senziente, e quindi un’anima – come spiega Steiner (in particolare, ne Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive) – inconsciamente intuitiva.
A causa di tali “intuizioni indeterminate”, e non sottoposte quindi al vaglio della coscienza critica, questi tipi possono facilmente prendere “fischi per fiaschi”. Il peggiore dei rischi che corre una coscienza intellettuale insufficientemente sviluppata è infatti quello di essere suggestionata da ciò che risale o emerge dall’inconscio, in specie quando ci si occupa di esoterismo.
Ascoltate quanto dice in proposito Steiner, ne I segreti della soglia: “Innanzi tutto occorre acquisire il rapporto giusto verso quello che oggi si affaccia da tutti gli angoli del mondo, proprio sul terreno dell’occulto, e che da qualcuno viene preso come equivalente della scienza dello spirito seriamente intesa. Occorre conquistare il giusto sentimento di fronte ad alcuni di questi signori, se si vuole aderire veramente con serietà alla scienza dello spirito; questo sentimento consiste nell’ignorarli il più possibile, invece di coccolarli e di curarli in tutto quello che essi manifestano, nel sapere che si dovrebbe piuttosto dar loro il consiglio di rendersi più utili all’umanità, nel tempo in cui si occupano di un tal genere di scribacchiamenti, occupandosi di qualcos’altro, a esempio di lavoretti con la sega da traforo”.
Sono parole severe, ma – come si dice a Roma – “quanno ce vo’, ce vo’!”. Giuseppe Verdi usava dire che “il genio è sgobbare”. Lo diceva per modestia, ma anche perché in tale affermazione c’è del vero. “Sgobbare”, infatti, può anche essere segno di dedizione e di senso di responsabilità: segno, cioè, di quel che manca appunto a quei tipi “intuitivi”, che, presumendosi tali, ritengono di non avere bisogno d’impegnarsi o di “sgobbare” (soprattutto nello studio) come gli altri.
Risposta a una domanda
Si racconta che Garibaldi si fermò una volta a dormire in un alberghetto di Roma, e che, diffusasi la notizia della sua presenza, presto si radunò sotto il suo balcone una folla che lo chiamava a gran voce per vederlo e acclamarlo. Ebbene, sa che cosa fece Garibaldi? Trascorsi alcuni minuti, si affacciò al balcone, disse: “Italiani, siate seri!”, e rientrò.
A quei sedicenti “esoteristi”, che magari credono di essere (“intuitivamente”) la reincarnazione di un qualche importante personaggio del passato (e mai – ci avrà fatto caso – di un uomo qualunque), e ai quali Steiner consiglia appunto di darsi più utilmente al bricolage, le suggerirei pertanto di dire, con Garibaldi: “Siate seri!”.
Dice Steiner: “La configurazione del corpo umano vi sarà ora più comprensibile. Immaginate per un momento di camminare osservando il mondo; ma immaginate che le vostre gambe non siano attaccate alla parte inferiore del vostro corpo, bensì direttamente alla testa, sì che la testa sia quella che cammina. In tal caso la vostra osservazione del mondo e la vostra volontà sarebbero riunite, e la conseguenza sarebbe che dovreste camminare dormendo. Invece, essendo la vostra testa poggiata sulle spalle e sul resto del corpo, essa vi sta in uno stato di riposo; sicché la testa viene da noi portata, mentre soltanto il resto del corpo si muove. La testa deve appunto riposare sul corpo, altrimenti non potrebbe essere l’organo della conoscenza pensante (…) La testa lascia che il corpo provveda al volere vero e proprio: vive nel corpo come in una carrozza da cui si lasci trainare” (p. 101).
Sappiamo già che la coscienza nasce dove il corpo muore. Questa parte morta del corpo deve essere però sostenuta da quella che continua invece a vivere, sicché possiamo considerare quest’ultima come una portatrice della testa che se non stesse ferma non potrebbe sperimentare lo stato di veglia ed essere cosciente.
Abbiamo parlato a più riprese del movimento del pensare (detto, da Scaligero, “predialettico”): vale a dire, di un movimento ch’è appunto del pensare, e non della testa.
Anzi, più la testa fisica sta ferma e più è possibile sperimentare, grazie all’esercizio della concentrazione, il movimento eterico del pensare.
Abbiamo finito la sesta conferenza. La prossima volta cominceremo la settima.
L.R. – 16 marzo 2000
ANTROPOLOGIA 20° Incontro
Cominciamo la settima conferenza.
Dice Steiner: “Quando studiamo l’uomo dal punto di vista animico, diamo importanza soprattutto a scoprire nell’ambito delle leggi universali le antipatie e le simpatie; quando invece lo studiamo dal punto di vista spirituale, dobbiamo dare la massima importanza alla scoperta dei diversi stati di coscienza. Infatti ci siamo già ieri occupati dei tre principali stati di coscienza che dominano nell’uomo: lo stato di piena veglia, lo stato di sogno e lo stato di sonno, mostrando come la piena veglia esista veramente soltanto nel conoscere pensante, mentre il sogno vive nel sentire e il sonno nel volere. Comprendere è, in sostanza, riferire una cosa ad un’altra. Nel mondo non si comprende in altro modo che riferendo una cosa ad un’altra” (p. 102).
Ho fatto spesso, a questo proposito, l’esempio del puzzle: “Comprendiamo”, per così dire, ogni suo singolo pezzo quando sappiamo in qual modo sta in rapporto o si “riferisce” agli altri.
Steiner, ne La filosofia della libertà, afferma appunto che l’enigmaticità di un oggetto risiede nella sua singolarità, nel suo isolamento. Che cosa fa infatti l’intelletto (vincolato alla percezione sensibile)? Trasforma l’unità (incosciente) del mondo in una molteplicità di elementi (coscienti); e che cosa fa invece la ragione? Trasforma la molteplicità di tali elementi nell’unità (cosciente) del mondo.
Dice Steiner: “Nel metterci in relazione col mondo a mezzo della conoscenza, prima di tutto noi osserviamo. Possiamo osservare per mezzo dei nostri sensi, come facciamo nella vita solita, oppure, se ci sviluppiamo più oltre, possiamo osservare per mezzo dell’anima e dello spirito, come si fa nell’immaginazione, nell’ispirazione e nell’intuizione. Ma anche l’osservazione spirituale è appunto solo un “osservare”, ed ogni osservare è necessario che sia da noi integrato dal “comprendere”” (pp. 102-103).
Una cosa, infatti, è la coscienza immaginativa del “veggente”, altra la coscienza ispirativa dell’”illuminato”: un conto, cioè, è il vedere, altro il comprendere (quanto si è visto). Ci sono persone che hanno – com’è noto – delle esperienze “particolari” (cosiddette “parapsicologiche”); sarebbe meglio tuttavia che non le avessero, perché raramente le sanno pensare correttamente.
Fatto si è che il nostro pensare dovrebbe essere sempre all’altezza delle nostre esperienze; quanto più profonde o elevate sono queste, tanto più profondo o elevato dovrebbe essere perciò il nostro pensare.
E’ insomma rischioso, per il nostro equilibrio interiore, avere esperienze “extraordinarie” e cercare di comprenderle col pensiero “ordinario”.
Dice Steiner: “Se guardate il neonato, nelle sue forme, nei suoi movimenti, nel suo modo di gridare e balbettare, otterrete piuttosto un’immagine del corpo umano. Ma anche tale immagine non sarà compiuta, se non posta in relazione con l’età adulta e con la vecchiaia. Nella sua età mediana, l’uomo è piuttosto di natura animica, nella vecchiaia è al massimo grado spirituale” (p. 103).
Anche l’adulto e il vecchio sono ovviamente “corpo” (eterico-fisico); ma nell’infanzia (o, grosso modo, durante i primi tre settenni) lo spirito è immerso nella corporeità, mentre, nell’età mediana (nei secondi tre settenni), e ancor più nella vecchiaia (nei terzi tre settenni), ne emerge e se ne rende sempre più indipendente.
Dice Steiner: “E’ facile contestare quest’ultima asserzione, facendo notare che spesso i vecchi diventano deboli di mente” (p. 103).
In realtà, come un grande pianista (che so, un Wilhelm Backhaus o un Arturo Benedetti Michelangeli) non potrebbe mostrare il suo talento ove fosse costretto a servirsi di uno strumento inadeguato, così i vecchi non possono spesso manifestare la loro spiritualità o la loro saggezza (frutto della loro esperienza di vita) perché dispongono di uno strumento corporeo che non glielo consente.
Ciò potrebbe permetterci peraltro di capire il perché, a un certo punto (e senza rendercene lucidamente conto) vogliamo morire. In specie nell’infanzia e nella vecchiaia, c’è infatti una certa sfasatura tra la nostra parte animico-spirituale e quella eterico-fisica. Nasciamo, ad esempio, e le forze che edificano la nostra presente corporeità vengono dal passato. Disponiamo quindi di un corpo (soprattutto di una testa) che dipende dalla vita precedente, ma cerchiamo, pur vivendo in tale corpo, di portare avanti la nostra evoluzione animico-spirituale e di guadagnarci nuove forze. Non sempre, tuttavia, le forze che abbiamo così conquistato si prestano a essere espresse mediante il nostro vecchio strumento corporeo, e non ci resta allora che cambiarlo.
Dice Steiner: “Il fatto che numerose persone siano molto prive d’anima nella loro età di mezzo, non prova il contrario di quanto abbiamo detto, e cioè che l’età di mezzo è quella veramente animica. Se confrontiamo la natura corporea del bambino, sempre in una attività inconscia, sempre in movimento, con la natura corporea del vegliardo, calma e contemplativa, vedremo da un lato, nel bambino, un corpo che palesa specialmente la natura corporea, dall’altro, nel vecchio, un corpo nel quale la corporeità fisica come tale retrocede, rinnega per così dire se stessa (…) Nel bambino, nell’immagine animica ch’esso ci mostra, abbiamo un’unione strettissima tra volere e sentire; essi sono intimamente connessi (…) Contrario è il caso del vecchio. In questo sono strettamente uniti il conoscere pensante ed il sentire; mentre il volere si manifesta in certo modo autonomo. Dunque la vita umana si svolge così che il sentire, che da prima è legato al volere, se ne svincola a poco a poco nel corso della vita. Appunto tale dissociazione tra sentire e volere occupa grandemente l’educatore. Più tardi il sentire, staccato dal volere, si congiunge col conoscere pensante” (pp. 104-105).
Il sentire dunque si sposta: all’inizio è legato al volere, poi va a collocarsi tra il volere e il pensare, e infine si lega al pensare. Il nostro “maturare” non dipende, in definitiva, che da questo spostamento.
Il pensiero degli anziani, ad esempio, non è quasi mai astratto come quello degli adolescenti, non foss’altro per il fatto ch’è colmo della luce e del calore dei ricordi e delle esperienze vissute.
Oggi si ha però paura d’invecchiare, e si può purtroppo finire, così, col rendersi ridicoli o patetici. Ciò dipende appunto dal fatto che il sentire, anziché spostarsi pian piano verso il pensare, viene anacronisticamente trattenuto presso il volere.
C’è comunque da dire che una cultura a un tempo “greve” e astratta come quella contemporanea non sollecita di certo il sentire a staccarsi dal volere (dal calore degli istinti) per avvicinarsi al pensare (all’”aria fritta” o “mefitica”).
Dice Steiner: “In ogni nostra osservazione del mondo vi è però un fatto che si presenta per primo, e tutte le psicologie lo descrivono come tale: la sensazione. Ogni qualvolta uno qualunque dei nostri sensi entra in contatto col mondo circostante, si ha una sensazione: di colore, di suono, di calore, di freddo. Ma il modo in cui la sensazione viene generalmente descritta dai testi di psicologia, non ce ne trasmette una giusta rappresentazione. Vi è detto: fuori di noi, nel mondo, si svolge un certo processo fisico, avvengono vibrazioni nell’etere luminoso o nell’aria, le quali venendo in contatto col nostro organo di senso, lo eccitano. Allora si parla di “stimolo”, e ci si slancia a formulare un termine, senza però volerlo portare a una vera comprensione, perché, attraverso l’organo di senso, lo stimolo suscita nella nostra anima la sensazione, del tutto qualitativa, che si produce attraverso il fisico, per esempio attraverso le onde dell’aria nel fenomeno auditivo. Ma la psicologia e, in genere, la scienza attuale non sono in grado di dirci come ciò si produca” (p. 106).
Ricordiamoci, anzitutto, che quando parliamo di “percezione” parliamo del corpo (fisico, eterico e senziente), mentre quando parliamo di “sensazione” parliamo dell’anima (senziente).
La sensazione, infatti, è la prima manifestazione della vita animica. Ben si capisce, perciò, che ove non si considerino – come fa la scienza attuale – la vita dello spirito e quella dell’anima, è giocoforza ridurre ogni fenomeno alla vita del corpo.
Dice Steiner che la sensazione è “del tutto qualitativa”. Che cosa abbiamo sempre detto, infatti? Che l’anima è qualità, e che L’uomo senza qualità di Musil non è perciò che “l’uomo senz’anima” (voluto da Arimane). “Senza qualità”, tuttavia, è anche la scienza contemporanea, nella misura in cui è scienza della sola “quantità” (e quindi di soli numeri).
Il processo (afferente) è invero questo: il cosiddetto “stimolo” parte da una sorgente, attraversa un mezzo (per esempio, l’aria) producendovi degli effetti (per esempio, delle vibrazioni) la cui natura dipende dalla qualità del mezzo e non da quella dello stimolo, e si presenta all’organo di senso (per esempio, all’orecchio) come una modificazione del mezzo (dell’ambiente); prende poi a viaggiare lungo i nervi, e raggiunge infine il cervello, nel quale – come riconosce John Eccles, nel suo Come l’Io controlla il suo cervello (cfr. 9° Incontro – ndr), non ingenera però alcuna sensazione. Non ve la ingenera perché in forma di sensazione non si manifesta un evento del corpo senziente, bensì la reazione dell’anima senziente a tale evento (degli “psiconi” ai “dendroni”, direbbe sempre Eccles, o degli “psicostati” ai “neurostati”, direbbero altri).
Potrebbe essere illuminante, al riguardo, il fenomeno delle fobie. Le angosce, ad esempio, di un claustrofobo o di un agorafobo non vengono infatti scatenate dalla mera percezione, che so, di un ascensore o di una vasta piazza, bensì appunto dalla reazione (animica) che suscita nella loro anima tale percezione (fisica).
Dice Steiner: “Se con un’adeguata auto-osservazione si riconosce davvero che cosa sia la sensazione, ci si accorge ch’essa è di natura volitiva con inserzioni di sentimento. Essa, da prima, non è affine alla conoscenza pensante, bensì al volere senziente, o al sentire volitivo. Non so quali delle psicologie correnti abbiano riconosciuto tale parentela della sensazione col sentire volitivo o volere senziente (e, naturalmente, è impossibile conoscere tutte le innumerevoli psicologie oggi esistenti). Se si dice che la sensazione è affine alla volontà, ciò non è un parlare esatto, poiché la sensazione è affine al sentimento volitivo e al volere senziente” (pp. 106-107).
Proprio l’esempio delle fobie aiuta a capire che la sensazione è, come dice Steiner, “di natura volitiva con inserzioni di sentimento”.
Che sia di natura volitiva lo dimostra il fatto che una sensazione fobica può produrre degli effetti somatici anche gravi (pallori, sudori, tremori, svenimenti, ecc.); che abbia al contempo natura di sentimento lo dimostra il fatto che tale sensazione altro non è, a ben vedere, che un’anti-patia parossistica.
Dice Steiner: “Dunque la sensazione, quale appare nell’uomo, è sentire volente, o volere senziente. Possiamo quindi dire: dove esteriormente è diffusa la sfera dei sensi (perché più o meno i sensi sono verso l’esterno del nostro corpo), là vi è nell’uomo volere senziente, sentire volente. In uno schema dell’uomo, possiamo dire (tenendo conto però che tutto è inteso schematicamente): alla superficie esterna dell’uomo abbiamo la sfera dei sensi, dove si manifesta il sentire volente, il volere senziente. Che cosa facciamo in quella sfera? Esercitiamo un’attività che è per metà di sogno e per metà di sonno” (p. 108).
Come ormai sappiamo, il contenuto della nostra percezione (il percetto) si trasforma in chiara rappresentazione solo nell’anima cosciente. Prima di raggiungerla, deve però attraversare il corpo, arrivare all’Io, e attraversare poi l’anima senziente e l’anima razionale o affettiva.
Si tratta dunque di un contenuto inizialmente oscuro (una X) che, in virtù di tale viaggio, viene pian piano a schiarirsi; o, in altri termini, di un contenuto che parte dalla sfera di sonno per arrivare, dopo essere transitato per quella di sogno, alla sfera di veglia. Il che vuol dire – come ho spesso sottolineato – che nella sensazione è già presente o implicato quel concetto che si esplicherà come tale solo nell’anima razionale o affettiva (nella quale – non lo si dimentichi – è attivo il giudicare), e che si consoliderà come rappresentazione solo nell’anima cosciente.
Dice Steiner: “Nel bambino dobbiamo ricercare la sfera volitiva e senziente anche nei suoi sensi. Perciò si richiede qui con tanta insistenza che, mentre educhiamo il bambino intellettualmente, si agisca continuamente anche sulla sua volontà perché, in tutto quello che il bambino deve percepire e guardare, vanno coltivati anche il volere e il sentire; altrimenti ci mettiamo in contraddizione col sentimento infantile. Solo al vecchio, giunto al tramonto della vita, possiamo parlare in un modo che implichi una già avvenuta metamorfosi delle sensazioni. Nel vecchio, infatti, anche la sensazione è già passata dal volere senziente al pensare senziente o sentire pensante (…) Così perveniamo a un reale concetto della sensazione soltanto quando sappiamo ch’essa nasce nel bambino come sentire volente o volere senziente, ancora alla periferia del corpo, pel fatto che, rispetto all’interiorità dell’adulto, questa periferia dorme e insieme sogna. Dunque non solamente noi siamo pienamente svegli solo nella conoscenza pensante, ma siamo pienamente svegli solo nell’interno del nostro corpo. Alla periferia del corpo, alla sua superficie, dormiamo pure continuamente. Inoltre, ciò che avviene intorno al corpo, o meglio, alla sua superficie, avviene in modo analogo anche nella testa, e tanto più fortemente quanto più penetriamo nell’interno, nei muscoli, nel sangue. Là dentro l’uomo dorme, e dormendo sogna. Alla superficie l’uomo dorme e sogna, e dorme e sogna anche a misura che ci inoltriamo verso l’interno (…) E dove siamo dunque pienamente svegli? Nella zona intermedia, quando ci troviamo nella coscienza diurna (…) L’uomo, visto dal punto di vista spirituale, è tale che alla sua superficie e nei suoi organi interni dorme, e può essere totalmente sveglio durante la vita tra la nascita e la morte, soltanto nella zona intermedia” (pp. 108-109-110-111).
Nella sfera del conoscere, la “zona intermedia”, in cui “ci troviamo nella coscienza diurna”, è per l’appunto la zona che si trova tra l’immagine percettiva (tridimensionale) e la rappresentazione (bidimensionale). Abbiamo infatti ricordato, a suo tempo (cfr. 11° Incontro – ndr), che siamo normalmente inconsci, sia di quanto sta all’origine dell’immagine percettiva, sia di quanto sta all’origine della rappresentazione, e che ne siamo inconsci proprio perché, rispetto a ciò che origina tanto l’una che l’altra, dormiamo. Godiamo dunque di uno stato di veglia i cui limiti sono ordinariamente segnati, da una parte, dalle immagini percettive e, dall’altra, dalle rappresentazioni.
Risposta a una domanda
Quello “pre-cosciente” è, per così dire, uno stato di “dormi-veglia” (che sta cioè tra il sogno e la veglia), quelli di “sogno” e di “sonno”, sono invece, rispettivamente, stati di “subcoscienza” e di “incoscienza”. Tutto ciò che è pre-cosciente, subcosciente o incosciente deve essere però portato gradualmente alla coscienza.
Come tutti sanno, anche la psicoanalisi e la psicologia analitica vorrebbero portare l’inconscio alla coscienza (“Ove era l’Es, ivi regnerà l’io”, diceva Freud), ma l’assoluta originalità del metodo indicato da Steiner sta nel fatto che, per conseguire davvero tale obiettivo, occorre portare in primo luogo a coscienza la coscienza stessa (ossia, quell’inconscio immaginare, quell’inconscio giudicare e quegli inconsci concetti dai quali nascono le nostre coscienti rappresentazioni).
Che cos’è, in questo senso, l’inconscio? Null’altro che la coscienza di cui non siamo ancora coscienti, e quindi, in prima istanza, il pensare che non sappiamo ancora pensare.
Scrive Steiner (in una delle sue Massime antroposofiche): “Ha torto chi parla dell’incosciente, che è tale temporaneamente, come se dovesse restare per sempre nel dominio dell’ignoto e costituisse così un limite della conoscenza”.
L.R – Roma, 23 marzo 2000.
ANTROPOLOGIA 21° Incontro
Ci siamo lasciati, la volta scorsa, dopo aver letto che “l’uomo, visto dal punto di vista spirituale, è tale che alla sua superficie e nei suoi organi interni dorme, e può essere totalmente sveglio durante la vita tra la nascita e la morte, soltanto nella zona intermedia”, e aver aggiunto che questa “zona intermedia” si colloca, nella sfera del conoscere, tra l’immagine percettiva (tridimensionale) e la rappresentazione (bidimensionale).
Dice Steiner: “Quali organi sono maggiormente reperibili in questa zona? Quelli che chiamiamo i nervi, il sistema nervoso (e specialmente nella testa). Il sistema nervoso estende le sue propaggini da un lato fino alla superficie esterna, dall’altro si prolunga all’interno. Negli intervalli si trovano zone intermedie, come il cervello, soprattutto il midollo spinale, ed anche il gran simpatico. Ivi ci è data l’occasione d’essere veramente svegli. Dove i nervi sono più sviluppati, siamo maggiormente svegli. Ma il sistema nervoso ha una singolare relazione con lo spirito (…) Nel sistema nervoso avviene il continuo deperire dell’uomo. E’ l’unico sistema che non abbia alcuna relazione con l’animico-spirituale. Il sangue, i muscoli, ecc., hanno sempre rapporti diretti con l’animico-spirituale. Il sistema nervoso non ne ha di immediati; il suo solo rapporto con l’animico-spirituale consiste nel suo continuo eliminarsi dall’organismo umano, nell’esserne assente, perché continuamente va morendo. Gli altri sistemi “vivono”, perciò formano relazioni dirette con l’animico-spirituale (…) Dal punto di vista animico-spirituale, dovunque ci siano nervi ci sono semplicemente degli spazi vuoti. Perciò l’animico-spirituale può penetrarvi” (pp. 111-112).
Incontrare un attore che si è visto, fino allora, solo al cinema o in televisione suscita in genere curiosità perché vederlo indirettamente attraverso i panni di questo o di quel personaggio è cosa diversa dal vederlo direttamente o, come si dice, “di persona”.
Ebbene, lo stesso potrebbe valere in qualche modo per lo spirito. Un conto, infatti, è vederlo “di persona” (così com’è), altro vederlo rivestito dei panni (astrali) dell’anima o di quelli (eterico-fisici) del corpo. Quando riveste quest’ultimi, lo spirito permea e vivifica la sostanza così da presentarsi ad esempio come sangue o come muscoli. In questi sistemi, che hanno “rapporti diretti con l’animico-spirituale”, lo spirito non si presenta perciò come “spirito” (tanto si cala in questi panni da rendersi infatti irriconoscibile).
Non è così per i nervi, perché lo spirito non solo non li permea e non li vivifica, ma anzi li fa deperire o morire, fino al punto di renderli degli “spazi vuoti”.
Immaginando che lo spirito sia acqua, si potrebbe anche dire che il sangue e i muscoli, al pari di un tessuto spugnoso, l’assorbono e la fanno scomparire, mentre i nervi, al pari di un tessuto impermeabile, le permettono di scivolar via e di rimanere visibile.
Quanto è colmo, nel corpo, di vita e di anima vela, nasconde od occulta dunque lo spirito, mentre quanto ne è vuoto lo svela (l’ordinario pensiero riflesso è infatti una sorta di “autoritratto” dello spirito).
Dice Steiner: “I fisiologi dicono: gli organi del pensiero sono i nervi, e specialmente il cervello. La verità è che il cervello e i nervi hanno a che fare con la conoscenza pensante solo perché continuamente si escludono dall’organismo umano, e perché solo così si rende possibile il funzionare della conoscenza pensante” (pp. 112-113).
Durante il sonno, infatti, il cervello e i nervi si rigenerano perché si “escludono” dalla coscienza e dal pensiero, ma non “dall’organismo umano” e dai suoi processi anabolici; durante la veglia, invece, il cervello e i nervi si logorano perché si “escludono dall’organismo umano”, ma non dalla coscienza, dal pensiero e dai suoi processi catabolici (cfr., nell’”Osservatorio”, Cervelli “grassi” e cervelli “magri”, 4 luglio 2004 – ndr).
Dice Steiner: “Dunque, alla superficie del nostro corpo, dove sono i sensi, abbiamo dei processi reali che dipendono dall’occhio, dall’orecchio, dall’organo che accoglie il calore, ecc.. Processi simili ci sono pure nell’interno dell’uomo. Ma non ce ne sono in mezzo, tra i due: là dove veramente si estendono i nervi, si crea uno spazio libero; ed ivi ci è possibile vivere in contatto con l’esterno. L’occhio modifica per noi la luce e il colore; ma là dove abbiamo i nostri nervi, si produce un vuoto rispetto alla vita, e là calore e luce non si modificano; noi li sperimentiamo quali sono (…) Ivi diventiamo noi stessi luce, noi stessi suono; ivi i fenomeni stessi si dispiegano perché i nervi non oppongono loro alcuna resistenza, come la oppongono invece il sangue e i muscoli. Ora acquistiamo il senso di quale importanza abbia il fatto che esista in noi, nei riguardi della vita, uno spazio vuoto nel quale siamo svegli, mentre sogniamo dormendo e dormiamo sognando, sia alla superficie esterna, sia nell’interno. Siamo completamente desti soltanto in un’unica zona giacente tra la periferia e l’interno, diventiamo noi stessi luce, noi stessi suono. Questo in rapporto allo spazio” (pp. 113-114).
Possiamo dunque dire che, nell’uomo, “sia alla superficie esterna, sia nell’interno” si danno dei processi reali incoscienti, mentre nella “zona giacente tra la periferia e l’interno” si danno le immagini o le rappresentazioni coscienti di tali processi.
In questa zona, afferma Steiner, sperimentiamo i fenomeni “quali sono”; il che vuol dire che li sperimentiamo “oggettivamente”.
Non dimentichiamo che la differenza tra “individualità” e “soggettività” sta nel fatto che l’una è spirituale, mentre l’altra è psico-fisica. Asserire, come fa Steiner, che nella zona in questione “diventiamo noi stessi luce, noi stessi suono” significa pertanto asserire che l’Io (spirituale) trascende la soggettività psico-fisica, e quindi l’opposizione di soggetto (ego) e oggetto (non-ego).
Insomma, laddove comincia a tacere la nostra natura, cominciano a parlare tanto la realtà del mondo quanto quella di noi stessi.
Osserviamo – per inciso – che la “zona giacente tra la periferia e l’interno” sta segretamente in rapporto con la croce eretta, sul Golgotha, tra quelle dei due ladroni: ovvero, tra la croce del ladrone che opera nella “periferia” (Arimane) e quella del ladrone che opera invece nell’”interno” (Lucifero).
Dice Steiner: “Se guardiamo l’uomo dal punto di vista spirituale, dobbiamo mettere in relazione col vegliare, sognare e dormire anche l’elemento tempo. Supponiamo di imparare qualche cosa. L’afferriamo che penetra in quella parte di noi ch’è completamente sveglia; e finché ce ne occupiamo e ci pensiamo, resta in quella zona di completa veglia. Ma poi la vita ci prende; altre cose assorbono il nostro interesse e la nostra attenzione. Che cosa avviene allora di ciò che prima abbiamo studiato e che ha captato la nostra attenzione? Comincia ad “addormentarsi”; e se più tardi ce ne ricordiamo, si risveglia nuovamente. Vi orienterete in tutte queste cose, solamente se al guazzabuglio di parole che trovate nei testi di psicologia sulla “memoria” e l’”oblio” sostituite i concetti reali. Che cos’è il ricordare? E’ il risvegliarsi di un complesso di rappresentazioni. E che cos’è il dimenticare? E’ l’addormentarsi di un complesso di rappresentazioni (…) Ecco ciò che diventerà infinitamente necessario per l’avvenire dell’umanità: il penetrare nella realtà delle cose. Oggi gli uomini pensano quasi esclusivamente a parole; non arrivano alla realtà” (pp. 114-115).
A quest’ultimo proposito, Abraham Joshua Heschel è giunto addirittura ad affermare che l’attuale condizione umana è a tal punto grave ch’è impossibile riflettere su di essa senza provare “vergogna, angoscia e disgusto” (cfr. 3° incontro).
Gli si può dare torto? Non si prova in effetti “vergogna, angoscia e disgusto” al cospetto del livello cui si è ridotto oggi il pensiero? Flores d’Arcais lo ha di recente definito “frivolo” (cfr., nell’”Osservatorio”, L’individuo libertario, 15 febbraio 2002 – ndr): ma in tanto è “frivolo” in quanto si pasce, stolidamente e perversamente, di sole parole (cfr., nell’”Osservatorio”, Parole, parole, parole…, 18 ottobre 2003 – ndr). Il che fa sì che oggi disponiamo, da un lato, di mezzi e strumenti tecnici di “avanguardia” e, dall’altro, di un pensiero di “retroguardia”: cioè a dire, vecchio o vecchissimo, e quindi incapace di dominare tali mezzi e strumenti al fine di metterli davvero al servizio dell’uomo (del “guazzabuglio di parole” sulla “memoria” e l’”oblio”, il lettore potrà farsi un’idea consultando, nell’”Osservatorio”, Il cervello, la mente e l’anima, 12 febbraio 2001 – ndr).
Fatto si è che la realtà viene sempre meno amata, e viene perciò sempre meno osservata con quella serietà, con quella pazienza e con quella umiltà che sole potrebbero consentire al pensiero di penetrarne pian piano i segreti.
Dice Steiner: “Perciò si può capire che gli uomini ritengano a tutta prima incomprensibile un’idea come quella della “tripartizione dell’organismo sociale”, che è del tutto attinta dalla realtà e non da concetti astratti. Per la gente non ha alcun significato far derivare le cose dalla realtà. E meno di tutti fanno derivare le loro teorie dalla realtà, per esempio i capi socialisti o comunisti; essi rappresentano il più estremo aspetto, l’ultimo fenomeno decadente del significato della parola. Gli uomini credono di capire moltissimo della realtà, ma quando cominciano a parlare presentano i più vuoti involucri di sole parole” (p. 115).
Riprendendo una felice espressione di Nikolaj Berdjaev, potremmo dunque dire che, in tutti costoro, non è la “Parola” (il “Verbo”) a farsi carne, bensì è la carne a farsi parola.
Abbiamo così finito la settima conferenza. Cominciamo allora l’ottava.
Dice Steiner: “Potrete dire che, veramente, il dormire e il vegliare sono processi ancora più oscuri che il ricordare e il dimenticare, e quindi che non potremo guadagnar molto indagando questi ultimi con l’aiuto dei primi. E nondimeno, chi osservi accuratamente ciò che per l’uomo va perduto quando il suo sonno sia turbato, ne potrà dedurre come nella vita dell’anima umana si inserisca alcunché di perturbatore quando il dimenticare non venga messo nel giusto rapporto col ricordare (…) Ma quando avviene questo? Avviene allorché non riusciamo a regolare a nostra volontà il ricordare e il dimenticare” (pp. 116-117).
Può qui aiutarci il tornare a considerare, ancora una volta, il tipo stenico (isterico) e quello astenico (nevrastenico). E’ facile osservare, infatti, che, nel primo, il dimenticare prevale sul ricordare, mentre, nel secondo, il ricordare prevale sul dimenticare. Ma questo avviene proprio perchè il dimenticare è legato al sonno e all’apparato metabolico (che predomina nel tipo stenico), così come il ricordare è legato invece alla veglia e all’apparato neuro sensoriale (che predomina nel tipo astenico).
Questi sono fatti di natura (e quindi karmici) che andrebbero sagacemente e pazientemente corretti, al fine di riuscire, per dirla con Steiner, “a regolare a nostra volontà il ricordare e il dimenticare”.
Non è infatti salutare e umano dimenticare tutto, ma non è nemmeno salutare e umano ricordare tutto, così come non è salutare e umano stare sempre a dormire o stare sempre svegli. Quello che conta, anche in questo caso, è un giusto ritmo, cioè un giusto rapporto tra l’oblio e il ricordo.
Dice Steiner: “Si arriverà sempre più a porre il ricordare e il dimenticare nella sfera del proprio arbitrio, quando si apprenderà che, anche allo stato di veglia, il dormire e il vegliare intervengono nel ricordare e nel dimenticare. Infatti il ricordo nasce dal fatto che la volontà, nella quale noi dormiamo, afferra giù nell’incosciente una rappresentazione e la porta su nella coscienza” (p. 117).
A scanso di equivoci, ricordiamo che la volontà “afferra giù nell’incosciente” quello che abbiamo a suo tempo chiamato il “ricordo in sé” (avente natura di concetto), e ch’è solo quando questo arriva “su nella coscienza” che si ha la rappresentazione (mnemonica).
Dice Steiner: “Ora, la volontà è appunto “dormiente”, e perciò non potrete ottenere in modo immediato che il bambino impari ad adoperare la sua volontà. Infatti se voleste far ciò, sarebbe come raccomandare all’adulto di “fare il bravo” durante il sonno, per essere poi bravo nella vita, quando si sveglia. Non si può dunque pretendere, da questa parte dormiente della volontà, che compia il singolo immediato sforzo per regolare il ricordo” (pp. 117-118).
Come vedete, scoprire le relazioni esistenti tra questi fenomeni amplia l’orizzonte educativo. Ha detto appunto Steiner: “Nel mondo non si comprende in altro modo che riferendo una cosa ad un’altra” (cfr. 20° incontro – ndr).
Sapendo, infatti, che il ricordare è in rapporto con il vegliare, anziché agire direttamente sulla volontà del bambino, affinché compia uno sforzo “per regolare il ricordo”, possiamo agire direttamente sul vegliare, affinché, rafforzando se stesso, rafforzi indirettamente il ricordare.
Ma come si rafforza il vegliare?
Dice Steiner: “Supponiamo che, con qualche procedimento speciale, noi destiamo nel fanciullo un vivo interesse, ad esempio, per il mondo animale. Naturalmente non potremo destarlo in lui in un giorno solo, ma dovremo svolgere tutto l’insegnamento in modo che, a poco a poco, tale interesse venga suscitato e svegliato. Quanto più vivaci sono gli interessi che un insegnamento riesce a suscitare in un fanciullo, tanto più essi passeranno nella volontà; e in questo caso essa acquisterà, in genere, la facoltà di tirare su dall’incosciente, dall’oblio, le rappresentazioni della vita animale, quando queste, in una vita bene ordinata, siano necessarie alla memoria (…) In altre parole, dobbiamo in questo modo cercare di riconoscere perché tutto ciò che desta intenso interesse nel fanciullo contribuisca pure a rafforzare la memoria e a renderla attiva. La facoltà della memoria va infatti educata partendo dal sentimento e dalla volontà, non già per mezzo di semplici esercizi mnemonici intellettuali” (p. 118).
Non va educata cioè meccanicamente (come se equivalesse a quella di un computer). Steiner parla infatti di “interessi vivaci”. Ma qual è, o quale dovrebbe essere, il più vivace dei nostri interessi? Quello dell’uomo che cerca, attraverso il mondo, l’uomo o, il che è lo stesso, dell’Io che cerca, attraverso il mondo, l’Io (e mediante l’Io – ricordiamolo sempre – il Logos).
Si cercherà invano, però, di suscitare un simile interesse se non si disporrà di una scienza del mondo che sia al tempo stesso una scienza dell’uomo, e di una scienza dell’uomo che sia al tempo stesso una scienza del mondo: se non si disporrà, ossia, di una scienza che – come quella dello spirito – sia in grado di dimostrare che la verità è bellezza e che la bellezza è verità, sanando così quella lacerazione che strazia l’anima del fanciullo ogni volta che lo si induce a credere che la verità (“nuda e cruda”) non è bella (dal momento che non è una “favola”), e che il bello, sarà pur bello e piacevole, ma non è vero (dal momento che è una “favola”).
Pensate, tanto per fare un esempio, a Leopardi e al suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Chi potrebbe dire che questa poesia non è bella, anzi bellissima. Eppure, dal punto di vista della scienza attuale, non contiene un briciolo di verità; anzi, dal punto di vista psichiatrico, equivale praticamente a un delirio.
“Pur tu, solinga, eterna peregrina, / Che sì pensosa sei, tu forse intendi, / Questo viver terreno, / Il patir nostro, il sospirar, che sia…”.
Chi altri, infatti, se non appunto un delirante, potrebbe rivolgersi alla Luna in questo modo, sperando oltretutto che gli risponda?
Continueremo giovedì prossimo.
L.R. – Roma, 30 marzo 2000
ANTROPOLOGIA 22° Incontro
Riprendiamo subito a leggere.
Dice Steiner: “Se ci si vuole veramente accostare alla realtà, e specialmente alla realtà della natura umana, ci si deve render conto che ogni divisione va operata in un elemento unitario, ma che se si guardasse solamente all’astratta unità, non si imparerebbe mai a conoscere nulla. Se d’altra parte non si separasse una cosa dall’altra, il mondo resterebbe sempre nell’indeterminatezza, come di notte tutti i gatti appaiono grigi. Chi vuol afferrare tutto in astratte unità, vede il mondo tutto in grigio su grigio. Chi invece volesse soltanto dividere, distinguere e separare, non arriverebbe mai a una vera conoscenza, ma resterebbe solo negli elementi isolati” (p. 119).
Diceva Goethe: “Solo colui che sa dividere può unire”. Sembrerebbe ovvio, ma non è così.
I tipi astenici (tendenzialmente meccanicisti) sanno infatti dividere, ma non unire, mentre i tipi stenici (tendenzialmente mistici) sanno unire, ma non dividere. L’unilaterale disposizione dei primi all’analisi costituisce infatti un habitat favorevole alle forze arimaniche, mentre quella dei secondi alla sintesi costituisce un habitat favorevole alle forze luciferiche.
Sull’analisi e la sintesi (Olschki, Firenze 1935), così s’intitola, ad esempio, un lavoro dell’ormai dimenticato filosofo italiano Pasquale Galluppi (1770-1846); ma avrebbe potuto intitolarsi altrettanto bene: Sull’inalazione e l’esalazione, oppure: Sulla diastole e la sistole, poiché quello costituito dall’analisi e dalla sintesi è appunto un ritmo, che può alterarsi, al pari di ogni altro, in una direzione o in quella opposta, ingenerando delle patologie.
Laddove prevale il moto centrifugo dell’analisi si teme naturalmente quello centripeto della sintesi, e si tende pertanto a indugiare e a tergiversare onde allontanare il momento in cui si dovrebbe, tirando le somme, concludere o decidere (impegnando maggiormente la volontà). Laddove prevale all’inverso il moto centripeto della sintesi si teme naturalmente quello centrifugo dell’analisi, e si tende pertanto ad affrettare o a “trinciare” il giudizio (non impegnando a sufficienza il pensiero).
Teniamo presente che il moto dell’analisi è anti-patico, mentre quello della sintesi è sim-patico. La vera conoscenza – come abbiamo visto – presuppone però un sano rapporto animico tra la forza dell’anti-patia (del pensiero) e quella della sim-patia (della volontà).
I meccanicisti, che sanno dividere, ma non unire, sono dunque coloro che – come si suol dire – “vedono gli alberi, ma non la foresta”, mentre i mistici, che sanno unire, ma non dividere, sono coloro che “vedono la foresta ma non gli alberi”.
I mistici – come sappiamo – aspirano a ricongiungersi all’Uno. E non hanno torto, perché, partendo dall’Uno, siamo arrivati al molteplice e, partendo dal molteplice, siamo chiamati a tornare all’Uno. Essi però non tornano pazientemente, gradualmente e lucidamente all’Uno, bensì si precipitano o si gettano, per così dire, nell’Uno, in modo tutt’altro che paziente, graduale e lucido (scientifico-spirituale).
Potrebbe essere forse interessante ricordare, al riguardo, che lo psichiatra e psicoanalista austriaco Wilhelm Reich (1897-1957), noto seguace eterodosso di Freud e pioniere dell’Analisi del carattere (Sugarco, Milano 1994 – ndr), ha parlato appunto, in termini fortemente critici, di una società “mistico-meccanicistica”. Si tratta, in effetti, di una grande intuizione, come pure è quella che lo ha portato ad affermare che una società del genere non può che commettere L’assassinio di Cristo (Sugarco, Milano 1994 – ndr).
Proprio il suo caso, sta tuttavia a confermare – lo abbiamo detto un paio di sere fa – ch’è rischioso, per l’equilibrio interiore, avere esperienze “extraordinarie” (come magari delle grandi intuizioni) e cercare di comprenderle col pensiero “ordinario”.
E’ stato infatti il suo “naturalismo” a far prendere a Reich “fischi per fiaschi”: a impedirgli cioè di comprendere che la cosiddetta “energia orgonico-cosmica” è in verità quella eterica, che la società “mistico-meccanicistica” è in verità quella luciferico-arimanica, che “l’assassinio di Cristo” è in verità quello dello spirito e dell’Io (che ne veicolano la Persona), e che sarebbe quindi il caso di auspicare e promuovere una rivoluzione spirituale, e non – com’egli ha fatto – una “rivoluzione sessuale”.
“Ci accusano – osserva Steiner – di mettere il mondo sossopra. Il fatto vero è che il mondo è già sossopra, e che per mezzo della scienza dello spirito bisogna metterlo con la testa in su e i piedi in giù” (p. 112).
Ma eccoci arrivati al punto in cui si affronta l’estesiologia.
Dice Steiner: “L’uomo ha, in tutto, dodici sensi. Se nella scienza ordinaria si distinguono soltanto cinque, sei o sette sensi, dipende solo dal fatto che questi sono particolarmente appariscenti e gli altri (che completano il numero dodici) lo sono meno” (pp. 119-120).
E’ importante sapere che i sensi sono dodici, e non solamente “cinque, sei o sette”, ma è altrettanto importante enumerarli, non – come siamo abituati a fare – alla rinfusa, bensì secondo un preciso e obiettivo ordine gerarchico.
Ho infatti anticipato, una sera, che Steiner distingue i sensi che ci mettono in rapporto (in con-tatto) con il nostro mondo interno (quelli “propriocettivi” del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio), sia dai sensi che ci mettono in rapporto col mondo esterno (quelli “eterocettivi” dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore), sia dai sensi (quelli dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io) che ci mettono in rapporto con “l’interno dell’esterno” (con l’interiorità del mondo esterno).
Posso ora aggiungere che il senso dell’Io sta in relazione con quello del tatto, il senso del pensiero con quello della vita, il senso del linguaggio con quello del movimento, il senso dell’udito (com’è risaputo) con quello dell’equilibrio, il senso del calore con quello dell’olfatto, e il senso della vista con quello del gusto.
Cominciamo dunque a esaminarli, partendo dal senso dell’Io.
Dice Steiner: “La percezione del mio proprio io nella interiorità è qualcosa di diverso dal riconoscimento di un’altra persona come io. La percezione di un altro io proviene dal senso dell’io, come la percezione del colore dal senso della vista, del suono dal senso dell’udito (…) Tale organo non ha nulla a che vedere con ciò che fa sì che ciascuno sperimenti il proprio io. Vi è un’immensa differenza tra lo sperimentare il proprio io ed il percepire l’io in un altro, poiché quest’ultima percezione è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza), mentre l’esperienza del proprio io è un processo volitivo” (pp. 120-121).
Lo sperimentare interiormente il proprio io, in quanto processo volitivo, si basa dunque sulla sim-patia, mentre il percepire esteriormente l’io di un altro, in quanto processo conoscitivo, si basa sull’anti-patia. Vedremo appunto che queste due forze svolgono un preciso ruolo anche nell’attività del senso dell’Io.
In che cosa consiste la cosiddetta “cognizione sensibile”? E’ ovvio: nella conoscenza di ciò che percepiamo attraverso i sensi. E che cosa percepiamo attraverso i sensi? Ad esempio, gli esseri del mondo minerale, vegetale e animale. Ma con questi esseri non abbiamo lo stesso rapporto che abbiamo con gli altri esseri umani. Infatti, incontrando un essere minerale, incontriamo un corpo fisico (che ha il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io nel mondo spirituale); incontrando un essere vegetale incontriamo un corpo fisico e un corpo eterico (che hanno il corpo astrale e l’Io nel mondo spirituale); incontrando un essere animale incontriamo un corpo fisico, un corpo eterico e un corpo astrale (che hanno l’Io nel mondo spirituale). Solo incontrando un altro essere umano, incontriamo dunque un Io che sta qui, sulla Terra, come il nostro.
Ne consegue che ci è possibile osservare, per così dire, dall’”alto” (dell’Io) gli esseri minerali, vegetali e animali, ma che ci è impossibile fare lo stesso con i nostri simili.
Dice Steiner: “Ciò che avviene, quando stiamo di fronte ad un altro, è il processo seguente: percepiamo per brevi momenti quella persona, ed essa fa su di noi un’impressione. Quella impressione ci disturba nella nostra interiorità; noi sentiamo che quella persona, che in fondo è un essere uguale a noi, fa su di noi un’impressione che è come un attacco. Per conseguenza noi, interiormente ci “difendiamo”, ci opponiamo all’attacco, diventiamo interiormente aggressivi contro di esso. Poi questa nostra aggressività si paralizza, cessa; quindi l’altro può nuovamente fare un’impressione su di noi. Così abbiamo il tempo di aumentare di nuovo la nostra forza aggressiva e compiamo un’altra aggressione. Indi nuovamente questa viene meno, l’altro fa una nuova impressione su di noi, e così via di seguito. Questo è il rapporto che si stabilisce quando una persona sta di fronte ad un’altra percependone l’io: dedizione all’altra persona – difesa interiore – dedizione all’altro – difesa interiore – simpatia – antipatia – simpatia – antipatia. Non parlo ora della vita del sentimento, ma dello starsi di fronte per mezzo della percezione” (pp. 121-122).
Per quale ragione l’impressione che un’altro Io fa su di noi “ci disturba nella nostra interiorità”, tanto da essere avvertita “come un attacco”? Proprio perché – lo abbiamo appena detto – l’Io umano può toccare percettivamente gli esseri minerali, vegetali e animali senza essere a sua volta toccato, come invece gli accade quando tocca percettivamente un altro essere umano.
In questo caso, il moto di sim-patia con il quale andiamo incontro ai primi, si trasforma in un moto in cui si alternano sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione).
Se il moto di sim-patia supera di troppo quello di anti-patia (come può capitare nei tipi stenici: cioè in quelli aperti, socievoli e facilmente influenzabili), c’è il rischio che si finisca col confondere il proprio Io con quello dell’altro, con l’identificarvisi, o col dipenderne. Se succede il contrario (come può capitare nei tipi astenici: cioè in quelli chiusi, schivi e difficilmente influenzabili), c’è invece il rischio che si finisca con l’allontanare o evitare gli altri.
Nel primo caso, ci si richiama insomma (inconsciamente) al principio: “Vita tua, mors mea”; nel secondo, al principio: “Mors tua, vita mea”.
Dice Steiner: “Ma un’altra cosa avviene: mentre si svolge la simpatia, voi vi addormentate, per così dire, nell’altra persona; quando si svolge l’antipatia vi risvegliate di nuovo, ecc.. E’ un alternarsi continuo di veglia e sonno di brevissima durata, che si svolge in vibrazioni, ogni volta che stiamo di fronte a un’altra persona; e lo dobbiamo all’esistenza del senso dell’”io”. Questo è organizzato in modo che investiga l’io dell’altro non già nella propria volontà sveglia, ma in una volontà dormiente, e poi con tutta rapidità fa trapassare nella conoscenza l’informazione ottenuta in quello stato dormiente, cioè la comunica al sistema nervoso” (p. 122).
Diceva Jung – l’ho già ricordato – che “gli inconsci si parlano”. Alla luce di quanto abbiamo appena letto, sarebbe però meglio dire: “gli inconsci (le volontà dormienti), unendosi grazie alla sim-patia, si toccano o tastano, e poi, allontanandosi grazie all’anti-patia, mettono i frutti del loro toccare o tastare a disposizione della coscienza (del sistema nervoso).
Ciò che più importa, comunque, è capire che l’Io dell’altro può essere solamente intuìto: ossia afferrato, ordinariamente, dall’anima senziente (dall’anima inconsciamente intuitiva) o, in via del tutto eccezionale, da una coscienza che abbia già raggiunto il grado intuitivo.
Ascoltate, appunto, quanto scrive Steiner (ne I gradi della conoscenza superiore – ndr): “Nell’ispirazione le esperienze dei mondi superiori esprimono il loro significato. L’osservatore vive nelle qualità e nelle azioni degli esseri di quei mondi superiori. Quando segue col suo io una linea o una forma (…) egli sa tuttavia di non trovarsi dentro l’essere stesso, bensì dentro le sue qualità e attività. Già nella conoscenza immaginativa egli sa di non sentirsi fuori, ma dentro le immagini colorate; sa però altrettanto esattamente che tali immagini colorate non sono esseri indipendenti, ma qualità di esseri. Nell’ispirazione egli diviene cosciente di unificarsi con le azioni degli esseri stessi, con le manifestazioni della loro volontà; solo nell’intuizione egli stesso si immedesima con esseri che sono in sé completi. Ciò può avvenire nel giusto modo soltanto se tale unificazione si fa senza spegnere il proprio io, ma conservando integra la propria individualità. Il perdersi in un altro essere, comunque ciò avvenga, è male. Perciò solo un io, consolidato in se stesso in alto grado, può immergersi senza danno in un altro essere. Si è afferrato qualcosa intuitivamente solo quando di fronte a questo “qualcosa” si ha la sensazione che vi si manifesta un essere che ha la medesima natura e la medesima coesione interiore dell’io”.
A che cosa serve dunque, di norma, la sim-patia? A “unificare” il nostro Io con l’Io dell’altro; e l’anti-patia? A evitare che il nostro Io si “perda” nell’Io dell’altro. Solo dopo aver sviluppato la coscienza intuitiva saremo infatti in grado di “immergerci” in un altro Io senza dover ricorrere all’anti-patia per conservare integra la nostra individualità.
Risposta a una domanda
La coscienza immaginativa ci consente di distinguere il vivente dal non vivente e di percepire la forza che rende appunto “vivente” il vivente. La coscienza ispirativa ci consente invece di discernere e distinguere, a un superiore livello, le qualità. Grazie a questa, il nostro rapporto con le cose e con gli altri diventa dunque più intimo, dal momento che la qualità è carattere o anima. Ma chi è ad avere tale qualità, carattere o anima? Chi ne è cioè il soggetto o il portatore? A questa domanda, può rispondere solo la coscienza intuitiva, poiché è l’unica coscienza in grado di cogliere l’essenza delle cose e degli altri, al di là del corpo, della vita e dell’anima.
Certo, ogni contenuto che percepiamo deve arrivare, attraverso il corpo, all’Io, in quanto è l’Io a portargli incontro quel concetto di cui prendiamo poi coscienza nell’anima (in forma di rappresentazione).
Ha ragione, perciò, nel sostenere che ogni dato percettivo s’incontra con l’Io. Deve però considerare, come ho cercato di spiegare, che, per l’Io, un conto è riconoscere un tavolo, un garofano o un gallo, un conto è riconoscere un altro Io. I primi li riconosce infatti nel corpo astrale (nel “regno delle Madri” di Goethe), mentre il secondo non può riconoscerlo che in se stesso; per farlo, – come abbiamo visto – deve però, seppure per qualche istante, lasciargli il posto o, come dice Steiner, “addormentarsi”.
Mi sembra di ricordare che quando ci occupammo de La filosofia della libertà vi invitai a immaginare, al riguardo, una circonferenza nella quale se ne trovino inscritte altre tre di diametro progressivamente minore. Che cosa fa dunque la prima? E’ semplice: comprende le altre tre.
Ma come la circonferenza maggiore comprende quelle minori, così l’Io umano comprende l’Io (la specie, che non sta sulla Terra) degli esseri minerali, vegetali e animali, ma non l’Io (individuale) dell’altro essere umano (che sta invece sulla Terra). Questo, infatti, deve essere immaginato come una circonferenza coincidente. Ma è proprio perché è tale, che si pone allora il problema (comportante “attacco” e “difesa”) di un Io che, sovrapponendosi a un altro Io, rischia per ciò stesso di oscurarlo o eclissarlo (volendo, ciò che dice Steiner lo si potrebbe perciò dire anche così: in prima istanza, l’Io dell’altro eclissa il mio Io, poi il mio eclissa il suo, poi ancora il suo eclissa il mio, e così via).
Dice Steiner: “Se si guarda bene il fenomeno, la cosa principale nella percezione dell’altra persona è proprio la volontà, ma quella volontà che si svolge dormendo. E ciò che sta in mezzo tra i diversi momenti in cui dormendo si compie la percezione dell’io di un altro, è già conoscenza, perché l’atto percettivo viene rapidamente respinto nella regione dove domina il sistema nervoso” (p. 123).
L’Io degli altri lo assumiamo insomma “a piccoli sorsi”: allo stesso modo, cioè, in cui assumiamo di solito una bevanda bollente. Grazie alla sim-patia e al sonno (del volere) ne mettiamo in bocca un “sorso”, e grazie all’anti-patia e alla veglia (al pensare), subito ci affrettiamo a deglutirlo (per poi ricominciare).
L.R. Roma, 6 aprile 2000
ANTROPOLOGIA 23° Incontro
Stasera, prima di occuparci degli altri sensi, vorrei dire ancora qualcosa su quello dell’Io.
Afferma Scaligero che viene un momento in cui siamo folgorati dal pensiero: “L’altro è”. Da un lato, ci folgora dunque il pensiero: “Io sono”; dall’altro, il pensiero: “L’altro è”.
Sia l’uno che l’altro, prima di averli quali “pensieri”, li abbiamo però quali “percezioni”; e “vi è un’immensa differenza – abbiamo letto – tra lo sperimentare il proprio io ed il percepire l’io in un altro, poiché quest’ultima percezione è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza), mentre l’esperienza del proprio io è un processo volitivo”.
Lo “sperimentare il proprio io”, è infatti un’auto-percezione (volitiva e sim-patica) che dipende in primo luogo dai sensi “propriocettivi” (del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio), mentre il “percepire l’io in un altro” è una etero-percezione (nella quale si alternano sim-patia e anti-patia) che dipende dal senso dell’Io, ed “è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza)”.
Dice Goethe ch’è il giudizio a ingannare, e non i sensi. Mai, come nel caso del senso dell’Io, è possibile verificare la validità di questa affermazione. Sia in noi stessi, sia nell’altro, percepiamo infatti l’Io spirituale (l’Io reale che passa da una vita terrena all’altra), ma ce lo rappresentiamo poi, giudicando (con il concorso dei sensi eterocettivi e dei nervi), come un io psico-fisico o ego (come un Io che vive una volta sola).
L’Io auto-percepito ed etero-percepito è dunque un essere reale, mentre quello rappresentato è un essere apparente o illusorio (in quanto riflesso psico-fisico dell’Io reale). Osserva giusto Heschel: l’presentato è un essere illusorio (il riflessozio“Tentare di capire che cosa significhi essere una persona è la premessa indispensabile per metter ordine nell’esistenza. Sarebbe una sventura vivere senza un nome, e un disastro vivere senza un’identità interiore. Un nome lo riceviamo e lo ricordiamo, semplicemente; la nostra identità spirituale dobbiamo invece conquistarla, trovarla, acquisirla, accrescerla; è in funzione di essa che dobbiamo vivere” (cfr. 3° incontro).
Risposta a una domanda
Immagini di avere di fronte a sé un gatto. Il suo Io prima lo percepisce, poi integra (inconsciamente) tale percezione con il relativo concetto, per farsene così una cosciente rappresentazione. Orbene, il suo Io può far questo, per così dire, con tutta calma, perché il gatto, in quanto privo di un Io individuale, non lo costringe a passare il più rapidamente possibile dall’iniziale movimento sim-patico della percezione a quello successivo e anti-patico della conoscenza. Allorché percepisce un essere umano, cioè a dire un suo pari, il suo Io deve invece affrettarsi a passare dal primo al secondo di tali movimenti, per evitare il rischio, indugiando in quello sim-patico della percezione, di perdersi nell’altro, o, indugiando in quello anti-patico della conoscenza, di perdere l’altro.
Fatto sta che l’Io, per dirla banalmente, può percepire il gatto restando tranquillamente seduto sulla propria sedia, mentre può percepire l’altro Io soltanto cedendogliela, nel timore che quello possa offendersi e andarsene, ma tornando prontamente a sedervi, nel timore che l’altro vi si possa sistemare e non restituirgliela più.
Ricorda ciò che ha detto Steiner? “Il perdersi in un altro essere, comunque ciò avvenga, è male. Perciò solo un io, consolidato in se stesso in alto grado, può immergersi senza danno in un altro essere”.
Ma passiamo adesso al “senso del pensiero”, detto anche, da Steiner, del “concetto” (in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia).
Dice Steiner: “Poi abbiamo un altro senso, separato da quello dell”io” e da tutti gli altri sensi, ed è quello che io chiamo il senso del pensiero. Non è quello che percepisce i propri pensieri, ma quelli di altre persone. Anche a questo proposito gli psicologi hanno rappresentazioni veramente comiche. Anzitutto sono talmente influenzati dall’idea che il pensiero e il linguaggio formano una cosa sola, che credono che col linguaggio venga sempre accolto anche il pensiero. E’ un’assurdità, perché col senso del pensiero potreste percepire i pensieri, sia che essi vengano espressi con dei gesti esteriori, sia col linguaggio parlato. Il linguaggio non fa che “trasmettere” i pensieri. Ma questi dovete percepirli per se stessi, per mezzo di un altro senso speciale” (p. 123).
Notiamo che, per il fatto stesso di avere un senso “dell’Io” e un senso “del pensiero” o “del concetto”, dovrebbe risultar chiaro che l’Io è cosa diversa dal pensiero o dal concetto, e che la differenza che c’è tra la natura del primo e quella del secondo è analoga a quella che c’è tra l’anima cosciente e l’anima razionale o affettiva.
Pur avendo presente che le rappresentazioni (coscienti) sono una cosa e le immagini (pre-coscienti) un’altra, e che l’anima cosciente – come non abbiamo mai mancato di sottolineare – è in primo luogo attenta, scientificamente, al percetto, mentre l’anima razionale o affettiva è in primo luogo attenta, logicamente o filosoficamente, al concetto, non sempre si realizza tuttavia – secondo quanto afferma Steiner – che, ove si prescinda “dal contenuto della vita di pensiero”, “non c’è differenza qualitativa tra la vita di pensiero come tale e la vita di sogno”, e ch’è dunque “il rapporto che abbiamo col mondo, quando ci serviamo dei sensi, quello che ci dà l’autocoscienza”; infatti, aggiunge, “con la vita dei sensi affluisce nello stesso tempo in noi ciò che dà alle nostre ordinarie immagini conoscitive contorni netti e definiti. E’ anche qualcosa che il mondo esterno ci dà; se non ce lo desse, grazie all’azione combinata dei sensi e dei pensieri realizzeremmo soltanto una vita di fantasia, non potremmo avere la vita quotidiana con i suoi nitidi contorni” (la conferenza da cui sono stata tratte queste citazioni, del 7 gennaio 1921, è stata di recente pubblicata in italiano, nel volume: Il rapporto delle diverse scienze con l’Astronomia – Antroposofica, Milano 2007 – ndr).
Dice Steiner: “Poi abbiamo il vero e proprio senso del linguaggio. Quindi i sensi dell’udito e del calore, di vista, gusto, olfatto, e il senso dell’equilibrio. Noi abbiamo una coscienza sensoria di trovarci in uno stato di equilibrio. Per una certa percezione sensoria sappiamo in quale rapporto stiamo tra destra e sinistra, tra davanti e dietro, e come tenerci in equilibrio per non cadere. E quando il nostro organo del senso dell’equilibrio viene distrutto, non possiamo più reggerci e cadiamo, proprio come non possiamo più metterci in relazione coi colori quando il nostro occhio è guastato. Ma oltre a questo senso dell’equilibrio abbiamo anche un senso per i nostri propri movimenti, che ci fa distinguere se siamo in moto o in riposo, e se i nostri muscoli sono tesi o no. Inoltre abbiamo anche il senso della vita, per percepire la disposizione in cui, nel senso più largo, si trova il nostro corpo (se ci sentiamo più o meno “in forma” – nda). Molte persone ne sono addirittura dipendenti (quelle cosiddette “ipocondriache” – nda). Esse percepiscono se hanno mangiato troppo o troppo poco, se sono stanche o no, e per conseguenza sentono benessere o malessere. Tale percezione delle condizioni del proprio corpo si riflette nel senso della vita. Abbiamo così indicato tutti i dodici sensi che l’uomo effettivamente possiede” (pp. 123-124).
In realtà, ne abbiamo visti undici, poiché manca ancora da vedere il senso del tatto, che completa, con quelli della vita, del movimento e dell’equilibrio, il quaternio dei sensi legati soprattutto alla volontà.
Dice Steiner: “Dopo aver eliminato la possibilità di una obiezione pedantesca sul carattere conoscitivo di alcuni fra i sensi (quelli “superiori” dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io – nda), perché abbiamo constatato che anche tale carattere di conoscenza riposa in modo occulto sulla volontà (sulla percezione – nda), possiamo ora procedere oltre nella suddivisione dei sensi. Ne troviamo anzitutto quattro, il tatto, il senso della vita, il senso del movimento e quello dell’equilibrio, che sono specialmente compenetrati di attività volitiva. Si può ben sentire come nella percezione dei movimenti, anche quando li eseguiamo stando fermi in piedi, s’introduca il volere. Una volontà calma opera anche nella percezione del nostro equilibrio. Nel senso della vita la volontà opera molto fortemente, e così pure nel tatto poiché, quando tastiamo qualcosa, avviene una presa di posizione tra il nostro volere e l’oggetto fuori di noi. Insomma, possiamo ben dire che i quattro sensi ora elencati sono sensi volitivi in senso ristretto” (p. 124).
Abbiamo detto, giovedì scorso, che il senso dell’Io sta in rapporto col senso del tatto, il senso del pensiero con quello della vita, il senso del linguaggio con quello del movimento, il senso dell’udito con quello dell’equilibrio, il senso del calore con quello dell’olfatto, e il senso della vista con quello del gusto.
I quattro sensi “conoscitivi” stanno dunque in rapporto con i quattro “volitivi”, mentre i quattro intermedi, più legati al sentimento, stanno in rapporto tra loro (il senso del calore con quello dell’olfatto e il senso della vista con quello del gusto – non si dice infatti, a tavola: “Anche l’occhio vuole la sua parte”?).
Dice Steiner: “Altri quattro sensi, quelli dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore, sono principalmente sensi del sentimento. La coscienza ingenua ne sente l’affinità col sentimento, sopra tutto nel fiutare e nel gustare. Che non lo si senta altrettanto per la vista e il calore, ha le sue buone ragioni. Nel senso del calore non si osserva l’affinità col sentimento, ma se ne fa una cosa sola col tatto, cioè si distingue e si confonde in modo ugualmente errato. Il tatto è in realtà molto più dipendente dalla volontà, mentre il senso del calore dipende solo dal sentimento” (p. 125).
Che il senso del tatto sia in rapporto con quello dell’Io, e che dipenda, forse più di ogni altro, dalla volontà inconscia, potrebbe dimostrarlo ad esempio il fatto che Pasquale Galluppi si dichiara convinto, nel suo Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, che “la nostra esistenza intellettuale incomincia colla percezione del me, che percepisce un fuor di me”: che incomincia, ossia, laddove un Io s’incontra o si scontra, in virtù appunto del tatto, con un non-Io.
Ma ascoltiamo quanto Steiner dice di questi sensi, in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia: “Usciamo dall’uomo (da ciò di cui ci parlano, ossia, i sensi del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio – nda) e osserviamolo là dove incomincia la sua azione scambievole col mondo esterno. Abbiamo il primo rapporto di scambio quando uniamo a noi la sostanza e quindi la percepiamo (…) Perché si possa odorare la rosa, essa deve esalare sostanza gassosa”.
Col gusto, “non si percepisce direttamente la sostanzialità, ma il corpo deve prima venir disciolto dai succhi della bocca Qui può venir percepito solo un rapporto scambievole tra la lingua e quel corpo. Le cose non ci dicono soltanto che cosa esse sono in quanto a sostanza, ma ci rivelano anche gli effetti che possono produrre. Il rapporto di scambio tra l’uomo e la natura è ora divenuto intimo (…) Con l’odorato, il corpo prende le cose così come sono. Il senso del gusto è già più complicato, per cui le cose ci rivelano ora qualcosa di più sulla loro intima natura”.
Con la vista, “possiamo già distinguere se qualcosa lascia filtrare la luce oppure no (…) L’occhio è un organo così mirabile, perché consente di penetrare nella natura delle cose molto più profondamente di quanto sia possibile con gli altri organi di senso dei quali abbiamo appena parlato (…) Se ad esempio, con l’occhio vediamo la rosa rossa, attraverso la superficie ci viene rivelato l’interno. Noi vediamo soltanto la superficie, ma poiché essa è determinata dall’interno, per suo mezzo impariamo a conoscere fino ad un certo grado l’interno”.
Col senso del calore, infine, penetriamo “ancor più a fondo nell’intimo di una cosa. Nel colore abbiamo solo ciò che si svolge alla superficie. Il ghiaccio è al contrario in tutto e per tutto freddo, e così anche per l’acciaio incandescente il calore attraversa tutto il corpo (…) Il senso del calore penetra intimamente nei sostrati delle cose”.
Ecco così illustrati, seppur brevemente, tutti e dodici i sensi. Occorre però tenere presente che in ogni atto percettivo vengono sempre impegnati più sensi, quando non addirittura tutti e dodici. In modo diverso, ovviamente, a seconda della natura di tale atto.
Dice Steiner: “Quando l’uomo percepisce un cerchio colorato, egli dice grossolanamente: io vedo il colore e vedo anche la rotondità del cerchio, la forma circolare. Ma così si confondono due cose del tutto diverse tra loro. Mediante la vera e propria attività dell’occhio, separata dal resto, si vede da prima solamente il colore. La forma circolare, invece, la vediamo in quanto nella nostra subcoscienza ci serviamo del senso del movimento, seguendo inconsciamente nel corpo eterico, nel corpo astrale, una voluta circolare, e poi sollevandola nella nostra conoscenza. E solo quando il circolo, che abbiamo accolto mediante il nostro senso del movimento, è affiorato alla conoscenza, il circolo stesso, riconosciuto, si congiunge col colore percepito (…) La scienza ufficiale contemporanea non arriva fino a un modo di osservazione così sottile da far emergere la differenza tra la visione del colore e la percezione della forma con l’aiuto del senso del movimento, ma confonde tutto ciò in un’unica cosa (…) Ora potete penetrare nel senso profondo del nostro rapporto col mondo. Se non avessimo dodici sensi, dovremmo fissare come ebeti il mondo che ci attornia, senza potere, nella nostra interiorità, sperimentare la facoltà di giudicare. Ma poiché possediamo dodici sensi, abbiamo con ciò un numero abbastanza grande di possibilità di collegare degli elementi separati. Ciò che il senso dell’io sperimenta, possiamo congiungerlo con quello che sperimentano gli altri undici sensi; e ciò vale per ciascuno di essi. Otteniamo così un gran numero di permutazioni, per le connessioni dei sensi. Ma otteniamo inoltre un’altra grande quantità di possibilità a questo riguardo, quando congiungiamo il senso dell’io col senso del pensiero e con quello del linguaggio, e così via. Vediamo così in che maniera misteriosa l’uomo è collegato col mondo. Grazie ai suoi dodici sensi, le cose si scompongono per lui nelle loro parti costitutive, ed egli deve mettersi in grado di ricomporle” (pp. 125-126-127).
In questo momento, ad esempio, i vostri sensi suddividono me, che parlo, in dodici parti diverse: il vostro senso della vista mi sperimenta infatti in un modo, quello del linguaggio in un altro, quelli del pensiero e dell’Io, in altri ancora, e così via.
Nell’impatto con i vostri sensi, vengo quindi inconsciamente “notomizzato” o “analizzato”, e reso, per ciò stesso, da “uno”, “molteplice”.
Dal momento che la vostra coscienza mi sperimenta però come “uno”, s’impone la domanda: se sono i sensi a trasformare, o a “solvere”, l’uno nel molteplice, chi è allora a ri-trasformare, o a “coagulare”, il molteplice nell’uno?
Non crediate che sia il cervello. Ascoltate, infatti, quanto scrive John Eccles (in Come l’Io controlla il suo cervello – ndr): “Finora è stato impossibile sviluppare qualsiasi teoria neurofisiologica che spieghi il modo in cui si possa raggiungere la sintesi di una diversità di eventi cerebrali, affinché vi sia un’esperienza cosciente unificata di carattere globale o di Gestalt. Gli eventi cerebrali rimangono disparati, poiché essi sono essenzialmente i singoli effetti di innumerevoli neuroni che sono organizzati in moduli ed entrano così a far parte degli schemi spazio-temporali di attività. Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento”.
E chi è dunque a operare “la sintesi di una diversità di eventi cerebrali”? La risposta è pronta: l’Io, per mezzo dell’attività giudicante (del pensare).
Il giudicare – come abbiamo visto – sintetizza però concetti, e non percetti, ed è quindi necessario che l’Io trasformi prima questi in quelli. Dei concetti, in cui trasforma in modo immediato i percetti, l’Io stesso diviene poi cosciente allorché prende a servirsi della mediazione animica: allorché li trasferisce, cioè, dal corpo senziente all’anima senziente.
“Già nell’anima senziente – precisa appunto Steiner (in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia – ndr) – vive un pensare, seppure a livello inconscio, che viene alla luce solo nell’anima razionale e diventa consapevole solo nell’anima cosciente”.
Abbiamo così finito l’ottava conferenza. La prossima volta cominceremo la nona.
L.R. – Roma, 13 aprile 2000
ANTROPOLOGIA 24° Incontro
Cominciamo l’ottava conferenza.
Dice Steiner: “Se voi stessi possedete una conoscenza approfondita, e compenetrata di volontà e di sentimento, della natura dell’uomo in formazione, sarete anche in grado di educare e istruire nel modo giusto. Grazie a un istinto pedagogico che si risveglierà in voi, potrete applicare nei singoli campi ciò che, riguardo al fanciullo in via di sviluppo, vi risulterà da questa scienza compenetrata di volontà. Ma tale scienza dev’essere davvero qualcosa di reale, vale a dire di fondato sopra una vera conoscenza del mondo dei fatti” (p. 129).
Dobbiamo fare particolare attenzione a non confondere la conoscenza “compenetrata” di volontà e di sentimento – di cui parla Steiner – con la conoscenza “investita” o “virulentata” dalla volontà e dal sentimento: a non confondere, cioè, il pensiero reale, e per ciò stesso intrinsecamente “forte”, con il pensiero astratto, e per ciò stesso “debole”, reso estrinsecamente forte da pulsioni istintive o emotive. La forza del primo è infatti quella del sentire e del volere interni al pensare, mentre la forza del secondo è quella del sentire o del volere esterni al pensare, e quindi la forza (apparente e ingannevole) dell’assolutismo, del dogmatismo o del fanatismo.
Afferma Steiner che la conoscenza approfondita “della natura dell’uomo in formazione” è in grado di risvegliare in noi un “istinto pedagogico”.
Nessuno, infatti, può più ormai contare su quell’”istinto pedagogico” cui ricorrevano un tempo gli uomini, e cui ricorrono tuttora gli animali.
Ciò che non dà più la natura può però tornare a darlo lo spirito. Com’è possibile, infatti, un’immediatezza (incosciente) della natura, così è possibile un’immediatezza (cosciente) dello spirito (che sta, per così dire, un’”ottava sopra”). Non ci si può però elevare dall’una all’altra, se non si affronta e supera, anzitutto, la prova della mediazione neuro-sensoriale.
A tal fine, oggi studiamo, pensiamo, meditiamo e pratichiamo esercizi interiori. Verrà un giorno, però, in cui tutto questo non sarà più necessario, poiché i nostri sforzi si saranno convertiti (“entrandoci nel sangue”) in “istinto”: in un istinto, se si vuole, “acquisito”, e non più “naturale”.
Un insegnante in cui abbia cominciato a risvegliarsi (almeno un poco) tale forza, saprà quasi sempre cosa fare, perché gli verrà suggerito (ispirato) dall’istinto dello spirito o, per meglio dire, dallo spirito quale istinto.
Dice Steiner: “Sappiamo che il periodo interessante l’educazione e l’istruzione nel loro complesso, è quello che racchiude i due primi decenni della vita. Sappiamo inoltre che anche la vita complessiva del fanciullo, riguardante questi due primi decenni, è tripartita. Fino alla seconda dentizione, il fanciullo ha un carattere ben determinato, che si esprime specialmente nel fatto di essere un individuo imitatore, di voler imitare tutto quanto vede nell’ambiente che lo attornia. Dal settimo anno fino alla pubertà, egli vuole invece accogliere sulla base dell’autorità di persone a lui maggiori tutto quanto ha da sapere, sentire e volere. E solo con la pubertà l’uomo comincia ad anelare a potersi mettere in rapporto col mondo esterno attraverso al giudizio proprio. Perciò dobbiamo badare che, quando abbiamo davanti a noi dei ragazzi nell’età scolastica, dobbiamo sviluppare in loro quell’uomo che, dal più profondo essere della loro stessa natura, richiede un’autorità che lo guidi. Educheremo male se non siamo in grado di esercitare un’autorità rispetto ai fanciulli di questa età” (pp. 129-130).
Abbiamo già detto, una sera, che l’autorità di cui parla Steiner va intesa come “autorevolezza”, e non come “autoritarismo” (cfr. 16° incontro), tant’è che sono proprio gli insegnanti privi della prima a ripiegare spesso sul secondo (o, per converso, sul “permissivismo”); e abbiamo anche detto che costituisce un reale peccato di “omissione” l’abbandonare a se stessi i “ragazzi nell’età scolastica”, mancando così di “sviluppare in loro quell’uomo che, dal più profondo essere della loro stessa natura, richiede un’autorità che lo guidi”.
Andiamo quindi avanti.
Dice Steiner: “L’uomo, quale essere terreno, ha il compito, tra la nascita e la morte, di compenetrare a poco a poco con la logica, con tutto ciò che lo rende capace di pensare logicamente, ciò che da un lato si estrinseca come pensare conoscitivo. Ma voi, come maestri ed educatori, dovrete tenere nello sfondo la logica che possedete. Ché, naturalmente, la logica è qualcosa di specificamente scientifico, e al bambino la si deve apportare soltanto attraverso il proprio comportamento generale. Ma, come insegnante, si deve pure avere in sé l’essenziale della logica” (p. 130).
“L’essenziale della logica” è il Logos. Ricordate, infatti, quante volte abbiamo detto che non solo esistono la logica dello spazio, la logica del tempo e la logica della qualità, ma che esiste pure la “logica delle logiche”, vale a dire il Logos?
Vediamo dunque su quali elementi si basano tali logiche.
Dice Steiner: “In ogni attività logica, vale a dire pensante e conoscitiva, abbiamo sempre tre elementi. Prima di tutto abbiamo continuamente ciò che denominiamo “conclusione” (…) Questa attività del concludere è la più cosciente dell’uomo; l’uomo non potrebbe esprimersi mediante il linguaggio se non attraverso continue conclusioni; non capirebbe ciò che altri gli dice se non potesse continuamente accogliere in sé delle conclusioni (…) La prima cosa che eseguiamo è una conclusione, la seconda è un giudizio, l’ultima a cui perveniamo nella vita è un concetto. Naturalmente noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività, ma se non la compissimo, non condurremmo una vita cosciente atta a farci intendere, attraverso il linguaggio, con altri esseri umani” (pp. 130-131).
Per ben intendere questo passo, dobbiamo tenere presente:
1) che al posto di “conclusione”, possiamo mettere “rappresentazione”. Steiner usa infatti il primo di questi termini, perché ha in mente – come vedremo tra poco – il “sillogismo” (“Tutti gli uomini sono mortali; Caio è un uomo; dunque Caio è mortale”), che è costituito appunto da una “conclusione” (“Caio è mortale”), da una “premessa minore” (“Caio è un uomo”) e da una “premessa maggiore” (“Tutti gli uomini sono mortali”).
La “premessa minore” e la “premessa maggiore” sono dei giudizi; il giudizio è un rapporto tra concetti. Si formula infatti un giudizio tutte le volte in cui si mettono in rapporto tra loro dei concetti, mentre si formula un sillogismo (quale archetipo, per così dire, del “ragionamento”) tutte le volte in cui si mettono in rapporto tra loro dei giudizi.
Tanto la conclusione che la rappresentazione sono perciò frutto del giudicare; tanto è vero che Hegel asserisce – come abbiamo già ricordato una sera – che “ogni cosa è un sillogismo”.
“Questa attività del concludere – afferma del resto Steiner – è la più cosciente dell’uomo”; anche per questo aspetto, dunque, l’attività del concludere equivale a quella del rappresentare;
2) che una cosa è l’inconscio processo creativo che, muovendo dall’Io, discende prima ai concetti, poi ai giudizi, e infine alla cosciente conclusione o rappresentazione, altra il cosciente processo conoscitivo che, muovendo all’inverso dalla conclusione o rappresentazione, risale prima ai giudizi, poi ai concetti, e infine all’Io.
Quando Steiner afferma che “noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività”, dobbiamo pertanto pensare al processo “creativo”, mentre quando dice che “la prima cosa che eseguiamo è una conclusione”, che “la seconda è un giudizio”, e che “l’ultima a cui perveniamo nella vita è un concetto”, dobbiamo pensare al processo “conoscitivo”.
Dice Steiner: “Se consultate i testi di logica, specialmente quelli un po’ antichi, troverete citato il sillogismo divenuto celebre: “Tutti gli uomini sono mortali: Caio è un uomo, dunque Caio è mortale”. Caio è la più famosa delle personalità logiche. Ebbene, questa separazione dei tre giudizi “tutti gli uomini sono mortali”, “Caio è un uomo”, “dunque Caio è mortale”, avviene in realtà solo nell’insegnamento della logica. Nella vita i tre giudizi s’intessono l’uno nell’altro, sono una cosa sola, perché la vita si svolge continuamente in un pensare conoscitivo” (p. 132).
Un conto, infatti, è l’uso naturale e spontaneo della logica, altro lo sforzo di studiare e analizzare la logica in modo “specificamente scientifico”, nell’intento – come abbiamo appena detto – di portare alla luce tutto ciò che presuppongono o implicano le ordinarie conclusioni o rappresentazioni.
Occorre sottolineare, tuttavia, che studiare e analizzare la logica in modo “specificamente scientifico” non significa ancora “sperimentarla” in modo “scientifico-spirituale”. Che cosa fa infatti la coscienza ordinaria allorché conduce tale analisi? E’ presto detto: si “rappresenta” (astrattamente) anche i giudizi e i concetti; ne prende cioè coscienza (riflessa) senza salire affatto di livello, e senza perciò penetrare in quel mondo subcosciente o sognante in cui si svolge il giudicare, né in quello incosciente o dormiente in cui sono i concetti.
Osserva giusto Hegel (nella Scienza della logica): “Non è colpa dell’oggetto della logica, se questa par vuota, ma solo della maniera come quell’oggetto viene inteso”.
Dice Steiner: “La conclusione può vivere solamente nello spirito vivente umano, soltanto qui ha una vita sana, cioè solamente dove si svolge nella vita pienamente sveglia. Ciò è molto importante per l’insegnamento (…) Voi rovinate l’anima del fanciullo quando lavorate in modo che alla memoria vengano affidate conclusioni belle e fatte (…) Se tali conclusioni già fatte (quale risultato dell’istruzione previamente ricevuta, in famiglia o in altre scuole – nda) sono radicate troppo fortemente nelle anime dei fanciulli, lasciamole piuttosto giacere laggiù, e cerchiamo di far loro tirare delle conclusioni riguardo alla vita presente. Anche il giudizio si sviluppa, naturalmente nella vita pienamente sveglia. Ma il giudizio può già discendere nei sostrati dell’anima umana, là dove questa sogna. La conclusione non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna, solo il giudizio può farlo. Dunque, ogni giudizio che noi ci formiamo sul mondo, scende nelle profondità dell’anima sognante. Ma che cos’è quest’anima che sogna? Come abbiamo visto, essa è piuttosto affine al sentimento. Se dunque nella vita formuliamo dei giudizi e poi, distaccandoci da questa formulazione, proseguiamo a vivere, portiamo sì quei giudizi con noi attraverso il mondo, ma li portiamo entro il sentimento (…) Secondo il modo in cui insegnerete ai fanciulli a giudicare, formerete le loro abitudini psichiche. Di questo dovete essere ben coscienti. Infatti nella vita l’espressione del giudizio è la frase, e con ogni frase che pronunciate davanti a un fanciullo voi contribuite a portare un atomo alle sue abitudini animiche. Perciò il maestro, che già possiede l’autorità, dev’essere sempre cosciente che ciò che egli dice va ad imprimersi nelle abitudini psichiche dei bambini” (pp. 132-133).
Abbiamo detto e ripetuto che una cosa è la morta rappresentazione cosciente, altra la viva immagine pre-cosciente. Questa scaturisce infatti direttamente dal giudizio, mentre quella ne scaturisce indirettamente, poiché è frutto del rispecchiarsi dell’immagine (pre-cosciente) nello specchio cerebrale.
Dire – come fa Steiner – che “la conclusione non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna”, e che “solo il giudizio può farlo”, è come dire, perciò, che la rappresentazione “non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna”, e che “solo l’immagine può farlo”, in quanto questa, essendo frutto diretto del giudicare, è in rapporto altrettanto diretto col sentimento.
Evitare d’inculcare nella memoria del fanciullo “conclusioni belle e fatte”, vuol dire dunque evitare d’imbottirlo di “rappresentazioni definite” o, per l’appunto, di “definizioni”.
Afferma sempre Steiner che l’attività della conclusione o della rappresentazione è “sana” soltanto quando “si svolge nella vita pienamente sveglia”. E’ nel corso della veglia e in virtù di tale attività, che ci è dato infatti conoscere quanto nel mondo, al pari delle conclusioni o rappresentazioni, è privo di vita, e quindi statico o immobile.
I giudizi (le immagini pre-coscienti), in quanto vivi e mobili, possono dunque modificarsi e accompagnare così in modo fluido la crescita animica del fanciullo, mentre le conclusioni (le rappresentazioni) – come dirà tra breve Steiner – precipitano nella sua anima come “pietre” o “calcoli”, ingenerandovi una sorta di “litiasi”.
Inutile aggiungere che la rappresentazione (la conclusione) in tanto non dovrebbe mai scendere, regredendo, dove l’anima “sogna”, in quanto dovrebbe anzi salire, progredendo, dove l’anima “immagina”: dove vive, ossia, la coscienza immaginativa.
Dice Steiner: “Passiamo ora dal giudizio al concetto; constateremo che i concetti che formiamo discendono nel più profondo dell’essere umano, discendono (se consideriamo la cosa dal punto di vista dello spirito) fino nell’anima dormiente, quella cioè che continuamente lavora alla formazione del corpo. L’anima che veglia non lavora intorno al corpo; l’anima che sogna vi lavora un po’ e dà origine a quello che sta alla base dei nostri gesti abituali. Ma l’anima che dorme agisce fin dentro le forme del corpo (…) I giudizi possono soltanto vivere nella vita di sogno semicosciente; soltanto le conclusioni possono dominare nella vita di veglia pienamente cosciente. Questo significa che bisogna far grande attenzione a che tutto quello che si riferisce alle conclusioni sia ben discusso coi fanciulli; non si devono far loro sempre assimilare delle conclusioni già formate, ma solo ciò che matura poi in concetti. Ma a questo scopo, che cosa è necessario? Immaginate di formare dei concetti, ma dei concetti morti. Voi inoculate negli uomini dei cadaveri concettuali, fin dentro il loro corpo, quando date loro dei concetti morti. Come dev’essere dunque il concetto, che trasmettiamo agli uomini? Dev’essere vivente se si vuole che l’uomo possa vivere con esso. Se inoculerete nel bambino di nove o dieci anni dei concetti in modo che l’uomo a trenta o quarant’anni li possegga ancora nell’identico modo, gli inoculate dei cadaveri concettuali, poiché i concetti non si sviluppano anch’essi con l’uomo mentre si sviluppa. Dovete dare al bambino dei concetti tali che possano evolversi nel corso ulteriore della vita” (pp. 133-134-135-136).
Abbiamo visto che l’esperienza viva e reale dell’attività (pre-cosciente) dell’immaginare, di quella (subcosciente) del giudicare e della realtà (incosciente) dei concetti è cosa ben diversa dalle astratte rappresentazioni che, dell’immaginare, del giudicare e dei concetti, normalmente ci facciamo. Com’è impossibile, infatti, fotografare o dipingere l’acqua che scorre o la pioggia che cade senza per questo fermare o irrigidire il loro movimento, così è impossibile rappresentarsi l’immaginare o il giudicare senza votarli alla stessa fine. A dimostrare poi la fine cui va incontro, in tal modo, la realtà dei concetti, basta il “nominalismo”: ovvero, l’ordinaria convinzione che i concetti siano solo dei “nomi”.
Inoculare nel bambino dei concetti morti vuol dire dunque inoculargli (come fanno i “catechismi” laici o religiosi) delle rappresentazioni “belle e fatte”, e quindi, in sostanza, dei “pre-giudizi”: ossia dei giudizi che, radicandosi e fissandosi precocemente nell’anima, finiscono col paralizzarne l’empito conoscitivo, e quindi la sua stessa capacità di crescere.
Occorre insomma offrire al bambino dei “pensati” che siano “cotti – per così dire – al punto giusto”, in modo tale da non sclerotizzare o rammollire il pensare: lo sclerotizzano infatti i pensieri “crudi” (di cui è ghiotto Arimane) e lo rammolliscono invece quelli “scotti” (di cui è ghiotto Lucifero).
Fatto sta che una delle principali differenze tra il pensiero che usiamo chiamare “vivente” e quello che usiamo chiamare invece “riflesso” (o, con Scaligero, “dialettico”), risiede appunto nel fatto che il primo cresce con noi, mentre il secondo, non essendo in grado di farlo, crea una discrasia, a dir poco imbarazzante, tra la nostra età anagrafica e quella animica.
Ciò dipende comunque dal fatto che l’Io, non avendo forma, può prendere tutte le forme, e quindi “tra(n)s-formarsi”, mentre l’ego, in quanto identificato con la forma assegnatagli dalla natura (dal karma), paventa il mutamento o il divenire allo stesso modo in cui paventa il perire.
L.R. – Roma, 20 aprile 2000
ANTROPOLOGIA 25° Incontro
Abbiamo concluso il nostro ultimo incontro dicendo che bisogna nutrire l’anima dei fanciulli con dei concetti viventi, e non con dei concetti morti.
Riprendiamo quindi l’argomento, proseguendo la lettura.
Dice Steiner: “L’educatore deve essere attento a trasmettere al bambino concetti in modo che l’uomo non li conservi più tardi tali e quali, ma che invece possano trasformarsi. Se farete ciò inoculerete nel bambino dei concetti viventi. Gli darete invece dei concetti morti quando gli presenterete continuamente delle definizioni, quando gli direte: “un leone è… ecc.”, e gli farete imparare questo a memoria (…) Le eccessive definizioni sono la morte dell’insegnamento vivente. Che cosa dunque dobbiamo fare? Nell’insegnamento non dobbiamo definire, ma dobbiamo cercare di caratterizzare, e faremo questo se presenteremo le cose dai punti di vista più diversi possibili” (p. 136).
Per capire quanto afferma qui Steiner, occorre avere ben chiara la differenza tra il concetto “vivente” e il concetto “morto”.
Un concetto “vive” finché è un “concetto”, mentre “muore” quando si trasforma in una determinata (definita) “rappresentazione”.
Caratterizzare, presentando “le cose dai punti di vista più diversi possibili”, vuol dire perciò caratterizzare un concetto (che non ha forma), presentandolo attraverso il maggior numero possibile di rappresentazioni (che hanno forma).
Abbiamo detto, a suo tempo, che l’Io va immaginato non come un “punto” (fermo), bensì come un “seme” o un “germe”. Ebbene, ove immaginassimo allo stesso modo il concetto, subito realizzeremmo che fornire al bambino dei concetti che, quali semi, germi o realtà in divenire (quali future rappresentazioni), sono in grado di svilupparsi con lui, è cosa ben diversa dal fornirgli delle rappresentazioni che, quali realtà ormai divenute (quali passati concetti), non sono in grado di fare altrettanto.
Risulterà però difficile capirlo, se non ci sarà chiaro – come insegna La filosofia della libertà – che è la rappresentazione a nascere dal concetto, e non viceversa (come sostengono i realisti ingenui o, più in generale, i nominalisti).
Prendiamo, ad esempio, il concetto di “amore”. Ce lo possiamo rappresentare in molti modi: seguendo Platone, ad esempio, come érōs, come philía o come agápē; oppure, seguendo Denis de Rougemont, come “amore-passione” o come “amore-azione” (cfr. L’amore e l’Occidente – Rizzoli, Milano 1998 – ndr).
Come si vede, benché il concetto sia sempre lo stesso, è possibile rappresentarselo diversamente e, in specie, in modo più o meno maturo: più o meno aderente, cioè, alla realtà qualitativa o essenziale del concetto (tanto che si potrebbe dire: “Dimmi come te lo rappresenti, e ti dirò chi sei”). Ma è forse possibile – potremmo domandarci – rappresentarsi “perfettamente” un concetto? Certo che lo è.
Vedete, noi distinguiamo la rappresentazione dall’immaginazione perché la prima è un’immagine vincolata alla percezione sensibile, mentre la seconda ne è libera. Seppure a livelli diversi (l’uno fisico e l’altro eterico), ambedue rendono dunque “visibile” il concetto (che le trascende).
Ebbene, come caratterizza Scaligero la “Iside-Sophia”? Come appunto la “trascendenza visibile” (cfr. Iside-Sophia. La dea ignota – Mediterranee, Roma 1980). Il che sta a significare che c’è un livello di coscienza (“sofianico”) al quale i concetti si rivelano per quello che sono, e ch’è possibile raggiungere questo livello solare e “trasparente” (vergine o immacolato) sviluppando quello lunare e “opaco” della rappresentazione.
L’evolversi del rappresentare, ossia la sua graduale trasformazione nell’immaginare, nell’ispirare e nell’intuire, coincide quindi con l’evolversi della coscienza, così come l’evolversi della coscienza coincide, a sua volta, con l’evolversi dell’Io.
Non dimentichiamo che i concetti sono “mondo” al pari dei percetti: che fanno cioè parte della realtà. All’uomo (checché ne pensi Kant) non appartiene pertanto il concetto, bensì la coscienza del concetto, che si dà appunto, ordinariamente, in forma di rappresentazione.
Ma torniamo a noi. “Nell’insegnamento – abbiamo letto – non dobbiamo definire, ma dobbiamo cercare di caratterizzare, e faremo questo se presenteremo le cose dai punti di vista più diversi possibili”. Ciò che conta, infatti, è presentare la realtà come un insieme di verità che ci si possono gradualmente rivelare, crescendo e maturando.
Le età della vita – afferma Steiner – sono “organi di conoscenza”. Quanto è possibile capire magari a quarant’anni non lo si può quindi capire a venti, né tantomeno a dieci.
Per questo, l’insegnamento dovrebbe essere non tanto “attivo”, quanto piuttosto “attivante” o stimolante.
Dice Steiner: “Dovrete anche pensare che bisogna dare al bambino qualcosa che gli resti per tutta la vita. Non dovrete dargli, sulle particolarità della vita e del mondo, dei concetti morti, che non devono permanere in lui; dovrete dargli dei concetti viventi che si sviluppino organicamente insieme con lui. Ma per ciò dovrete mettere tutto in rapporto con l’uomo. In ultima analisi, nella concezione del bambino tutto dovrà confluire nell’idea dell’uomo. E questa idea può rimanere. Tutto ciò che date al bambino quando gli raccontate una favola e l’applicate all’uomo, quando nella storia naturale mettete in relazione la seppia e il topo con l’uomo (cfr. seconda e terza parte dell’Arte dell’educazione – nda), quando, a proposito del telegrafo Morse, suscitate un sentimento del miracolo che si compie per mezzo della corrente sotterranea, tutte queste sono cose che uniscono l’uomo con le singole particolarità dell’intero mondo. Questo è qualcosa che può rimanere. Ma il concetto di uomo si costruisce soltanto a poco a poco; non si può fornire al bambino un concetto già pronto dell’essere umano. Se invece lo si costruisce progressivamente, esso può permanere. La cosa più bella che si possa dare al bambino nella scuola e che lo accompagni nella vita è un’idea dell’uomo; e che sia il più possibile ricca di aspetti e di contenuto” (p. 137).
Abbiamo appena detto che ciò che conta è presentare la realtà come un insieme di verità. Possiamo adesso aggiungere che l’uomo è per l’appunto un tale “insieme” di verità.
Prendiamo ad esempio il corpo astrale. Si tratta in un certo senso di uno “zoo”, popolato dalle qualità di tutte le specie animali. Ben lo sapevano, ad esempio, Esopo (VI sec. a.C.) e Fedro (20 a.C.?- 50 a.C.?) che, nelle loro favole, hanno parlato degli uomini, servendosi degli animali; e lo sanno, in qualche modo, anche gli psicoterapeuti, che sono spesso alle prese con gli animali che appaiono nei sogni dei loro pazienti.
Possiamo comunque immaginare come queste ultime affermazioni di Steiner si prestino a essere tacciate di “antropomorfismo”. Ma sarebbe un’ingenuità, poiché tutto ciò che fa l’uomo non può essere che antropomorfico, così come tutto ciò che fanno, che so, i galli o i topi non può essere che “gallomorfico” o “topomorfico” (osserva giusto Goethe: “L’uomo non comprende mai quanto sia antropomorfico”). O forse qualcuno s’illude che definendo l’uomo – come fa oggi la scienza – uno “psicozoo” o una “macchina” si sfugga all’antropomorfismo? Ma questa è appunto un’illusione, dal momento che a definirlo uno “psicozoo” o una “macchina” sono quegli esseri umani che, anziché pensarlo con il loro Io (umano), lo pensano rispettivamente (e senza rendersene ovviamente conto) per mezzo del loro corpo astrale (animale) o per mezzo del loro corpo fisico (minerale).
Scrive, al riguardo, Heschel: “L’uomo è un essere specifico che vuole comprendere la sua unicità: non la sua animalità, ma la sua umanità (non il suo corpo astrale, ma il suo Io – nda) (…) Siamo in grado di cogliere la pura animalità, non mescolata con l’umanità? L’animalità dell’essere umano è identica a quella dell’animale? È forse legittimo definire la scimmia come un essere umano privo della facoltà della ragione e dell’arte di fabbricare utensili? (…) Oltre alla sua inadeguatezza descrittiva, il significato suggestivo ed evocativo del termine “animale pensante” distorce non meno di quanto riesca a chiarire. Ogni generazione formula la definizione di uomo che si merita (se ne fa la rappresentazione che si merita – nda). Tuttavia mi sembra che la nostra generazione abbia avuto una sorte peggiore di quanto meritasse. L’accettare una definizione è il modo con cui l’uomo identifica se stesso, scrutando in uno specchio il proprio volto. La situazione interiore dell’uomo contemporaneo esige che il modo plausibile di identificare se stesso consista nel considerarsi una macchina. “La macchina umana” è oggi una descrizione (arimanica – nda) dell’uomo più accettabile di quanto non lo sia quella (luciferica – nda) dell’animale umano” (cfr. 3° incontro – ndr).
Fatto sta che, convivendo nell’uomo la realtà umana (l’Io), la realtà animale (il corpo astrale), la realtà vegetale (il corpo eterico) e quella minerale (il corpo fisico), può essere propriamente “umana” solo quella scienza che sia fatta consapevolmente dall’Io, mentre sono di fatto non-umane, in-umane o dis-umane quelle fatte inconsapevolmente dal corpo astrale, dal corpo eterico e dal corpo fisico o, per essere più precisi, da un Io identificato (inconsciamente) con uno di questi corpi.
Ma riprendiamo il nostro passo. Per quale ragione, trattando di storia naturale, dovremmo – come dice Steiner – “mettere in relazione la seppia e il topo con l’uomo”? Per la semplice ragione che la seppia e il topo (al pari di tutti gli altri animali) sono parti dell’uomo, e ch’è impossibile perciò capire che cosa siano davvero quelli se non si capisce questo.
Afferma Steiner che “la cosa più bella che si possa dare al bambino nella scuola e che lo accompagni nella vita è un’idea dell’uomo”.
Potremmo anche dire, però, che la “cosa più bella” che ci dà la scienza dello spirito è l’opportunità, invero straordinaria, di conoscere il mondo conoscendo l’uomo, e di conoscere l’uomo conoscendo il mondo. Le scienze naturali ci offrono infatti (arimanicamente) una conoscenza del mondo che non è, insieme, una conoscenza dell’uomo, mentre le cosiddette scienze umane ci offrono (lucifericamente) una conoscenza dell’uomo che non è, insieme, una conoscenza del mondo.
Dice Steiner: “Ciò che nell’uomo è vivo ha la tendenza a trasformarsi anche nella vita in modo realmente vivente. Se voi farete sì che il bambino abbia un concetto vivo della venerazione, del rispetto per tutto ciò che in senso lato possiamo comprendere sotto il nome di “stato d’animo di preghiera”, una simile rappresentazione resterà qualcosa di vivente fin nella più tarda età e si trasformerà, in vecchiaia, nella facoltà di benedire, di distribuire agli altri i risultati di quello stato d’animo di preghiera. L’ho espresso un giorno dicendo che nessun vecchio potrà veramente benedire in modo buono, se non avrà pregato in modo giusto da bambino. Se il bambino avrà pregato in modo giusto, potrà poi, da vecchio, benedire col massimo di forza ed efficacia” (p. 138).
Risposta a una domanda
Finché si sarà convinti, come oggi, che l’uomo è un “animale intelligente” ci si dovrà rassegnare a vivere in una società “animalesco-intelligente”: vale a dire, in una società in cui si sviluppano sempre più, da un lato, l’intelligenza (più o meno artificiale) e, dall’altro, la bestialità. Ho detto a bella posta “bestialità”, perché un conto è l’animale fuori dell’uomo, altro l’animale nell’uomo. Il primo è infatti innocente (come ha cercato di dimostrare, a suo modo, Konrad Lorenz ne Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell’aggressività – Adelphi, Milano 1963), mentre il secondo è per l’appunto bestiale.
Ricorda che cosa si dice infatti, in Marco? “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”.
Afferma Heschel che “l’enigma dell’essere umano non consiste in ciò che egli è, ma in ciò che è in grado di essere”, poiché “quel che è palese nell’uomo non è che una minima parte di quanto è in lui latente”. È vero: l’ego, “che è palese nell’uomo”, non è “che una minima parte” dell’Io, che “è in lui latente”; ciò che l’uomo “è in grado di essere” altro non è, però, che “ciò che egli è” (ricorda Nietzsche? “Come si diventa ciò che si è”). La qualità del suo esistere (individuale e collettivo) non dipende perciò da quella del suo essere (come in tutti gli altri esseri della natura), ma dalla qualità (dal livello o dal grado) della coscienza del suo essere, ossia della sua autocoscienza.
Torniamo a noi. Scrive ancora Heschel che “il sacro può essere percepito solo con il senso del sacro”, e che “sentire il sacro è sentire che cosa è caro a Dio”.
E che cosa è più caro a Dio? Senza dubbio l’uomo; ma l’uomo, oggi, pur essendo sempre caro a Dio, non è più caro all’uomo.
“L’uomo – osserva caroivello uestorappresenti, e ti dirò chi sei”noini cui viene costantemente insegnato non valga”ifettora per nulla il giusto eappunto Heschel – ha ben pochi amici in questo mondo, di certo ben pochi nella letteratura contemporanea che si occupa di lui. Forse il Signore del cielo è l’ultimo suo amico sulla terra. Non sarà forse possibile che la furia a cui assistiamo derivi dal fatto di essere insidiati da un soverchiante autodisprezzo, da un superiore senso d’inferiorità? La tragedia di questa strisciante autodenigrazione consiste nel fatto che essa alimenta il dubbio se l’uomo meriti di essere salvato. La massiccia diffamazione dell’uomo può significare la condanna di noi tutti. L’annullamento morale conduce allo sterminio fisico (…) Una delle prospettive più terrificanti è che la nostra terra possa esser popolata da esseri che, pur appartenendo secondo la biologia al genere dell’homo sapiens, siano privi di quelle qualità che differenziano spiritualmente l’uomo dalle altre creature organiche”.
Siamo naturalmente d’accordo con Heschel, anche se questi, quale seguace dell’Antico Testamento, ignora che, in virtù dell’incarnazione del Logos, il “Signore del cielo” (l’ultimo amico dell’uomo) è ormai Signore anche della Terra, così come ignora che gli odierni esseri umani non sono insidiati da una “strisciante autodenigrazione” o da un “soverchiante autodisprezzo”, bensì dalla forza fredda e dis-umana di Arimane.
Ascoltate, al riguardo, quanto scrive Steiner (nelle Massime antroposofiche – ndr): “L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per sé stessa, senza pietà e senza amore (in realtà è Arimane che parla per suo mezzo), una logica in cui non si mostra per nulla il giusto e intimo collegamento dell’anima e del cuore con ciò che l’uomo pensa, dice e fa”.
Ma andiamo avanti. Abbiamo parlato, all’inizio, dell’érōs. Ebbene, non è significativo che tanto l’érōs quanto la venerazione siano in rapporto con Venere? E come mai, allora, ci preoccupiamo (anche troppo) di educare il primo (mediante la famosa “educazione sessuale”), mentre non ci preoccupiamo affatto di educare la seconda, se non affidandone l’onere ai preti?
Un fatto è certo: se le nostre anime fossero meno frigide, già sentiremmo, contemplando la natura, lo “stato d’animo di preghiera” di cui parla Steiner. Al punto che un’anima, cui sia riuscito di conservare e accrescere la propria sensibilità, può sentirsi perfino in difetto di fronte alla silenziosa, casta e umile santità degli esseri naturali.
Ma quante anime riescono a conservare e accrescere quel profondo sentimento religioso che si ha da bambini? Pensate che Vladimir Solov’ev, nel suo Il bene nella natura umana (Paravia, Torino 1925), parla del pudore (o della vergogna) come del sentimento che ci lega a quanto sta “sotto” di noi, della compassione (o della pietà) come del sentimento che ci lega a quanto sta al nostro stesso livello, e della venerazione (o della devozione) come del sentimento che ci lega a quanto sta “sopra” di noi. È bene tenere presente, però, che è il nostro stesso essere (prima ancora di quello divino) a stare “sopra” di noi: che è l’Io, cioè, a stare “al di sopra” dell’ego. Tarpare, in un modo o nell’altro, le ali alla venerazione o alla devozione significa dunque impedire all’uomo di vivere in rapporto non solo con Dio, ma anche, e in primo luogo, con se stesso.
Diceva Goethe: “Perché l’uomo possa compiere tutto ciò che si esige da lui, deve credere di valere più di quanto non valga”; e diceva Marco Aurelio (121-180), come ho altre volte ricordato: “Se l’uomo guardasse sempre in cielo, finirebbe con l’avere le ali”.
Ebbene, che cosa ci si può attendere, allora, da uomini cui viene fatto credere di valere meno di quanto valgono (o poco più di quanto valgono gli scimpanzé), o da uomini cui viene insegnato a guardare sempre in basso?
Dovremmo ben sapere, d’altronde, che se Lucifero è un “mitomane-megalomane”, Arimane è invece, per così dire, un “mitomane-micromane”.
L.R. – Roma, 4 maggio 2000
ANTROPOLOGIA 26° Incontro
Ci siamo lasciati, la volta scorsa, parlando della venerazione. Prima di riprendere la lettura, vorrei in proposito ricordare quest’affermazione di Goethe: “Chi ha scienza e arte, ha pure religione; chi non ha scienza ed arte, abbia almeno religione”.
La verità della scienza e la bellezza (della verità) dell’arte sono già in grado, in effetti, di suscitare un sentimento religioso o – come dice Steiner – uno “stato d’animo di preghiera”.
Che cos’è infatti il vero? Il modo in cui l’”Entità divino-spirituale” (così la chiama Steiner nelle sue Massime) si dà al pensare; e che cos’è il bello? Il modo in cui si dà al sentire; e il buono? Il modo in cui si dà al volere.
E come si dà, questo stesso Essere, all’Io? Come Io (come “Io-sono”), poiché l’Io umano è stato creato “a immagine e somiglianza” dell’Io divino. Come dal seme di un albero si sprigionano la radice, il fusto e le foglie, così dal seme dell’Io si sprigionano dunque il pensare, il sentire e il volere e, per ciò stesso, il vero, il bello e il buono. Dall’essenza si sprigiona cioè l’esistenza: prima quella animica, e poi quella eterico-fisica (o spazio-temporale). Ciò che nell’Io è unità o sintesi, si manifesta quindi nell’anima come armonia: come quell’armonia (delle sfere) che può essere sperimentata – come sappiamo – dalla coscienza ispirativa o dall’udire spirituale.
Oggi, scrive Abraham Joshua Heschel, “colui che volesse scrivere un libro in lode dell’uomo, verrebbe ritenuto un idiota o un bugiardo”.
Noi pure, nel nostro piccolo, rischiamo perciò di essere ritenuti degli idioti o dei bugiardi (in specie dagli odierni “uomini di cultura”). Ci possiamo tuttavia consolare pensando che, in tal caso, verremmo a trovarci in compagnia di un Marsilio Ficino (1453-1499), che parlava dell’uomo come della “copula mundi”, ossia come dell’intermediario tra il divino e il terreno, o di un Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), autore dell’Oratio de hominis dignitate (del Discorso sulla dignità dell’uomo – Guanda, Milano 2003 – ndr).
Ma riprendiamo a leggere.
Dice Steiner: “Quando l’uomo abbandona il mondo animico-spirituale per rivestirsi di un corpo fisico, che cosa vuole egli veramente? Vuole realizzare nel mondo fisico il passato che egli ha vissuto nel mondo spirituale. Prima della seconda dentizione, l’essere umano è ancora in certo modo immerso del tutto nel suo passato. E’ ancora riempito della dedizione che si sviluppa nel mondo spirituale. Perciò egli si dà, si abbandona a quello che lo circonda, imitando gli altri uomini. Qual è dunque l’impulso fondamentale, l’atteggiamento, ancora del tutto incosciente, del bambino, fino al cambiamento dei denti? (…) E’ quello che deriva dalla seguente ipotesi, pure incosciente: l’intero mondo è morale (…) Quel che vi è di grande e di edificante nel contemplare dei bambini è il fatto che i bambini credono nella moralità del mondo, e perciò credono che il mondo dev’essere imitato. Il bambino vive nel passato, ed è un rivelatore del passato prenatale, non del passato fisico, ma di quello animico-spirituale” (pp. 138-139).
Quando recitiamo il Pater noster, diciamo: “Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra…”.
Orbene, nascendo, veniamo da un mondo, quello del “cielo” o del “regno” di Dio, in cui viene appunto “santificato” il Suo nome e “fatta” la Sua volontà, e ci aspettiamo quindi (inconsciamente) che sia così pure “in terra”.
E’ questo il fondamento delle nostre esigenze morali. Allorché aspiriamo, ad esempio, a creare un “mondo migliore”, ad altro non aspiriamo, in realtà, che a vivere “in terra” come si vive, e come noi stessi abbiamo vissuto, “in cielo”.
Tale aspirazione è dunque, in primo luogo, un fatto morale, e quindi un fatto che viene deriso cinicamente da Arimane o reso vago, sognante e utopico da Lucifero (un romanzo di Pier Paolo Pasolini s’intitola, per l’appunto: Il sogno di una cosa).
Dice Steiner: “Superata la seconda dentizione, il fanciullo, fino alla pubertà, vive nel presente e si interessa a ciò che è attuale. Se ne deve continuamente tener conto nell’educazione e nell’insegnamento: lo scolaro vuole vivere continuamente nel presente. Come ci si vive? Si vive nel presente quando si gusta – non in una maniera animale, ma in una maniera umana – il mondo intorno a sé (…) In questo campo i metodi moderni hanno fatto dappertutto buoni progressi, ma vi è in ciò qualcosa di pericoloso, ed è questo: che il principio di fare dell’insegnamento una fonte di gioia e di godimento possa facilmente travisarsi in qualcosa di pedestre. Ciò non deve accadere. Vi si può porre riparo se l’insegnante si sforza continuamente di innalzarsi al di sopra del pedestre. Questo può avvenire soltanto se egli non manca mai di fare del suo insegnamento un’arte veramente vivente. Infatti, quando si vuol godere il mondo – non da animali – si deve partire da una determinata premessa, e cioè che il mondo è bello. E da una premessa incosciente parte il bambino veramente, nel periodo fra il cambiamento dei denti e la pubertà: che egli possa trovare “bello” il mondo (…) Il continuo ricorrere ad esempi e modelli non serve a nulla. Non si tratta di prescrivere al maestro di scegliere in un modo o nell’altro i suoi modelli e i suoi esempi per l’insegnamento visivo; bisogna invece che il maestro curi egli stesso di vivere nell’arte e, in questo modo, faccia sì che le cose di cui parla ai fanciulli divengano per loro gustose” (pp. 139-140).
Immaginiamo un maestro che, dopo aver ascoltato queste parole, si dica tra sé e sé: “Effettivamente, dovrei recarmi più spesso a visitare mostre d’arte e musei, o mettermi a dipingere o scolpire”. Ecco la pedanteria!
Ciò che davvero importa, infatti, è che la gioia di colui che apprende sia la stessa di colui che insegna, e che questa scaturisca sua sponte dallo spirito che anima l’insegnamento.
Non si tratta, perciò, di apprendere una o più arti, bensì d’imparare a pensare “artisticamente” (immaginativamente), in modo tale da poter apprezzare la bellezza della verità (la bellezza senza verità è infatti luciferica, mentre la verità senza bellezza è arimanica).
Che cosa vuol dire, dunque, essere “pedestri” o pedanti? Vuol dire limitarsi ad assommare alla verità senza bellezza (della scienza materialistica), la bellezza senza verità (dell’estetica ordinaria), magari aggiungendovi il bene senza verità e senza bellezza (dell’”imperativo categorico”).
Il giusto cammino deve costituire invece un’anagogia (un innalzamento): prima si deve salire, infatti, dal pensare la verità al sentire la bellezza della verità, e poi si deve salire dal sentire la bellezza della verità al volere la bontà di tale bellezza.
Il bambino fa però questo cammino all’inverso: parte infatti (tra la nascita e i sette anni) dal volere (dal bene), sale poi (tra i sette e i quattordici anni) al sentire (al bello) e arriva infine (tra i quattordici e i ventuno anni) al pensare (al vero): arriva cioè a quel pensare dal quale deve prendere viceversa le mosse (in particolare tra i ventotto e i trentacinque anni) l’adulto.
Che cosa dovrebbe perciò fare l’insegnante? Aiutare il suo allievo, a mo’ di levatrice, a far nascere prima, dal buono, il bello, e poi, dal bello, il vero.
Dice Steiner: “Il primo periodo della vita infantile, fino al cambiamento dei denti, trascorre nell’ipotesi incosciente che il mondo è morale. Il secondo periodo, dal cambiamento dei denti alla pubertà, scorre nella premessa incosciente che il mondo è bello. E solo con la pubertà comincia veramente la disposizione a trovare anche che il mondo è vero. Soltanto allora l’insegnamento può, per questo fatto, cominciare a ricevere un carattere scientifico” (pp. 140-141).
Non è difficile pertanto capire – come abbiamo detto a suo tempo – che quanto più corretto sarà stato, durante la prima metà della vita, il cammino della nostra educazione, tanto meno arduo od ostico risulterà, durante la seconda metà della vita, quello della nostra autoeducazione (sul “sentiero della conoscenza”).
Abbiamo concluso la nona conferenza. Cominciamo subito la decima.
Dice Steiner: “Ora dovremo completare quanto abbiamo detto, cercando in un primo tempo di collegare il punto di vista spirituale, animico e corporeo, in modo da ottenere uno sguardo d’insieme completo sull’uomo, per poter poi passare alla comprensione anche della corporeità esteriore. Per cominciare, richiamiamo alla memoria quello che molte volte abbiamo messo in evidenza, e cioè che l’uomo ha forme diverse nelle tre parti del suo corpo. Abbiamo messo in rilievo (cfr. la seconda parte dell’Arte dell’educazione – ndr) che la forma del capo è essenzialmente sferica, e che, in questa forma sferica, risiede la vera essenza corporea della testa umana. Poi abbiamo rilevato che la parte “petto” dell’uomo è un frammento di sfera, sicché, disegnando schematicamente, diamo al capo una forma sferica, al petto una forma lunata, rendendoci conto che in tale forma lunata è contenuto un frammento, una parte di sfera” (p. 142).
Non possiamo qui prescindere dall’osservare con molta attenzione le due figure che corredano questa conferenza (una a pagina 143; l’altra a pagina 148).
Tali figure, benché “schematiche“, stimolano infatti la nostra immaginazione: ci stimolano cioè a modificare il punto di vista dal quale siamo abituati a osservare le cose: nel caso specifico, lo scheletro umano. Solo contemplandolo e muovendo al contempo il pensiero, è infatti possibile rendersi conto delle relazioni (morfologiche) che vigono tra le sue tre parti. Il fatto, ad esempio, che, le costole, nella parte posteriore del tronco, siano tutte unite alla colonna vertebrale, mentre, in quella anteriore, siano dapprima unite allo sterno, e poi, scendendo, siano invece aperte o dischiuse, non è privo di significato. Che cosa ci ricorda infatti il loro movimento? Non è difficile: quello di una pianta che si apre o dischiude nel fiore.
Ciò che la pianta, aprendosi o dischiudendosi, accoglie dall’alto, l’uomo lo accoglie però dal basso, poiché è una sorta di pianta rovesciata, che ha le radici nella testa, e il fiore nell’addome.
Dice Steiner: “Negli antichi tempi in cui si aveva molto più che non oggi la capacità di percepire le forme, non si aveva torto di parlare del sole in corrispondenza del capo, e di luna in corrispondenza del petto. Quando la luna non è piena, ne vediamo solamente un frammento, e così pure vediamo veramente solo un frammento del “petto” umano. Dunque, la forma fisica della testa umana è qualcosa di relativamente conchiuso; ed è, in certo modo, proprio quello che di sé ci mostra, senza nascondere di sé quasi nulla. La parte “petto” dell’uomo nasconde invece già molto di sé; lascia che rimanga nell’invisibile qualcosa della sua entità (…) La parte “petto” ci mostra, dal lato posteriore, la sua corporeità; dal lato anteriore, trapassa nell’animico. Il capo è tutto corpo; il petto è posteriormente corpo, anteriormente animico” (pp. 142-143).
Quanto la parte “petto” lascia, della sua intera entità, nell’invisibile lo possiamo rendere però “visibile” mediante l’immaginazione. Grazie a questa, infatti, possiamo non solo riconoscere nell’intera entità della parte “petto” la forma della luna piena, ma anche seguire quel movimento che la riduce, per un verso, a falce visibile (a corpo) e, per l’altro, a luna invisibile (ad anima).
Dice Steiner: “Dunque noi portiamo un vero corpo su di noi solo in quanto portiamo la nostra testa in riposo sulle spalle. Abbiamo corpo ed anima in quanto separiamo, per così dire, il nostro petto fisico dall’insieme della parte “petto”, e lo facciamo pervadere dal lavoro animico. Ora, in queste due parti dell’uomo, e specialmente per l’osservazione esteriore, sono inseriti, nel tronco, gli arti. La terza parte dell’uomo è infatti il sistema degli arti. Come possiamo veramente comprendere quest’ultimo? Possiamo comprenderlo se riconosciamo che, della forma sferica, sono residuate altre parti oltre quella del tronco. Nel tronco è residuato un frammento della periferia, negli arti è rimasto piuttosto una parte dell’interno dei raggi della sfera, sicché le parti interne della sfera sono attaccate come arti” (pp. 143-144).
Per capire queste ultime affermazioni, dobbiamo di nuovo ricorrere, ma con forza ancora maggiore, all’immaginazione.
Abbiamo detto, poco fa, che le figure che corredano questa conferenza ci sollecitano a modificare il punto di vista dal quale siamo soliti osservare le cose. Ebbene, come siamo soliti osservare le nostre braccia e le nostre gambe? E’ facile: come dei prolungamenti (dei tentacoli) che partono dal nostro corpo per spingersi verso il mondo. Ma per quale ragione, allora, Steiner afferma che gli arti “sono inseriti” nel tronco, quasi che si trattasse di realtà che partono viceversa dal mondo per “inserirsi” nel nostro corpo? Per la semplice ragione che un conto è osservare le cose dal punto di vista umano, altro osservarle dal punto di vista cosmico.
Può però adottare il secondo di questi due punti di vista solo chi si sia appropriato di quella logica della qualità che governa – come abbiamo ripetutamente detto – l’enantiodromia: ovvero, il rovesciamento nell’opposto. Cosa invero non facile (Steiner stesso dice: “Si arriva così a un capitolo molto difficile, forse il più difficile di tutti quelli che dobbiamo affrontare in queste conferenze pedagogiche” – p. 145).
Prendiamo ad esempio un guanto. Che cosa succede quando lo rovesciamo? E’ ovvio: che la parte interna diventa esterna, e viceversa. Con un guanto, o con qualunque altra realtà inorganica, la cosa finisce qui. Con la realtà organica è però diverso. Rovesciandola, infatti, non si ha solo il capovolgimento della forma, ma anche quello delle forze (morfogenetiche) che la creano; e queste, una volta passate dall’interno all’esterno, possono creare forme anche del tutto diverse.
“E’ relativamente facile – osserva appunto Steiner – riconoscere che le ossa del cranio procedono attraverso una metamorfosi, dalle vertebre. Ma diventa molto difficile comprendere come anche le ossa degli arti, e già quelle degli arti della testa (le due mascelle) siano la trasformazione, la metamorfosi delle vertebre (Goethe ha tentato di spiegarlo, ma ancora in modo esteriore)” (p. 146).
Cos’altro accade, infatti, quando le nostre ossa lunghe (il femore, la tibia. l’omero, ecc., o le nostre due mascelle) si metamorfosano, rovesciandosi, in ossa craniche? Ce lo spiega Steiner: “Disegnerò schematicamente una forma qualsiasi che prima sia bianca fuori e rossa dentro. La rovesciamo come un guanto, così che ora sia rossa all’esterno e bianca all’interno. Immaginiamo ora che la forma abbia forze interiori e che non possa semplicemente essere rovesciata come un guanto (che, se pur rovesciato, conserva la propria forma). Immaginiamo invece che la forma abbia forze diverse all’interno e all’esterno. Così vedremo che, rovesciandola, si produrrà una forma tutta diversa (…) Quando il rosso era all’interno non poteva sviluppare la propria forza; ora lo può, se è all’esterno. Lo stesso vale per il bianco, che riesce così a sviluppare la propria forza” (la citazione è tratta da una conferenza tenuta a Stoccarda il 1° gennaio 1921, ora pubblicata in Il rapporto delle diverse scienze con l’Astronomia – Antroposofica, Milano 2007 – ndr).
Dice Steiner: “Le ossa delle membra non sono dunque soltanto delle ossa craniche trasformate, ma anche rovesciate. Da che cosa dipende ciò? Dipende dal fatto che la testa ha il suo punto centrale nel suo interno. Invece il petto non ha il suo punto centrale nel mezzo della sfera, lo ha molto lontano (…) E il sistema delle membra, dove ha il suo punto centrale? Qui arriviamo a una seconda difficoltà. Il sistema delle membra ha il suo punto centrale su tutta la periferia. Il centro del sistema delle membra è una sfera, dunque proprio il contrario di un punto: una superficie sferica. Il punto centrale è propriamente dappertutto, perciò potete girarvi in ogni senso, e i raggi vi vengono incontro da tutte le direzioni e si riuniscono in voi. Quel che si trova nella testa, parte dalla testa. Quello che passa attraverso le membra si riunisce nell’uomo. Per questo, anche nelle altre conferenze (cfr. seconda parte dell’Arte dell’educazione – ndr) ho asserito che occorre pensare le membra come inserite nell’organismo umano. Noi siamo veramente un mondo intero; solo che quello che dall’esterno vuol penetrare entro di noi, finisce per condensarsi e diventare visibile. Un’infima parte di ciò che noi siamo diventa visibile nelle nostre membra, le quali rappresentano alcunché di corporeo, che però è solo una minima parte di ciò che si trova nel sistema delle membra dell’uomo. In questo sistema vi sono corpo, anima e spirito. Il corpo vi è solo accennato; ma vi è anche la parte animica, e vi è l’elemento spirituale che, in fondo, abbraccia tutto il cosmo” (pp. 146-147).
Essendo ormai tardi, ci occuperemo di questo passo la prossima volta. Nel frattempo, potremmo però prepararci, riflettendo, sia sul fatto che la struttura della testa è sferica, mentre quella degli arti non solo è raggiata, ma anche costituita da ossa (più o meno lunghe) che diminuiscono di numero man mano che ci si avvicina al tronco, sia soprattutto sul fatto che dobbiamo imparare a pensare immaginativamente il rapporto vigente tra il centro e la circonferenza di un cerchio.
Una cosa, infatti, è vedere (staticamente) nella circonferenza il luogo dei punti equidistanti da un ulteriore punto, detto “centro”, altra è immaginarla (dinamicamente) come il prodotto di un moto di espansione del centro, ed immaginare il centro come il prodotto di un moto di contrazione della circonferenza.
Steiner, nel Corso di pedagogia curativa (Antroposofica, Milano 1997 – ndr), suggerisce, in proposito, la seguente meditazione: “Alla sera ci poniamo davanti all’anima questa immagine: in me è Dio, e, la mattina dopo, l’altra: io sono in Dio. La figura superiore e quella inferiore sono un’unica cosa. Dobbiamo semplicemente capire che cosa è un cerchio e che cosa è un punto. Il punto alla sera non viene all’esterno, ma solo al mattino. Al mattino occorre pensare: “Questo è un cerchio, questo è un punto”. Si deve capire nel proprio intimo che un cerchio è un punto, che un punto è un cerchio”. (La figura superiore cui si riferisce Steiner è quella di un cerchio avente la circonferenza blu e il centro giallo, mentre la figura inferiore è quella di un cerchio avente, all’inverso, la circonferenza gialla e il centro blu. La mattina [“io sono in Dio”], l’Io umano, che si fa punto, è nell’Io divino, che si fa circonferenza, mentre, la sera [“in me è Dio”], l’Io divino, che si fa punto, è nell’Io umano, che si fa circonferenza).
Continueremo giovedì prossimo.
L.R. – Roma, 11 maggio 2000
ANTROPOLOGIA 27° Incontro
Riprendiamo il passo che abbiamo letto per ultimo la volta scorsa, osservando con attenzione la figura a p. 148.
Come vedete, si tratta di tre circonferenze, la maggiore delle quali comprende le altre due, non concentriche. La prima, più ampia, sta a rappresentare quella “periferia” o quel “cosmo” (il punto centrale del sistema delle membra), dal quale si dipartono i “raggi” che ci “vengono incontro da tutte le direzioni”, e che “si riuniscono” in noi. La seconda, più piccola, sta invece a rappresentare quella sfera lunare o quel sistema del petto (che ha il punto centrale “molto lontano”, e non “nel mezzo della sfera”), per la maggior parte (animica) invisibile, e per la minor parte (corporea) visibile (la falce lunare in cui vanno a inserirsi gli arti, in qualità di “condensati” fisici dei raggi provenienti dalla prima sfera). La terza, più piccola ancora, sta infine a rappresentare quel sistema della testa (che “ha il suo punto centrale nel suo interno”), collegato alla parte visibile del petto in cui sono inseriti gli arti.
Dice Steiner: “Si potrebbe concepire l’uomo come una gigantesca sfera (la prima – nda) che abbraccia tutto l’universo; poi c’è una sfera più piccola (la seconda – nda); infine una sfera piccolissima (la terza – nda). Solo quest’ultima è interamente visibile. La sfera intermedia è visibile solo in parte. Quanto alla sfera più grande, essa è visibile solo all’estremità dei suoi raggi; il rimanente resta invisibile. Così l’uomo, nella sua forma, è plasmato dal cosmo. E nel sistema intermedio, quello del petto, troviamo la riunione del sistema della testa e di quello delle membra” (p. 147).
Tutto questo va però immaginato in movimento. La volta scorsa, riferendoci a una meditazione data da Steiner, abbiamo infatti detto: la mattina, l’Io umano, che si fa punto, è nell’Io divino, che si fa circonferenza, mentre, la sera, l’Io divino, che si fa punto, è nell’Io umano, che si fa circonferenza.
Al mattino, dunque, l’Io umano si contrae al centro e l’Io divino si espande alla periferia, mentre alla sera l’Io umano si espande alla periferia e l’Io divino si contrae al centro.
Dice Steiner: “Da quanto vi ho detto potrete dedurre che gli arti sono piuttosto in relazione con l’universo, la testa piuttosto con l’uomo stesso. Verso che cosa, dunque, tendono le membra in modo particolare? Tendono verso quel mondo nel quale l’uomo si muove e cambia continuamente la sua posizione. Sono in relazione col movimento del mondo. Afferrate bene questo: le membra sono in relazione col movimento dell’universo. Quando ci spostiamo sulla terra, quando vi esercitiamo la nostra attività, noi adoperiamo essenzialmente il sistema delle membra” (p. 149).
Risposta a una domanda
La differenza tra l’uomo e l’animale riguarda soprattutto la sfera più piccola: quella del sistema della testa. Mi pare di aver già detto, una sera, che l’animale ha una testa vivente, e quindi una testa che, a differenza di quella umana, non è – per riprendere le parole di Steiner – un “qualcosa di relativamente conchiuso”.
L’”onda lunga” del volere cosmico (della sfera più grande) investe infatti, seppure con diversa intensità, tutto il corpo degli animali. Per questo, essi godono di quel pensiero vivente che noi chiamiamo “istinto”. Il comportamento animale è rituale e collettivo. Tutti i ragni, ad esempio, tessono alla stessa maniera le loro tele, così come tutti i castori costruiscono alla stessa maniera le loro dighe o gli uccelli i loro nidi; per non parlare, poi, di quelle migrazioni che sempre ci stupiscono per la loro regolarità nel tempo e nello spazio.
In tutti questi comportamenti è all’opera un’intelligenza o, per meglio dire, una saggezza che appartiene alla specie, e non al singolo animale.
Afferma Steiner che “quando ci spostiamo sulla terra, quando vi esercitiamo la nostra attività, noi adoperiamo essenzialmente il sistema delle membra”, e che questo è “in relazione col movimento dell’universo”. Altro che “nervi motori”!
Fatto sta che alle spalle di quello che Henri Bergson (1859-1941) chiama “slancio creativo o vitale”, che gli psicoanalisti chiamano “libido”, che i vitalisti (di ogni risma) chiamano “energia”, e che i materialisti e i meccanicisti riducono appunto a “nervo”, c’è la volontà.
Schopenhauer e Nietzsche lo hanno capito, ma hanno poi concepito la volontà come una forza naturale (distinta da quella del pensiero) e non cosmica (unita a quella del pensiero). In Nietzsche, la “volontà di vita” di Schopenhauer, diviene addirittura “volontà di potenza”. Ma chi altri, se non l’impotente, vale a dire l’uomo della testa, dell’intelletto o del pensiero riflesso, potrebbe farsi sedurre dall’idea di una potenza che non è la potenza dell’idea o – per dirla con Scaligero – del movimento del pensiero?
E’ dunque sano (se non morale) aspirare a ritrovare la potenza o la forza (cosa che non fanno gli odierni rappresentanti del cosiddetto pensiero “debole” o “fallibile”), ma guai a cercarla al di fuori del pensiero e della coscienza.
Anche in questo caso, infatti, il “come” è più importante del “cosa”; e lo è – come spesso ho detto – perché rivela il “chi”: perché rivela, cioè, se a spingerci a tale ricerca è l’amore dell’Io spirituale o l’egoismo della brama naturale.
Fatto si è che l’unica vera e sana “volontà di potenza” è la “volontà d’amore”. E’ però impossibile arrivare alla volontà d’amore se non si parte dal pensiero o, come meglio direbbe uno stilnovista, dall’”intelletto d’amore”.
“Quel che si trova nella testa, – dice Steiner – parte dalla testa. Quello che passa attraverso le membra si riunisce nell’uomo”. Vedete, “si riunisce”. Che cosa significa? Significa che la volontà del cosmo, raccogliendosi e riunendosi in ciascun essere umano, si individualizza e si differenzia (karmicamente).
Nella sfera degli arti o della volontà, abbiamo pertanto una forza che, avendo assunto carattere personale, è divenuta necessità (karma); in quella della testa o del pensiero, abbiamo invece una forma che, avendo serbato carattere universale (i concetti sono appunto gli “universali”), è divenuta libertà (libertà “da”).
Ho fatto altre volte, in proposito, l’esempio dell’amore. Non è vero, forse, che, pur avendo in testa l’idea dell’amore “universale” (dell’amore per tutte le creature), ci troviamo poi capaci di praticare solo l’amore “personale” (quello per noi stessi) o l’amore “particolare” (quello per i cosiddetti “compagnucci della parrocchietta” naturale, sociale o ideologica)?
Afferma Steiner che ogni idea che non diviene un ideale uccide le forze dell’anima. Un’idea che non diviene un ideale è infatti un’idea che non si anima e non ci anima, poiché rimane priva, in se stessa, di luce e calore: cioè a dire, di sentire e volere.
Per evitare che questo accada, occorre avere tanta pazienza, tanta umiltà e tanto buonsenso: bisogna cioè poter contare su un intelletto immune dalle distorsioni e dalle perversioni dell’intellettualismo.
Ripensando comunque alle nostre figure, potremmo anche dire che le filosofie dell’essere (quella ad esempio di Parmenide) nascono dal sistema immobile della testa, mentre le filosofie del divenire (quella ad esempio di Eraclito) nascono dal mobile sistema degli arti.
Dice Steiner: “Se vi immaginate di trasferirvi in spirito dentro la vostra testa, potete farvi l’idea di essere seduti dentro una vettura ferroviaria: la vettura si muove, ma voi ci state dentro, seduti tranquillamente. Allo stesso modo la vostra anima siede tranquilla nella testa, la quale si fa portare intorno dalle membra; così l’anima trasforma interiormente il movimento nella quiete (…) Così la testa trasforma in quiete entro di noi i movimenti che le membra eseguono nel mondo. Il petto si trova nella zona intermedia: esso concilia i movimenti del mondo esteriore con ciò che la testa riduce alla quiete” (p. 149).
Come si vede, si tratta di dinamismi molto delicati. La testa può infatti trasformare il movimento in quiete in misura maggiore o minore di quanto sarebbe (umanamente) previsto, rendendoci così, nel primo caso, tipologicamente “astenici” e, nel secondo, “stenici”.
Nella zona intermedia, un eccesso di movimento può manifestarsi come fervore o entusiasmo (o, al limite, mania), mentre un eccesso di quiete può manifestarsi come abulia o apatia (o, al limite, depressione).
Potremmo anche aggiungere, volendo, che un movimento che non venisse frenato dal petto e dalla testa, potrebbe perfino dar luogo a delle convulsioni epilettiche o epilettoidi.
Dice Steiner: “Pensate ora quanto segue: come uomini noi abbiamo continuamente la tendenza a imitare, con i movimenti delle nostre membra, i movimenti dell’universo. Che cosa facciamo allora? Danziamo. In verità noi danziamo. La danza ordinaria non è che una danza frammentaria. Ogni danza proviene dall’intenzione di riprodurre coi movimenti in generale, e in particolare coi movimenti delle membra umane, i movimenti che i pianeti e gli altri corpi celesti compiono, e che la terra stessa compie. Ma allora che cosa accade nella testa e nel petto quando, nei movimenti che eseguiamo come uomini, imitiamo danzando i movimenti cosmici? Accade come se, nella testa e nel petto, quei movimenti si arrestassero; essi non possono proseguire, attraverso il petto, fin nella testa, perché questa riposa sulle spalle e non lascia i movimenti proseguire fin nell’anima. L’anima deve partecipare ai movimenti in tutta calma, e perciò la testa riposa sulle spalle. Che cosa fa l’anima? Essa comincia a riflettere come uno specchio ciò che le membra compiono danzando. Essa comincia a borbottare quando le membra fanno dei movimenti irregolari; comincia invece a sussurrare dolcemente quando quei movimenti sono regolari, e si mette addirittura a cantare quando le membra riproducono gli armonici movimenti cosmici dell’universo. Così il movimento di danza si trasforma esteriormente nel canto, e interiormente nella musica” (pp. 149-150).
Per il fatto che il movimento (di danza) si trasforma interiormente nella musica, si potrebbe pensare che la musica derivi dal movimento. Non sarebbe sbagliato, ma sarebbe unilaterale. Occorre tener presente, infatti, che la musica deriva, sul piano umano, dal movimento, ma che il movimento deriva, sul piano cosmico, dalla musica (delle “sfere”).
“In principio” era infatti il Logos, il Verbo o la Parola, e quindi anche il “suono”. Che cosa fa dunque l’anima allorché converte il movimento in musica? Restituisce al movimento la sua natura originaria.
Risposta a una domanda
Una cosa è la musica che si ascolta con le orecchie, altra quella che si ascolta con lo spirito, e che può quindi essere udita, come dimostra il caso di Ludwig van Beethoven (1770-1812), anche da un sordo. Lo stesso Beethoven, del resto, si diceva convinto che “vero musicista” è soltanto colui che traduce il linguaggio inudibile (dalle orecchie) di Dio, nel suono udibile dagli uomini.
Nel linguaggio quotidiano, traspare ancora l’antica consapevolezza (espressa ad esempio dal mito di Orfeo) del risvolto morale dell’esperienza musicale. Basterebbe pensare al binomio “accordo-disaccordo”: non rimanda forse a quello “amore-odio”? E non capita, talvolta, che colui che ha grandemente apprezzato un discorso o un pensiero dica: “Questa è musica per le mie orecchie”?
Proprio la volta scorsa ho parlato della bellezza della verità. Ebbene, quanto stiamo dicendo stasera ne costituisce un esempio. C’è la verità della bellezza e c’è la bellezza della verità, e come testimonia l’esperienza di Goethe, è possibile sperimentare la prima come una scienza che ha in sé l’arte, e la seconda come un’arte che ha in sé la scienza.
Dice Steiner: “Le persone che coltivano la psicologia e la fisiologia non sanno che ciò che l’uomo percepisce all’esterno come movimento, penetra nell’interno dell’anima e vi si acquieta, e in tal modo comincia a trasformarsi in suoni; così accade anche per tutti gli altri generi di sensazioni, poiché gli organi della testa non seguono i movimenti esteriori (ad esempio, le vibrazioni dell’aria – nda), li riflettono verso il petto e li trasformano in suoni e in altre sensazioni. Qui sta l’origine delle sensazioni, e sta anche il rapporto delle diverse arti fra di loro. Le arti musicali si sviluppano dalle arti plastiche e architettoniche: queste ultime sono per il mondo esterno ciò che le arti musicali sono per l’intimo dell’uomo. Le arti musicali sono il riflesso del mondo dall’interno verso l’esterno” (pp. 150-151).
Che cosa fanno dunque “gli organi della testa”? Lo abbiamo detto a suo tempo: disoccultano, nell’anima (senziente), il contenuto qualitativo dei movimenti percepiti all’esterno.
Per quanto riguarda poi il rapporto tra le “arti musicali” e quelle “plastiche e architettoniche” possiamo di nuovo ricorrere all’aiuto del genio del linguaggio.
A chi non è capitato, ad esempio, di sentir parlare delle Passioni di Johann Sebastian Bach (1685-1750) come di “cattedrali di suoni”? Di sentir parlare, cioè, di grandiose composizioni musicali in termini architettonici, o di grandiose realizzazioni architettoniche in termini musicali?
Dice Steiner: “Vi ho avvertiti che quanto avevo ora da comunicarvi era una cosa difficile da capire. E ciò è particolarmente difficile perché al nostro tempo non si fa nulla in favore della comprensione di queste cose. Per mezzo di tutto ciò che oggi riceviamo come formazione culturale del tempo, si cura particolarmente che gli uomini restino del tutto nell’ignoranza di come stanno le cose in realtà, secondo quanto vi ho esposto poco fa”; e aggiunge (riferendosi alla figura a p. 148 – nda): “La sfera grande della figura comprende spirito anima e corpo, la sfera mediana, corpo e anima. La sfera più piccola indica soltanto corpo. Nel Concilio dell’anno 869 i vescovi della chiesa cattolica hanno deciso di proibire all’umanità di conoscere qualcosa sulla sfera grande. Hanno dichiarato allora, come dogma, che soltanto la sfera intermedia e quella piccola esistono, che l’uomo consta soltanto di anima e di corpo, e che l’anima contiene qualcosa di spirituale solo come sua propria qualità. Dall’anno 869 non esiste più lo spirito per la civiltà occidentale derivante dal cattolicesimo. Ma sopprimendo il rapporto con lo spirito, si è soppresso il rapporto dell’uomo col cosmo (…) Chi ha dunque colpa del fatto che noi abbiamo un materialismo scientifico? La colpa principale è della chiesa cattolica che nell’869 ha eliminato lo spirito col Concilio di Costantinopoli” (pp. 151-152).
Abbiamo visto che la “sfera grande” è legata al sistema degli arti o della volontà. “Proibire all’umanità di conoscere qualcosa sulla sfera grande” equivale dunque a proibirle di conoscere qualcosa sulla volontà. E come? Lo abbiamo detto quando ci siamo occupati de La filosofia della libertà: proibendo il bramato (“Questo non si fa!”) per proibire il bramare, e proibendo il bramare per proibire il volere (che ne costituisce l’essenza).
Nasce così quella che Nietzsche chiama la “morale degli schiavi” (di coloro che si sottomettono a un’autorità per sapere che cosa è bene o che cosa è male volere), e nasce pure per reazione (o, direbbe Jung, per “compensazione”), la “volontà di potenza”.
Che cosa si dovrebbe fare, invece? Lo sappiamo: trasformare il bramato per trasformare il bramare, e trasformare il bramare per trasformare il volere: distillare, cioè, dal bramare il volere, o mutare, volendo dirla da alchimisti, il “piombo” dell’uno nell’”oro” dell’altro.
E come si trasforma il bramato? Conoscendolo: scoprendo, ossia, che quella che si credeva una “cosa” (un oggetto) è in realtà un’entità spirituale (un soggetto) che può essere amata, ma non bramata.
Afferma Steiner che “per mezzo di tutto ciò che oggi riceviamo come formazione culturale del tempo, si cura particolarmente che gli uomini restino del tutto nell’ignoranza di come stanno le cose in realtà”.
Per questo uso parlare di un’ignorantia docta. Un tempo, infatti, erano “ignoranti” quelli che non sapevano e “colti” quelli che sapevano; oggi, invece, sono “ignoranti” o “nescienti”, sia quelli che non sanno, sia quelli che sanno: cioè a dire quelli che, a causa appunto della “formazione culturale” ricevuta, sanno tutto, ma non capiscono niente.
Dice Steiner: “Considerate la testa umana. Essa si è venuta formando attraverso gli avvenimenti cosmici del divenire universale, ed è oggi la parte più antica dell’essere umano. La testa è derivata dagli animali superiori, e prima ancora, risalendo più oltre a ritroso, dagli animali inferiori. In rapporto alla nostra testa, noi discendiamo dal mondo animale. Non c’è che dire! La nostra testa è soltanto un animale più sviluppato (…) La Chiesa, nascondendo all’uomo la coscienza del suo rapporto con l’universo, e quindi della vera natura dei suoi arti, trasmise alle epoche successive soltanto una conoscenza parziale della natura del petto, del tronco e, principalmente, la conoscenza della testa. Poi è sopravvenuto il materialismo, e ha dichiarato che il cranio umano proviene dagli animali. Ed ora il materialismo sostiene che l’uomo tutto intero discende dagli animali; ma ciò non è vero, perché gli organi del petto e quelli delle membra sono stati formati solo più tardi. Proprio col nascondere all’uomo la natura dei suoi arti, e il suo rapporto con l’universo, si è provocata la possibilità che l’epoca materialistica, venuta più tardi, sia divenuta preda di quell’idea che ha un valore soltanto per la testa, ma che viene applicata all’uomo intero. La chiesa cattolica è in verità la creatrice del materialismo in questo campo della teoria dell’evoluzione” (pp. 152-153).
Sarà bene riflettere su questi nessi storici e culturali, in quanto le radici della penosa condizione in cui versa oggi l’umanità (e della quale la Chiesa si duole, alla stessa stregua di un piromane che si dolga dell’incendio dopo averlo appiccato) possono essere, nel tempo, anche lontane.
E non ci si lasci peraltro fuorviare dalle sterili e inutili polemiche, tuttora accese (soprattutto negli Stati Uniti), tra i darwinisti e i creazionisti, o (dagli anni ’90) tra i neo-darwinisti e i sostenitori del cosiddetto “Disegno intelligente” (Intelligent Design).
In merito poi al Concilio ricordato da Steiner, chi volesse saperne qualcosa di più potrebbe consultare un breve scritto di Willy Schwarz, intitolato: La natura ternaria dell’uomo e l’ottavo Concilio ecumenico dell’anno 869, pubblicato in W.Schwarz: Studi su Dante e spunti di storia del Cristianesimo (Antroposofica, Milano 1982).
Anche stasera abbiamo fatto tardi. Finiremo perciò la conferenza la prossima volta.
L.R. – Roma, 18 maggio 2000
ANTROPOLOGIA 28° Incontro
Prima di riprendere a leggere, vorrei dire ancora qualcosa riguardo al fatto che “dall’anno 869 – come afferma Steiner – non esiste più lo spirito per la civiltà occidentale derivante dal cattolicesimo”.
Ascoltate quanto scrivono Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler in questo Dizionario di Teologia, alla voce “spirito”: “La finitezza dello spirito umano si manifesta principalmente nell’essere egli legato necessariamente all’incontro, frammentario e imprevedibile, con ciò che gli è altro ed estraneo e quindi al suo corpo come punto medio fra soggetto e oggetto. Lo spirito umano non è quindi “puro spirito”, ma essenzialmente “spirito-anima”. Proprio questo essere legato al corpo, e di conseguenza allo spazio e al tempo, lo rende infatti specificamente “spirito umano”” (K.Rahner-H.Vorgrimler: Dizionario di Teologia – TEA, Milano 1994 – ndr).
Ebbene, non è a dir poco singolare che lo “spirito umano” venga considerato tale non per se stesso (non in sé e per sé), ma in quanto “legato al corpo”? Non sarebbe come dire, ad esempio, che Prometeo è Prometeo non per se stesso, ma perché è incatenato a una roccia (confondendo in tal modo il suo “essere” con il suo “stato”)?
La verità è un’altra: come Prometeo fu incatenato a una roccia da Zeus, e poi liberato da Eracle (figlio di Zeus), così lo spirito umano è stato legato al corpo da Lucifero (al momento del “peccato originale”), e poi liberato dal Cristo (Figlio di Dio).
Il vero “spirito umano” non è perciò quello “legato al corpo”, bensì quello che può e deve essere, in grazia appunto della forza del Cristo, liberato dal corpo (dai sensi).
Per quale ragione, dunque, “non esiste più lo spirito per la civiltà occidentale derivante dal cattolicesimo”? Perché la Chiesa si è appropriata dello spirito (in particolare, dello Spirito Santo), sottraendolo agli individui. E perché se n’è appropriata? Per potersi così proporre quale “intermediaria” (extra ecclesiam nulla salus) tra lo spirito divino (trascendente) e lo “spirito-anima” umano (immanente).
Rimosso in tal modo l’Io spirituale individuale, il reale “intermediario”, chiunque voglia conoscere la volontà divina (del Padre e del Figlio), non potendosi rivolgere direttamente all’”Io-sono” (quale Spirito Santo), è allora costretto a rivolgersi alla Chiesa e al suo insegnamento.
Ma riprendiamo adesso la lettura.
Dice Steiner: “In fondo oggi il maestro, anche se talvolta nelle regioni più alte della sua coscienza si fa delle illusioni in proposito, si avvicina agli altri uomini con la chiara coscienza che il bambino è un piccolo animale, e che egli ha il compito di sviluppare questo piccolo animale un po’ meglio di quanto la natura lo ha già sviluppato. Ben altro sarà il suo sentimento se egli si dirà: qui c’è un essere umano dal quale partono relazioni con l’intero universo, poiché in ogni bambino che sta crescendo io ho davanti a me qualcosa che ha un’importanza per tutto l’universo e sul quale io debbo lavorare (…) Se noi non avremo simili sentimenti riguardo all’uomo e all’universo, non arriveremo a insegnare in modo profondo e giusto. Dal momento in cui noi li proviamo, questi sentimenti si trasmettono ai bambini per mezzo di legami sotterranei (…) Dei rapporti misteriosi s’intrecceranno tra voi e l’intera scolaresca. Quello che noi chiamiamo pedagogia dev’essere costruito sopra sentimenti di questo genere. La pedagogia non deve essere una scienza, dev’essere un’arte (…) Ora, i sentimenti nei quali si deve vivere, se si vuole esercitare quella grande arte di vita che è la pedagogia, i sentimenti che si debbono avere per fare della vera educazione, non si accendono se non con l’osservazione e lo studio del grande universo e del suo rapporto con l’uomo” (pp. 154-155).
Non solo l’insegnamento, ma tutta la nostra vita non potrà cambiare, se non cambierà la vita del sentimento. Ma questa potrà cambiare soltanto se cambierà la vita del pensiero.
Ascoltate, ad esempio, quanto scrive Edoardo Boncinelli: “Oggi si sa che gli esseri viventi sono essenzialmente dei motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici – che prendono dall’ambiente circostante energia di buona qualità e gliela restituiscono degradata” (cfr. Il cervello, la mente e l’anima, 12 dicembre 2001, e le “Noterelle” del 2 marzo 2005 e del 23 novembre 2006 – ndr).
Ebbene, quali sentimenti pensate che accendano pensieri del genere?
Fatto sta che siamo liberi di pensare quel che vogliamo, ma non di evitare che quel che ci passa per la testa risulti, al nostro sentimento, digesto o indigesto. Come il corpo è infatti in grado di smentire, intossicandosi, la nostra convinzione che certi cibi siano sani, così l’anima è in grado di smentire, deprimendosi, la nostra convinzione che certi pensieri siano veri.
Ove non fossimo abituati, come siamo, a vivere immersi nell’astrazione, ci renderemmo conto – come asseriva Goethe – che “è vero ciò ch’è fecondo”: ovvero ciò ch’è appunto in grado di nutrire e rinvigorire l’anima.
Abbiamo finito la decima conferenza. Cominciamo l’undicesima.
Dice Steiner: “Abbiamo detto ieri che la testa è principalmente di natura corporea. La parte “tronco”, l’abbiamo caratterizzata come corporea e animica. E la parte “membra”, come corporea, animica e spirituale. Ma naturalmente, dicendo che la testa è principalmente di natura corporea, non abbiamo affatto terminato di caratterizzare la testa. Nella realtà le cose non sono così nettamente separate le une dalle altre. Perciò potremo dire in modo altrettanto giusto: la testa è di natura animica e spirituale come il petto e gli arti, ma in modo diverso da essi” (p. 156).
Anche qui vale quanto abbiamo detto a suo tempo del pensare, del sentire e del volere: ossia, che tutti e tre sono sempre attivi, ma in modo tale che ciascuno svolge, in un caso, un ruolo sovraordinato, e, negli altri due, un ruolo subordinato. La testa, infatti, è in primo luogo “corporea” e in secondo luogo “animico-spirituale”, così come il tronco è in primo luogo “animico” e in secondo luogo “corporeo-spirituale” e le membra sono in primo luogo “spirituali” e in secondo luogo “animico-corporee”.
Dice Steiner: “Quando l’uomo nasce, la testa è già in modo preminente “corpo”. Ciò vuol dire che l’elemento spirituale-animico che la forma e la elabora come testa, si è in certo modo impresso nella forma della testa fisica. Questa è la ragione per cui nella testa – che è la prima a formarsi nel corso dell’evoluzione dell’embrione umano – viene a manifestarsi in modo speciale l’elemento spirituale e animico dell’uomo. Che relazione vi è tra il corpo, in quanto “testa”, e l’elemento animico e quello spirituale? La testa è “corpo” già pervenuto al massimo di perfezione possibile, essa ha già compiuto in precedenti stadi dell’evoluzione tutto quanto era necessario per la sua trasformazione da animale a uomo; per tutto ciò la testa ha la possibilità, dal punto di vista fisico, di essere formata nel modo più perfetto. L’anima è invece collegata con la testa in modo tale che il bambino, quando nasce, ed anche nei primi anni del suo sviluppo, sogna tutto quello che di animico vi è nella testa. E lo spirito, nella testa, dorme” (pp. 156-157).
Alla nascita e nei primi anni del suo sviluppo, nella testa del bambino è soprattutto attiva la forza incosciente (corporea) della volontà, mentre sono latenti, sia la forza subcosciente (animica) del sentimento, sia quella cosciente (spirituale) del pensiero.
Tutto ciò che si risveglierà in seguito è perciò presente sin dall’inizio, ma allo stato sognante o dormiente. Ovviamente, tanto meglio si risveglierà al momento giusto il pensare, quanto meglio si sarà risvegliato a suo tempo il sentire e si sarà ancor prima assecondata l’azione del volere.
Da questo punto di vista, l’educazione è un’autentica “maieutica”: ovvero, l’arte di far venire alla luce quanto il bambino porta in sé (del resto, “educare” viene appunto da ex-dūcere, cioè “condurre o portare fuori”).
Teniamo peraltro presente che nella stessa fase in cui si risveglia il pensare si risveglia anche la coscienza dell’Io o l’autocoscienza. Lo dico, perché ho avanzato altre volte l’ipotesi che l’attuale diffusione dei cosiddetti “attacchi di panico” possa essere messa in rapporto con un difetto dell’autocoscienza.
Ove l’educazione non ci prepari, grazie a un corretto sviluppo del volere, del sentire e del pensare, ad accogliere come si deve la coscienza dell’Io, può in effetti accadere che l’affacciarsi o il presentarsi dell’Io venga vissuto come un trauma (come la morte di quello che si pensava di essere prima che giungesse l’Io).
Dice Steiner: “Ora si tratta di mettere i fatti così caratterizzati in armonia con l’intero sviluppo dell’uomo. Questo sviluppo è tale che, fino al cambiamento dei denti, il bambino è soprattutto un essere portato all’imitazione, che fa tutto quello che vede fare intorno a sé. Egli può fare ciò grazie alla circostanza che, nella sua testa, lo spirito dorme. Per questo fatto egli ha la facoltà di trattenersi col suo spirito al di fuori della testa fisica: può soggiornare nell’ambiente circostante (…) Perciò il bambino è un essere che imita. Per questo anche, dalla sua anima che sogna, si sviluppa l’amore per quanto lo circonda, e soprattutto per i genitori. Il momento della seconda dentizione segna, nell’evoluzione del bambino, la fine dello sviluppo della testa” (p. 157).
Ricorderete che abbiamo più volte parlato del mondo fisico come del mondo “esterno”, del mondo animico come del mondo “interno” e del mondo spirituale come del mondo “esterno dell’interno”: ossia, come del mondo che costituisce l’essenza spirituale di quello fisico (esterno), e sul quale ci si può affacciare solo dall’anima (dall’interno).
Ebbene, il bambino, godendo, nel corso del suo primo settennio, della “facoltà di trattenersi col suo spirito al di fuori della testa fisica”, “soggiorna” appunto nel mondo “esterno dell’interno” che lo circonda, abbandonandovisi nello stesso modo in cui si abbandonava, prima della nascita, all’intero mondo spirituale.
La crescita del bambino è dunque un viaggio che, dal punto di vista spirituale, parte dal sonno e, attraverso il sogno, arriva alla veglia; che, dal punto di vista animico, parte dal volere e, attraverso il sentire, arriva al pensare; e che, dal punto di vista corporeo, parte dalla testa e, attraverso il tronco, arriva agli arti.
La testa del bambino (in specie durante la vita intrauterina) è infatti diversa (anche nelle sue proporzioni rispetto al resto del corpo) da quella dell’adulto. Volendo, la si potrebbe paragonare a un tubero o a un bulbo dal quale, per così dire, fuoriescono e si sviluppano il tronco e gli arti. All’inizio è pertanto una testa “vivente” che, in quanto tale, può soltanto dormire e sognare. Per arrivare a pensare (a rappresentarsi il mondo) dovrà dunque morire, “trasferendo” gradualmente le sue forze animiche e vitali nelle rispettive “sedi” del restante organismo.
Dalla nascita fino al cambiamento dei denti, il bambino è dunque un “imitatore”, poiché è una sorta di “spugna” che assorbe tutto ciò che lo circonda.
Mai come in questa fase dovrebbe perciò valere (parafrasato) l’imperativo socratico: “Educatore, educa te stesso!”.
Dice Steiner: “Che cosa si conclude in quel momento (quello del cambiamento dei denti – nda)? La configurazione della forma. In quel punto l’uomo ha assorbito nel suo corpo ciò che lo plasma, che lo indurisce, che contribuisce in modo preminente a dargli una forma. Quando nel bambino vediamo spuntare i nuovi denti, possiamo affermare che la sua prima separazione dal cosmo è compiuta (…) Mentre, cominciando dalla testa, l’uomo si incorpora in questo periodo la sua forma, la sua figura, qualcosa di diverso accade per lui nei riguardi della sua parte “petto” (…) Il petto è un organismo che fin dal principio, non appena il bambino è nato, è corporeo e animico insieme. Il petto non è soltanto corporeo come la testa, esso è corporeo-animico, ed ha ancora esteriormente soltanto lo spirito che sogna. Se dunque osserviamo il bambino nei suoi primi anni, constateremo bene la vivacità, il maggior grado di risveglio degli organi del petto rispetto a quelli della testa (…) Per quanto riguarda gli arti, le cose stanno ancora diversamente. Qui, fin dal primo istante di vita, spirito, anima e corpo sono intimamente legati, s’interpenetrano l’un l’altro. E qui il bambino è completamente sveglio fin dai primissimi tempi. Lo sanno bene quelli che debbono allevare nei primi anni quell’essere sgambettante che non sta mai fermo (…) Questo è il mistero dell’essere umano: quando nasce, lo spirito, nella sua testa, è già molto sviluppato, ma dorme; l’anima pure vi è molto sviluppata, ma sogna. Essi debbono destarsi solo gradatamente. Nei suoi arti, invece, l’uomo è completamente sveglio quando nasce, ma non è ancora sviluppato, non è evoluto” (p. 158).
Come vedete, l’uomo nasce poco a poco e muore poco a poco. Prima nasce e muore il corpo fisico, poi nasce e muore il corpo eterico e poi ancora nasce e muore il corpo astrale; l’Io invece non nasce e non muore, ma si riveste e sveste, nel corso delle sue vite terrene, di tali arti (karmicamente configurati).
Il che vuol dire che come l’uomo, nascendo, “coagula” poco a poco la sua forma, così, morendo, poco a poco la “solve”. Nella testa, la forma umana è coagulata in modo “molto sviluppato”, mentre negli arti (che comprendono anche gli organi sessuali) non è “ancora sviluppata, non è evoluta”.
Si faccia comunque attenzione a non equivocare, perché quello che, alla nascita, “è completamente sveglio” (attivo) negli arti, sogna nel petto e dorme nella testa è ovviamente l’Io, e non l’ego. Quando nasce infatti l’ego (quale coscienza riflessa dell’Io)? Quando l’Io, all’inverso, si risveglia (seppure in modo riflesso) nella testa e si addormenta negli arti.
Dice Steiner: “Ora soltanto, dunque, vi dico qual è la vera caratteristica dell’educazione e dell’insegnamento. Voi sviluppate l’”uomo-membra” e una parte dell’”uomo-tronco”, e poi lasciate che l’”uomo-membra” e una parte dell’”uomo-tronco” risveglino l’”uomo-testa” e l’altra parte dell’”uomo-tronco”” (p. 159).
Ciò significa che l’educazione e l’insegnamento dovrebbero preoccuparsi di sviluppare l’uomo del volere e parte dell’uomo del sentire, lasciando che questi risveglino poi l’uomo del pensare.
E’ dunque un’illusione o un inganno credere di poter fare il contrario: di poter cioè sviluppare l’uomo del pensare (dell’intelletto), sperando che questo risvegli poi l’uomo del sentire e quello del volere. Osservando lo stato in cui versa gran parte dell’odierna gioventù, non ci vorrebbe granché a realizzarlo. Ma non c’è peggior sordo – come si sa – di chi non vuol sentire.
Dice Steiner: “Gli elementi sui quali possiamo meglio agire con l’educazione sono la volontà e una parte del sentimento. (…) Dobbiamo essere ben certi che, dal punto di vista dell’intelligenza, non è necessario che noi siamo altrettanto sviluppati dell’essere umano che cresce davanti a noi; e invece, poiché si tratta di sviluppare la volontà – come si deduce dalle considerazioni esposte – dovremo fare ogni possibile sforzo verso la perfezione nel campo della bontà, cosa che soltanto noi possiamo fare. L’allievo potrà diventare migliore di noi stessi, ma molto probabilmente non lo diventerà se alla nostra educazione non se ne aggiunge un’altra da parte del mondo o di altri uomini” (pp. 159-160).
Non si tratta dunque di sviluppare direttamente l’intelligenza, e magari poi di misurarla con dei test autoreferenziali: vale a dire, con delle prove che rivelano la quantità e la qualità dell’intelligenza atte a superarle, ma non la quantità e la qualità dell’intelligenza che servono alla vita.
L’educatore, insomma, non si deve mettere in testa di fare del suo allievo, che so, un Leonardo da Vinci (e quindi un uomo più intelligente di lui), bensì operare sul piano del volere e del sentire così da consentirgli, eventualmente, di diventare davvero, sua sponte, un Leonardo da Vinci.
Ci fermiamo qui. Continueremo la prossima volta.
L.R. Roma, 25 maggio 2000
ANTROPOLOGIA 29° Incontro
Alla fine del nostro ultimo incontro, abbiamo parlato dell’intelligenza. Prima di riprendere la lettura, sarà bene perciò ricordare che com’è possibile una “stupidità” derivante da un difetto d’intelligenza, così è possibile – soprattutto oggi – una “stupidità” derivante da un eccesso d’intelligenza.
Ascoltate, ad esempio, quanto scrive, della stupidità “pretenziosa”, Robert Musil (1880-1942), nel suo Discorso sulla stupidità(Shakespeare & Company, Brescia 1979 – ndr): “Questa stupidità più elevata è la vera malattia dell’educazione (ma, per evitare malintesi; essa significa ineducazione, educazione errata o deformata, sproporzione fra materia e forma nell’educazione) e descriverla è un compito quasi illimitato. Essa giunge fino alla più elevata intellettualità perché se la vera stupidità è un’artista silenziosa, quella intelligente è ciò che contribuisce alla movimentatezza della vita intellettuale, e specialmente alla sua instabilità e infruttuosità. Già anni or sono ho scritto: “Non c’è praticamente nessun pensiero importante che la stupidità non sia in grado di utilizzare, essa è mobile in tutti i sensi e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha una sola veste in ogni occasione, e solo una via, ed è sempre in svantaggio. La stupidità che s’intende con ciò non è una malattia mentale, eppure è la più pericolosa malattia della mente, pericolosa perfino per la vita.””.
Che queste preoccupazioni di Musil non fossero infondate, lo dimostra il fatto che c’è oggi della gente sinceramente persuasa che come l’homo sapiens ha soppiantato nel passato l’uomo di Neanderthal, così l’uomo bio-tecnologico, prodotto iper-intelligente, sia dell’ingegneria genetica, sia del connubio tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale, soppianterà nel futuro l’homo sapiens: ossia persuasa – possiamo dire noi – che l’homo “arimanico” soppianterà in futuro l’homo “umano” e, per ciò stesso, cristico (“Ecce Homo”).
Ciò potrebbe effettivamente accadere, ma accadrà soltanto se continueremo ad avere paura di aprire le nostre anime all’antroposofia o alla conoscenza scientifico-spirituale (“Nel fondo della vita dell’anima – dice Steiner – l’uomo possiede più conoscenza di quanto egli pensi. Solo che non vuol far salire in superficie questa conoscenza, perché ne ha paura” – San Silvestro cosmico e pensieri per il nuovo anno – Antroposofica, Milano 2007 – ndr).
L’intelligenza, insomma, va messa umanamente a fuoco alla stessa stregua di un binocolo. La stupidità “stupida” non coglie infatti la realtà perché si arresta al di qua del fuoco, mentre la stupidità “intelligente” non la coglie perché ne va al di là.
Ma torniamo ora a noi.
Dice Steiner: “Pensiamo a quello che abbiamo imparato in questi giorni, e cioè che l’uomo, per quanto concerne la sua testa, entra nella vita con uno spirito che dorme e con un’anima che sogna. E’ dunque necessario che noi educhiamo gli uomini, fin dai primissimi tempi dopo la nascita, attraverso la volontà, perché, se non agissimo attraverso la volontà, non potremmo arrivare fino allo spirito, dormiente nella testa (…) Come educatori, nella prima età del bambino non possiamo disporre di molti mezzi. Allora interviene qualcosa che pure è “genio”, che agisce al di fuori di noi. La lingua contiene il suo genio, ma nei primissimi tempi dello sviluppo infantile non possiamo fare appello allo spirito della lingua. Ma anche la natura ha il suo genio, il suo spirito: se non l’avesse, gli uomini dovrebbero atrofizzarsi per effetto di quella lacuna (tra il sistema delle membra e quello della testa – nda) che si produce nella loro evoluzione nei primi tempi dopo la nascita. E qui il genio della natura crea qualcosa che, per il fatto di essere legata nella sua evoluzione col sistema delle membra, ha in sé qualcosa della loro essenza. Questa sostanza è il latte. Nel corpo della donna, il latte è in relazione con gli arti superiori, con le braccia. Gli organi produttori del latte sono come la continuazione delle braccia verso l’interno. Il latte è l’unica sostanza, nel regno animale e umano, che abbia un’intima parentela con l’essenza delle membra, che in certo modo sia prodotta dall’entità delle membra, e perciò contiene in sé anche la forza dell’entità delle membra. Il latte che si dà al bambino agisce come l’unica sostanza, almeno nell’essenziale, che con la sua azione risveglia lo spirito dormiente. Lo spirito che vi è in ogni materia, si manifesta là dove occorre che si manifesti. Il latte porta in sé il suo elemento spirituale, e questo elemento spirituale ha il compito di destare lo spirito dormiente nel bambino” (pp. 160-161-162).
Diversi anni fa, un caro amico mi disse: “Steiner esagera, vede lo spirito pure nei sassi”. Non aveva evidentemente realizzato che si vincerà il materialismo solo quando si diverrà capaci di vedere lo spirito anche nei sassi. Arimane vorrebbe infatti convincerci che i sassi non hanno niente a che fare con lo spirito, mentre Lucifero vorrebbe convincerci che lo spirito non ha niente a che fare con i sassi.
Divide et impera: questo è il motto degli ostacolatori. Per poter avere in pugno l’uomo, devono infatti sforzarsi di mantenere divisa la sfera materiale da quella ideale: cioè a dire, la sfera della percezione da quella del pensiero. Come abbiamo visto studiando La filosofia della libertà, è però l’uomo a dividere la realtà in queste due parti, ed è perciò l’uomo a doverle riunire, per così ri-creare e ri-trovare tanto la realtà del mondo quanto quella di se stesso.
Fatto si è che il latte, come qualsiasi altra sostanza, è un veicolo di forze, di forze che sono, a loro volta, un veicolo di qualità. Di quella qualità che fa appunto, del latte, il “latte” (in specie “materno”), e ch’è altra, ad esempio, da quella dell’acqua o del vino.
Grazie alla natura, possiamo dunque cominciare a fare quel che in seguito faremo grazie invece alla parola e al pensiero, grazie cioè alla cultura.
Teniamo altresì presente – come spiega Steiner ne Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive – che il latte unisce l’uomo “alle condizioni della Terra, ma non lo incatena alla Terra”, ed è per questo diverso, sia dalla carne, che lo vincola troppo alla Terra (arimanicamente), sia dai vegetali, che lo svincolano troppo dalla Terra (lucifericamente).
Dice Steiner: “La natura educa naturalmente. Noi uomini quando cominciamo ad agire mediante il linguaggio e le nostre azioni, cominciamo a educare animicamente. Perciò è così importante che nell’educazione e nell’insegnamento diventiamo ben coscienti che non possiamo assolutamente cominciare con l’influire sulla testa del bambino. La testa porta già nel mondo, attraverso la nascita, gli elementi di quello che essa diventerà. Noi possiamo svegliare ciò che è nella testa, non possiamo trasfondere nulla in essa (…) Naturalmente, quando il bambino ha sette anni e comincia ad andare a scuola, non è rimasto fino allora nella culla, ma ha fatto qualcosa, si è formato da sé imitando gli adulti, ha fatto sì che la parte spirituale della sua testa si sia, in certa misura, svegliata: allora noi possiamo utilizzare ciò che si è destato nel suo spirito per apportargli il leggere e lo scrivere in modo convenzionale; ma allora cominceremo a danneggiare questo spirito con la nostra influenza. Perciò vi ho detto che, in un insegnamento ben fatto, si deve insegnare a leggere e a scrivere partendo dall’arte. I primi elementi del disegno e della pittura, i primi elementi della musica devono precedere, poiché essi agiscono sui sistemi degli arti e del petto, e solo in modo mediato su quello della testa (…) Supponiamo di scrivere davanti al bambino la lettera f; se gli diciamo di osservarla bene e di copiarla, noi agiamo prima, attraverso la vista, sul suo intelletto, e poi l’intelletto addestra la volontà. Questa è la via sbagliata, opposta a quella buona. La via giusta è quella di svegliare l’intelletto il più possibile attraverso la volontà. E questo possiamo farlo soltanto se partiamo dall’insegnamento artistico per passare poi alla formazione intellettuale” (pp. 163-164).
Occorre dunque cominciare agendo “in modo mediato” o indiretto sul sistema della testa. Il problema – lo abbiamo già detto – non è perciò quello di arrivare o non arrivare alla “formazione intellettuale”, bensì quello del modo in cui è giusto e sano (“fisiologico”) arrivarci.
Vedete, quello degli arti è un polo caldo, quello del petto è un polo tiepido (in cui si alternano, ma anche si contemperano, il caldo e il freddo) e quello della testa è un polo freddo. Partire dall’intelletto per “addestrare” la volontà, vuol dire dunque portare il freddo direttamente incontro al caldo (cosa che, se riguardasse i muscoli, potrebbe procurare dei crampi). E che rischio si corre, agendo così? Quello di raggelare il sentire e di irrigidire il volere, finendo così col trasformare la scuola in una caserma. In questa, infatti, “gli ordini vanno eseguiti”: vale a dire, ciò che l’intelletto ha appreso (l’ordine) va tradotto immediatamente in volontà (eseguito) (è significativo, da questo punto di vista, che le bande militari dispongano dei fiati e delle percussioni, che sono rispettivamente in rapporto col pensare e col volere, e non degli “archi”, che sono in rapporto col sentire).
Per evitare di trasformare la scuola in una caserma (e i bambini in reclute, magari “nonniste” o “bulliste”), non si tratta perciò di essere “lassisti” o di comportarsi sentimentalmente o moralisticamente in modo “permissivo” o “buonista”, bensì si tratta di non seguire la “via sbagliata” e di compiere ogni sforzo atto a far sì – per riprendere le parole di una meditazione data da Steiner – che lo Spirito solare “illumini le nostre menti” e “riscaldi i nostri cuori”.
Dice Steiner: “Dovete pensare che il bambino, mentre vi occupate della sua educazione e istruzione, ha anche qualche altra cosa da fare, oltre quella che fa con voi. Egli deve compiere cose di tutti i generi, che rientrano solo indirettamente nella vostra sfera. Il bambino deve crescere. E voi dovrete rendervi conto che, mentre voi lo educate e istruite, il bambino deve crescere nel giusto modo. Che cosa significa questo? Significa che, con la vostra educazione e il vostro insegnamento, non dovete disturbare la sua crescita, ma procedere di pari passo con le necessità della crescita stessa. Quanto vi dico è di importanza del tutto speciale per i primi anni di scuola, poiché se fino al cambiamento dei denti è prevalente la formazione della testa, dopo (e precisamente negli anni della scuola elementare) predomina lo sviluppo vitale, cioè la crescita e tutto ciò che vi è connesso, fino alla pubertà. La pubertà segna la conclusione dello sviluppo organico relativo alla parte mediana dell’uomo, al tronco” (pp. 164-165).
Per non disturbare la crescita del bambino e per “procedere di pari passo con le necessità della crescita stessa”, occorre naturalmente conoscere tali necessità: occorre cioè conoscere in qual modo e attraverso quali fasi si svolga la crescita.
Ma di questo si sa poco o nulla, e si fanno quindi dei tentativi (riforme su riforme), se non addirittura degli “esperimenti” (le famose scuole “sperimentali”). Ma è lecito fare esperimenti con le anime dei bambini o dei giovani? Un esperimento, proprio perché tale, può riuscire o fallire. E se fallisce, che ne sarà di quanti vi sono stati sottoposti?
Dice Steiner: “Se non avete nessuna conoscenza dell’azione che, per mezzo dell’educazione e dell’insegnamento, potete esercitare animicamente, in modo da accelerare o rallentare la crescita, come potrete essere dei buoni educatori e insegnanti? Voi avete in mano, fino a un certo grado, la possibilità di agire animicamente in modo da disturbare le forze sane di crescita in un bambino, così da farlo crescere tutto in lunghezza, cosa che, secondo le circostanze, può essere anche dannosa. Ugualmente, avete in mano, fino a un certo grado, la possibilità di rallentare in modo malsano la crescita del bambino, così che egli resti piccolo e tozzo” (p. 165).
Essendo ignari dei rapporti intercorrenti tra il corpo fisico e quello eterico (il corpo delle “forze plasmatrici”), è in effetti possibile, “fino a un certo grado”, tanto accelerare, inopportunamente, le forze di crescita di un bambino longilineo, la cui costituzione è per lo più sottesa dal temperamento melanconico, quanto frenare, altrettanto inopportunamente, quelle di un bambino brevilineo, la cui costituzione è per lo più sottesa dal temperamento collerico.
S’ignora infatti che, facendo “crescere tutto in lunghezza” un bambino già “longilineo”, si rischia d’impegnare troppe forze eteriche o vitali nella costruzione del suo corpo fisico, così che poche ne rimarranno (com’è nei caratteri astenici) da mettere in seguito al servizio dell’anima; allo stesso modo s’ignora che, facendo restare “piccolo e tozzo” un bambino già “brevilineo”, si rischia, al contrario, d’impegnare poche forze eteriche o vitali nella costruzione del suo corpo fisico, così che troppe ne rimarranno (com’è nei caratteri stenici) da mettere in seguito al servizio dell’anima.
Per poter agire opportunamente sul corpo eterico, l’educatore dovrà naturalmente servirsi dell’Io e del corpo astrale.
Dice Steiner: “Come possiamo conoscere i rapporti che intercorrono fra l’anima e le condizioni in cui si svolge la crescita? Ricorrendo a una psicologia migliore di quanto non sia la psicologia comune. Questa psicologia migliore ci dice che tutto ciò che accelera le forze di crescita, che organizza queste forze in modo che il fanciullo cresca tutto in lunghezza, dipende in certa misura dalla formazione della memoria. Se sforziamo troppo la memoria del bambino, ne faremo, entro certi limiti, un essere lungo e smilzo. Se invece sforziamo la sua fantasia, allora lo tratterremo indietro nella sua crescita. Memoria e fantasia stanno in un misterioso rapporto con le forze di sviluppo che agiscono nell’essere umano” (p. 166).
Sarebbe dunque opportuno non solo non sforzare troppo la memoria del bambino longilineo e non eccitare troppo la fantasia del bambino brevilineo, ma anzi coltivare la fantasia nel primo e la memoria nel secondo.
Ricordate quanto abbiamo visto, a suo tempo (cfr. 7° incontro – ndr)? Abbiamo visto che la memoria nasce dalla (fredda) antipatia, mentre la fantasia nasce dalla (calda) simpatia.
Coltivando la fantasia, si possono perciò controbilanciare (“entro certi limiti”) le forze di antipatia che prevalgono nel bambino longilineo (a maggior ragione, se melanconico), così come, coltivando la memoria, si possono (sempre “entro certi limiti”) controbilanciare le forze di simpatia che prevalgono nel bambino brevilineo (a maggior ragione, se collerico).
Per poter fare tutto questo, è però necessario che il maestro, sin dall’inizio, osservi con cura ogni allievo, così da poter notare, alla fine dell’anno scolastico, in qual modo ciascuno è cambiato.
Dice Steiner: “Ecco perché è così importante conservare gli stessi scolari durante tutti gli anni di scuola, e perché è un sistema così assurdo quello di dare ogni anno gli scolari nelle mani di un altro maestro. La cosa presenta però anche l’aspetto reciproco: il maestro impara a poco a poco, all’inizio dell’anno scolastico e al principio dei periodi di sviluppo (settimo, nono e dodicesimo anno), a conoscere i suoi scolari. Impara quali sono gli scolari che appartengono nettamente al tipo “fantasia” (gli stenici, collerici o sanguigni – nda), che trasformano ogni cosa; e quali invece appartengono al tipo “memoria” (gli astenici, melanconici o flemmatici – nda), che sono capaci di ritenere tutto quanto. Può rendersi conto di questo (…) non tanto basandosi sulla crescita corporea esteriore, quanto basandosi appunto sulle qualità di memoria e di fantasia degli scolari. Occorre sapere se un bambino minaccia di allungarsi troppo in fretta, cosa che si verifica quando ha una memoria troppo buona; oppure se minaccia di restare troppo tarchiato, quando ha troppa fantasia. Non basta parlare in continuazione dei rapporti fra l’anima ed il corpo, ma bisogna anche saper osservare e riconoscere nell’essere umano in formazione l’azione reciproca del corpo, dell’anima e dello spirito” (pp. 166-167).
Potremmo dire, volendo, che la memoria è “solida”, mentre la fantasia è “liquida”, se non addirittura “aeriforme”. Grazie alla memoria, “fissiamo” ad esempio le cose; grazie alla fantasia costruiamo invece i “castelli in aria”. L’una insomma “coagula”, mentre l’altra “solve”.
Diceva Goethe: “Tutto l’effimero non è che un simbolo”. Anche il corpo fisico, effimero o caduco, è dunque un simbolo che, al pari di ogni altro, manifesta o rivela qualcosa che lo trascende: quanto vive, cioè, nell’anima e nello spirito.
Per interpretarlo correttamente, occorre pertanto sviluppare quella coscienza “ispirativa” o “illuminata” deputata appunto a leggere “la scrittura occulta”. “I segni della scrittura occulta – afferma infatti Steiner ne L’iniziazione – non sono ideati arbitrariamente, ma corrispondono alle forze che sono attive nel mondo”.
Abbiamo finito l’undicesima conferenza. La prossima volta cominceremo la dodicesima.
L.R. Roma, 1 giugno 2000
ANTROPOLOGIA 30° Incontro
Cominciamo subito a leggere.
Dice Steiner: “Quando studiamo il corpo umano, dobbiamo esaminare le sue relazioni col mondo fisico-sensibile circostante col quale il corpo stesso sta in rapporto continuo di scambi reciproci che mantengono l’organismo. Se gettiamo uno sguardo sul mondo fisico-sensibile che ci circonda, vi percepiamo dei minerali, dei vegetali e degli animali” (p. 169).
Vi percepiamo, cioè, quanto è presente anche nell’uomo quale corpo minerale (osseo), quale corpo vegetale (vegetativo) e quale corpo animale (psichico). E sappiamo (da La scienza occulta) che mentre l’evoluzione dell’uomo comincia nella fase antico-saturnia, l’evoluzione degli animali comincia nella fase antico-solare, quella dei vegetali nella fase antico-lunare, e quella dei minerali nell’attuale fase terrena: sappiamo, ossia, che l’uomo è il “primogenito” o l’essere più antico.
Ma è tutto l’uomo (l’intero suo corpo) a essere il più antico, o soltanto una sua parte? E se sì, quale?
Dice Steiner: “Prendiamo le mosse da quello che nell’uomo appare come la parte più perfetta (abbiamo già visto come stanno le cose in realtà), cioè dal sistema del cervello e dei nervi che è collegato con gli organi dei sensi. Abbiamo in questo sistema la parte dell’organismo umano che ha dietro di sé il più lungo periodo di evoluzione, cosicché si è sviluppata oltre la forma alla quale, evolvendosi, è giunto il mondo animale” (pp. 169-170).
La parte più antica dell’uomo è dunque la testa. Abbiamo appena ricordato, infatti, che la testa dell’uomo origina dall’evoluzione dell’antico-Saturno, mentre quella dell’animale origina da quella successiva dell’antico-Sole.
Dice Steiner: “Dobbiamo ora chiarire che cosa accada veramente quando la testa sta in rapporto di azione reciproca con gli organi del tronco e con gli arti. Dobbiamo rispondere a questa domanda: Che cosa fa propriamente la testa, quando compie il suo lavoro in connessione col sistema del petto e del tronco e col sistema degli arti? Il suo lavoro consiste nel formare, nel modellare continuamente (…) La testa e la configurazione della forma umana sono in stretta connessione fra loro. Ma possiamo forse dire che la testa formi la nostra vera e propria figura umana? No, essa non fa questo. Dovete ora accogliere l’idea che la testa cerca, continuamente e misteriosamente, di fare di voi qualcosa di diverso da quello che siete. Vi sono dei momenti in cui la testa vorrebbe configurarvi in modo da farvi apparire dei lupi. Vi sono altri momenti in cui la testa vorrebbe plasmarvi in maniera da sembrare degli agnelli. Altri momenti ancora in cui vorrebbe fare di voi dei vermi, dei draghi. Voi trovate fuori, nella natura, le differenti forme animali che la vostra testa progetta di realizzare con voi stessi. Se considerate il regno animale, potrete dirvi: io stesso sono tale, ma il mio sistema del tronco e gli arti mi rendono il servizio di trasformare continuamente in forma umana le forme d’animali che la testa vuol plasmare. Essi superano continuamente quanto di animalesco vi è nell’uomo; lo dominano in modo che non lo lasciano arrivare a realizzarsi” (pp. 170-171).
Abbiamo appreso, studiando La filosofia della libertà, che il volere è “forza”, mentre il pensiero è “forma”; non ci dovrebbe perciò meravigliare che il lavoro della testa (sede del pensare) consista “nel formare, nel modellare continuamente”; come non ci dovrebbe meravigliare che non sia la testa a formare la “nostra vera e propria figura umana”. Questa è opera infatti dell’Io, e la testa non ne è che una parte (la “più perfetta”).
E’ opportuno ricordarlo, perché viviamo in tempi di “cefalocentrismo”: ossia, in tempi in cui molti “hanno perso la testa” per la testa.
Ma che cosa vuol dire “idolatrare” la testa? Vuol dire rinunciare a umanizzarla, permettendole così di “animalizzarci”. Ma in che senso ci “animalizza”?
Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo ricordarci che il minerale è spazio, il vegetale è tempo e l’animale è qualità. La specie è infatti qualità, e quindi concetto. E che cos’è il concetto? E’ l’”Io di gruppo” o la legge che determina o governa il comportamento animale (scrive Hegel, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche: “L’organismo animale, come universalità vivente, è il concetto (…) Esso rappresenta il concetto nelle sue determinazioni sviluppate e in quanto esistono in lui”).
La testa “animalizza” dunque l’uomo riducendo l’Io individuale (che non risiede in essa, e che trascende la sfera astrale dei concetti) a Io di gruppo o specie.
Sul piano fisico, ad esempio, “specie” sono i longilinei, i brevilinei e i normolinei; sul piano eterico, “specie” sono i collerici, i flemmatici, i melanconici e i sanguigni; e, su quello astrale, ancora “specie” sono gli stenici (estroversi) e gli astenici (introversi). Solo l’Io non è “specie”, poiché è individuale, e per ciò stesso inclassificabile.
Ma non è tutto. “Specie”, infatti, sono anche (sul piano spirituale) i materialisti, i sensisti, i fenomenisti, i realisti, i dinamisti, i monadisti, gli spiritualisti, gli pneumatisti, gli psichisti, gli idealisti, i razionalisti e i matematisti: vale a dire, coloro che s’identificano con una di quelle dodici visioni o concezioni del mondo di cui parla Steiner in Pensiero umano e pensiero cosmico (Estrella de Oriente, Trento 2004 – ndr).
Più o meno inconsciamente l’uno dice, ad esempio: “Sono materialista, dunque sono”, così come l’altro dice invece: “Sono spiritualista, dunque sono”. Entrambi scambiano quindi l’idea per l’Io, divenendone per questo schiavi (e cominciando magari ad azzuffarsi tra loro come fanno, non a caso, “cani e gatti”).
Non mi stancherò mai di ricordare, al riguardo, che Steiner conclude La filosofia della libertà con queste parole: “Questo libro non concepisce perciò il rapporto fra scienza e vita nel senso che l’uomo debba piegarsi all’idea e consacrare le proprie forze al suo servizio, ma nel senso che egli debba impadronirsi del mondo delle idee per adoperarlo per i propri fini umani, i quali vanno al di là di quelli puramente scientifici. Dobbiamo poterci mettere di fronte all’idea in modo vivente; altrimenti si diventa schiavi di essa”.
Parliamoci chiaro: chi non capisce questo, non capisce l’antroposofia, e si troverà pertanto a dire (anche lui più o meno inconsciamente): “Sono antroposofo, dunque sono”.
Che cosa direbbe, invece, uno “spirito libero”, un Io? “Sono, dunque sono antroposofo”.
Ascoltate, in proposito, quanto afferma Steiner (in Dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1985 – ndr): “Se mi è concessa una parola schietta, che cosa infatti potrebbe darmi maggior gioia? Ho la massima gioia perché un uomo, con forza autonoma, in modo indipendente, attingendo a se stesso, libero, senza attenersi direttamente solo a ciò che io dico, ma sulla base delle proprie capacità, espone le cose basandole sulle cose stesse. Chi vuol lavorare liberamente, di null’altro si rallegrerà quanto d’una personalità indipendente che lavori spalla a spalla con lui e dia quel che è in grado di dare, dopo aver riconosciuto la sua connessione con l’insieme”.
Potremmo dunque dire, riprendendo il nostro passo, che uno spirito libero (un Io) non s’identifica mai con un lupo, con un agnello, con un verme o con un drago, bensì si serve di ciascuna di queste forze e qualità in funzione delle diverse esigenze che gli pone di volta in volta la realtà (non si legge, in Matteo: “Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe”?).
Risposta a una domanda
Vede, quando Jung parla degli “archetipi in sé”, parla di entità che sono in grado di determinare (inconsciamente) il nostro comportamento. Certo, quello di Jung non è uno zoo (uno zodiaco) in cui vivono lupi, agnelli, vermi o draghi, ma una sorta di Pantheonin cui abitano, ad esempio, l’Anima, l’Animus, il Puer o il Senex. Ma il risultato non cambia. Come, infatti, “vi sono dei momenti – secondo quanto dice Steiner – in cui la testa vorrebbe configurarvi in modo da farvi apparire dei lupi”, così vi sono delle fasi della vita (se non perfino delle vite intere) – come sostiene Jung – in cui l’archetipo, che so, del Puer vorrebbe configurarci in modo da farci apparire degli eterni ragazzini. Jung – a differenza di Steiner – non è arrivato però a scoprire che gli “archetipi in sé” sono concetti viventi, che i concetti viventi sono entità spirituali, e che tali entità (presenti nella testa dell’uomo) governano, in natura, quali Io di gruppo, il mondo animale.
Dobbiamo stare comunque attenti a non confondere l’animalità di cui parla qui Steiner con quella che siamo soliti attribuire, non alla testa, ma alle cosiddette “parti basse”. Come ho detto poc’anzi, l’animalità della testa significa infatti unilateralità e specializzazione: insomma, pars (ego), e non toto (Io). Senta quanto scrive per l’appunto Steiner: “Tutte le qualità sono unilaterali, e si deve riconoscere in che sono tali, e cercare di armonizzarle” (Iniziazione e misteri – Rocco, Napoli 1953 – ndr).
Risposta a una domanda
Consideri che l’antroposofia, essendo, per così dire, un “esoterismo essoterico” o un “essoterismo esoterico”, non viene compresa (schematizzando), vuoi da quanti ne stimano, da “destra”, soprattutto l’aspetto esoterico, vuoi da quanti ne stimano, da “sinistra”, soprattutto l’aspetto essoterico. I primi, in quanto animati, più o meno inconsciamente, dallo spirito dell’irrazionalismo, tendono a “mitizzarla”, mentre i secondi, in quanto animati, più o meno inconsciamente, dallo spirito dell’intellettualismo tendono a “formalizzarla”.
Come vede, negli uni si dà un difetto d’intelletto, negli altri un eccesso. Ed è proprio per questo che non riescono a capire l’antroposofia. Nel nostro tempo – scrive infatti Steiner (sempre in Iniziazione e misteri) “non c’è vera Iniziazione, che non passi per l’intelletto. Chi vuole oggi condurre agli “arcani superiori” evitando di passare per l’intelletto, non capisce nulla dei “segni dei tempi” e non può far altro che porre suggestioni nuove al posto delle antiche”. Sempre Steiner afferma inoltre (ne Il divenire dell’uomo – Antroposofica, Milano 2007 – ndr): “E’ particolarmente importante che vi siano persone in grado di comprendere con l’intelletto le conoscenze della scienza dello spirito, la conoscenza che viene cercata in mondi soprasensibili. Oggi la comprensione razionale, intellettuale, della scienza dello spirito è straordinariamente necessaria, perché è proprio questo il mezzo per avere ragione delle potenze culturali più resistenti. L’intelletto degli uomini, oggi, è talmente capace che tutta la scienza dello spirito può venir compresa, solo a volerlo”. Può essere interessante ricordare, in proposito, ciò che disse Adolf Hitler a Hermann Rauschning: “Dobbiamo diffidare dell’intelletto e della coscienza e avere fiducia negli istinti. Dobbiamo riconquistare una nuova ingenuità. Veniamo etichettati come nemici dell’intelletto. Sissignore, lo siamo” – H.Rauschning: Colloqui con Hitler – Tre Editori, Roma 1996 – ndr).
Ma torniamo a noi.
Dice Steiner: “Forme animali soprasensibili si muovono continuamente nell’uomo, e vengono disciolte. Che cosa accadrebbe se vi fosse un fotografo soprasensibile, capace di fissare questo processo, cioè di registrare le fasi dell’intero processo su delle lastre fotografiche? Che cosa si vedrebbe su queste lastre? Si vedrebbero i pensieri dell’uomo (…) Questa continua metamorfosi di quanto di animalesco scorre dalla testa verso il basso, non viene ad espressione sul piano fisico, ma agisce nell’uomo in modo soprasensibile, dando luogo al processo del pensiero (…) La testa non è soltanto quella pigrona che riposa sulle vostre spalle, ma è anche quella parte di voi che vorrebbe trattenervi nell’animalità. Essa vi dà le forme dell’intero regno animale, e vorrebbe che questo regno sorgesse continuamente in voi. Ma voi, per mezzo del vostro tronco e dei vostri arti, non permettete che attraverso di voi, nel corso della vostra vita, sorga un intero regno animale; voi trasformate invece questo regno animale nei vostri pensieri” (pp. 171-172).
Il che significa, alla luce di quanto abbiamo detto finora, che come impediamo, inconsapevolmente, ai concetti (agli “Io di gruppo” degli animali) di scorrere “dalla testa verso il basso”, di scendere cioè dal corpo astrale al corpo eterico e, mediante questo, al corpo fisico, così dovremmo impedire loro, consapevolmente, di salire dal corpo astrale all’Io, e di usurparne in tal modo il ruolo.
Dice Steiner: “Anche il sistema del tronco è in relazione col mondo circostante, ma non col regno animale, bensì con tutto l’insieme del mondo vegetale. Vi è una misteriosa relazione fra il tronco dell’uomo, il petto, e il mondo vegetale (…) Attraverso i suoi processi vitali, l’uomo inspira l’ossigeno e, unendolo col carbonio, produce l’anidride carbonica: se poi fosse in grado di separare nuovamente dentro di sé l’ossigeno e di espellerlo, elaborando però in sé il carbonio, che cosa sorgerebbe in lui? Il mondo vegetale (…) Questa facoltà esiste veramente nell’uomo: egli può creare continuamente un mondo vegetale. Soltanto, egli non lo lascia realizzare. Il suo sistema mediano, quello del tronco, ha fortemente la tendenza a produrre di continuo il mondo vegetale, ma la testa e gli arti vi si oppongono. E così l’uomo espelle l’anidride carbonica e non lascia sorgere in sé il regno delle piante. Fa sì che invece questo regno sorga fuori di lui dall’anidride carbonica” (pp. 172-173-174).
Alcune entità sono dunque attive (in forma di pensieri) nella sfera della testa (del corpo astrale-animale), altre entità sono attive (in forma di sentimenti) nella sfera del tronco (del corpo eterico-vegetale), e altre ancora – come vedremo tra poco – sono attive (in forma d’impulsi volitivi) nella sfera degli arti (del corpo fisico-minerale). Prescindendo da quelle cosiddette “elementari”, possiamo mettere quindi in rapporto tali entità, rispettivamente, con la terza, con la seconda e con la prima Gerarchia.
Ascoltate, infatti, quanto scrive Steiner, nelle sue Massime: “La terza gerarchia si manifesta come puro animico-spirituale. Essa opera in ciò che l’uomo sperimenta in modo animico del tutto intimamente (…) La seconda gerarchia si manifesta come un animico-spirituale che agisce nell’eterico. Tutto ciò che è eterico è manifestazione della seconda gerarchia. Essa però non si manifesta immediatamente nel fisico (…) La prima gerarchia, la più forte, si manifesta come ciò che è spiritualmente operante nel fisico. Essa forma a cosmo il mondo fisico. La terza e la seconda gerarchia sono qui le entità serventi”.
Dunque, come il tronco e gli arti impediscono alle forme animali attive nella testa di prendere, per così dire, “corpo”, così la testa e gli arti, a loro volta, impediscono alle forme vegetali attive nel tronco di fare altrettanto.
Ho parlato, poco fa, di pensieri, di sentimenti e d’impulsi volitivi. Non dimentichiamoci, però, che Steiner, in questa conferenza, intende mettere in luce soprattutto l’aspetto corporeo o fisiologico di queste dinamiche: vale a dire, la loro manifestazione eterico-fisica.
Dice Steiner: “Che cosa accade quando il regno vegetale nell’uomo comincia a comportarsi male, e la testa e gli arti non hanno la forza di soffocarlo e di espellerlo? Allora l’uomo cade ammalato. Le malattie interne che provengono dal sistema del petto e del tronco sorgono, in sostanza, dal fatto che l’uomo è troppo debole per impedire prontamente il nascere, entro di sé, del mondo vegetale (…) Cosicché l’essenza dei processi patologici va cercata nel fatto che delle piante cominciano a crescere entro l’uomo (…) Rivolgendo dunque lo sguardo sull’intero mondo vegetale che ci circonda, potremo dirci: in un certo senso, quel mondo di piante ci offre anche l’immagine di tutte le nostre malattie” (pp. 174-175).
Volendo cavarcela con una battuta, potremmo dire: sono belle e buone le rose che fioriscono fuori di noi, ma non quelle che fioriscono dentro di noi.
C’è comunque da sottolineare, battute a parte, che, riflettendo bene su questi processi, si può capire in che modo e per quale ragione – come si legge ne La scienza occulta – il regno animale, il regno vegetale e il regno minerale siano regni che derivano (per “espulsione” o “rigetto”) da quello umano.
Dice Steiner: “Anche con la nutrizione l’uomo accoglie in sé le sostanze del mondo circostante, ma non le lascia sussistere come sono, bensì le trasforma. Le trasforma proprio con l’ausilio dell’ossigeno inspirato con la respirazione. Le sostanze che l’uomo introduce in sé con la nutrizione si uniscono, durante la trasformazione, con l’ossigeno. Ciò appare come un processo di combustione, come se l’uomo bruciasse continuamente nel suo interno. E’ quello che afferma spesso anche la scienza: che nell’uomo si svolge un processo di combustione. Ma ciò non è vero. Quello che si verifica nell’uomo non è un vero e proprio processo di combustione, ma – fate bene attenzione – è un processo di combustione al quale manca il principio e manca la fine: vi è solo la fase intermedia. Nel corpo umano non devono mai aver luogo né il principio né la fine del processo di combustione” (pp. 175-176).
Che cosa dobbiamo intendere per “fase intermedia” di un processo di combustione? Steiner stesso lo esemplifica così: nel frutto acerbo, abbiamo il “principio” del processo di combustione; nel frutto marcio, la “fine”. E tutti sappiamo come sia salutare che l’uomo si cibi di frutti maturi, e dunque né acerbi né marci. Per digerire i primi dovrebbe infatti impegnare troppo il suo organismo di calore, mentre per digerire i secondi dovrebbe impegnarlo troppo poco.
Dicevano i greci: “In medio stat virtus”; e, come si vede, è appunto, “in medio” (tra l’acerbo e il marcio) che sta, come sempre, l’umano.
Dice Steiner: “Esaminiamo la respirazione: essa è l’opposto di tutto quello che si svolge fuori nel mondo vegetale (che assorbe e non espelle l’anidride carbonica – nda). E’ una specie di anti-regno vegetale, e si collega interiormente col processo della nutrizione, che a sua volta è la fase intermedia di un processo di combustione. Due diversi fenomeni si svolgono dunque nel nostro petto, nel nostro tronco. Questo processo “anti-vegetale”, che ha luogo mediante la respirazione, agisce in collaborazione con la fase intermedia degli altri fenomeni naturali esteriori. Queste due attività influiscono reciprocamente l’una sull’altra. E qui, vedete, s’incontrano l’anima e il corpo. Qui opera il misterioso rapporto fra l’anima e il corpo. Quando ciò che si svolge durante il processo di respirazione si collega con quella serie di fenomeni naturali, di cui soltanto la fase intermedia si compie nel corpo umano, allora l’elemento animico, che è l’anti-processo vegetale, entra in contatto con ciò che si è trasformato in elemento corporeo umano e che è sempre la fase mediana dei processi naturali” (pp. 176-177).
Ha ben ragione, Steiner, di asserire che questo è di “enorme importanza”. Abbiamo qui infatti la chiave per comprendere la genesi dei disturbi cosiddetti “psico-somatici”: di quei disturbi, cioè, che non possono essere ovviamente compresi, né da chi considera reale soltanto la psiche, né da chi considera reale soltanto il corpo, e nemmeno da chi, non sapendo spiegarsi il loro rapporto reciproco, parla – come fa ad esempio Freud – di un “misterioso salto dalla mente al corpo”.
Dal punto di vista animico, abbiamo visto che il processo “anti-vegetale” è quello del sentire, mentre il processo di “combustione” è quello del volere. Dove “l’anti-processo vegetale, entra in contatto con ciò che si è trasformato in elemento corporeo umano e che è sempre la fase mediana dei processi naturali”, è dunque il sentire a entrare in contatto col volere, come accade quando siamo mossi, col frazionarsi dell’inspirazione, al pianto o, col frazionarsi dell’espirazione, al riso (cfr. R.Steiner: L’uomo si esprime nel linguaggio, nel riso e nel pianto – Antroposofica, Milano 1984 – ndr).
Abbiamo fatto tardi. Continueremo giovedì prossimo.
L.R. Roma, 8 giugno 2000
ANTROPOLOGIA 31° Incontro
Abbiamo visto, la volta scorsa, che il tronco e gli arti impediscono alle forme animali attive nella testa di prendere “corpo”, mentre la testa e gli arti lo impediscono alle forme vegetali attive nel tronco. Vedremo adesso che sono soprattutto gli arti a neutralizzare le forme minerali delle sostanze che assumiamo nutrendoci.
Prima, però, sarà opportuno fare qualche altra breve considerazione sul problema delle malattie.
Dice Steiner: “Così s’intreccia quel fine tessuto di processi che la medicina e l’igiene del futuro dovranno studiare in modo del tutto speciale (…) In rapporto a questi fatti la medicina odierna si trova ancora ai suoi primissimi inizi: essa, per esempio, attribuisce maggior valore alla scoperta di bacilli, di batteri, come cause di forme patologiche, e quando li ha trovati è contenta. Ma è molto più importante riconoscere come accada che l’uomo, a un certo momento della sua vita, sia capace di sviluppare in sé un leggerissimo processo di vegetazione, in modo che i bacilli vi sentano un luogo di soggiorno gradevole. L’importante è che noi conserviamo la nostra costituzione fisica in uno stato tale che essa non possa diventare un luogo di soggiorno favorevole per nessuna genìa vegetale; se faremo ciò, i signori bacilli non potranno prosperare troppo dentro di noi” (pp. 177-178).
Penso sappiate che tra le numerose fobie vi è anche la “patofobia”: ovvero, la fobia delle malattie. Si tratta indubbiamente di uno stato morboso, ma non si può negare che l’odierna mentalità medica (allopatica) favorisca non poco il suo insorgere. Pensare che le malattie siano l’effetto e i batteri o i virus la causa, pensare cioè di vivere in un ambiente affollato da innumerevoli microrganismi pronti direttamente o indirettamente (mediante il contagio) ad aggredirci, infirmando o distruggendo così la nostra salute, può fare in effetti paura (se non addirittura generare, per reazione, degli stati paranoidei).
Basterebbe però riflettere sul fatto che esistono i cosiddetti “portatori sani”, ossia coloro che, pur ospitando nel loro organismo il presunto ”agente patogeno”, non sviluppano la malattia, per realizzare che tale spiegazione meccanicistica dell’insorgere delle malattie lascia molto a desiderare.
Fatto si è che i “signori bacilli” possono “prosperare” soltanto quando trovano, in noi, un habitat a loro favorevole. E quando ve lo trovano? Quando non funziona a dovere il cosiddetto “sistema immunitario”: ovvero, quando il tronco e gli arti non neutralizzano l’attività “animale” della testa, quando la testa e gli arti non neutralizzano l’attività “vegetale” del tronco, o quando gli arti non neutralizzano l’attività “minerale” delle sostanze ingerite con l’alimentazione; quando l’uomo, insomma, avvicinandosi troppo alla vita animale, vegetale o minerale, perde il suo (instabile) equilibrio umano.
Se è vero, come ho ricordato giovedì scorso, che “in medio stat virtus”, ancor più vero, dunque, è che “in medio stat humanitas” (tant’è – afferma Steiner – che l’uomo autentico è quello del tronco, mentre l’uomo della testa è arimanizzato e quello delle membra è luciferizzato).
La malattia rappresenta quindi una perdita di humanitas, mentre la guarigione ne rappresenta il ritrovamento.
In quanto membri di un’umanità “caduta” (“l’uomo – afferma Scaligero – è un malato in via di guarigione”), ci troviamo tuttavia in una condizione nella quale la malattia (quale “negazione di una negazione”), può rappresentare, al contrario, il ritrovamento dell’humanitaso, per meglio dire, un’opportunità o un’occasione di ritrovarla (non a caso, le entità luciferiche e arimaniche si tengono prudentemente alla larga dagli ospedali, o da qualsiasi altro luogo di sofferenza).
Dice infatti il Cristo, riferendosi a Lazzaro: “Questa non è una malattia da morirne, ma è per la gloria di Dio, affinché il Figlio di Dio ne sia glorificato”.
Dice Steiner: “Ora resta ancora una questione da studiare: come si comportano, nell’insieme dei processi vitali umani, lo scheletro e i muscoli, quando esaminiamo il corpo umano nei suoi rapporti col mondo esterno? Arriviamo così a qualcosa che dovete assolutamente afferrare se volete comprendere l’uomo, ma di cui la scienza moderna non ha ancora intravisto quasi nulla (…) Pensate di poter fotografare, per mezzo di un processo ingegnoso, non l’uomo che cammina, ma le forze che egli adopera quando cammina, per alzare la gamba, per posarla di nuovo, per alzare l’altra gamba, e via di seguito. Dell’uomo, dunque, non si fotograferebbe nulla; soltanto le forze in gioco. Se poi poteste vedere svilupparsi queste forze, vedreste la fotografia di un’ombra, anzi, nella marcia, di una serie di ombre. Commettete un grave errore se credete che il vostro io viva nei vostri muscoli, nella vostra carne. Anche quando siete svegli, il vostro io non vive nei muscoli e nella carne, ma vive principalmente nelle ombre che risulterebbero dalle suddette fotografie, cioè nelle forze mediante le quali il vostro corpo compie i suoi movimenti (…) Voi vivete continuamente entro delle forze” (pp. 178-179).
Una cosa è il movimento, altra il mosso. Noi ad esempio ci muoviamo, mentre i pantaloni, i calzini o le scarpe che indossiamo sono mossi.
Ebbene, l’intero corpo fisico (minerale) non si muove, ma è mosso. Che cos’è infatti il corpo fisico? E’ ciò che Steiner chiama, nelle sue Massime, l’”opera compiuta” (dell’”Entità divino-spirituale”): ossia, il “fatto”, il “finito” o il “divenuto”.
L’Io vive dunque nel movimento (“entro delle forze”), e non nel mosso (“nei muscoli e nella carne”). Il mosso (il corpo fisico) è infatti una forma o un’immagine dell’Io che, se non fosse mossa dalla forza dell’Io, non si muoverebbe (così come non si muove il cadavere, in quanto abbandonato appunto dall’Io).
Il movimento è tempo e vita. Non si possono perciò pensare il tempo e la vita se non si sa pensare il movimento. E come s’impara a pensare il movimento? Muovendo il pensiero e osservandolo (mediante l’esercizio della concentrazione).
Ascoltate quanto scrive Scaligero (in Tecniche della concentrazione interiore – Mediterranee, Roma 1985): “Delle tre facoltà, pensare, sentire, volere, che l’uomo moderno ha unicamente riflesse dal fisico, una sola può essere da lui ripercorsa a ritroso sino alla radice metafisica: il pensare (…) Il pensiero può ripercorrere il proprio processo: con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità…”.
Dice Steiner: “Quando vi nutrite, accogliete in voi anche sostanze minerali di tutti i generi. Anche quando non salate fortemente la minestra, assorbite lo stesso delle sostanze minerali, perché tutti gli alimenti ne contengono. Avete bisogno di assorbire sostanze minerali. E che cosa fate di tali sostanze? La vostra testa non può fare gran che con esse; e neppure il sistema del petto e del tronco. Ma il sistema delle membra, invece, impedisce che queste sostanze minerali prendano entro di voi la forma cristallina che ad esse è propria. Se non sviluppaste le forze del sistema degli arti, diventereste un cubo di sale non appena aveste ingerito del sale. Il sistema degli arti, lo scheletro e il sistema dei muscoli hanno la tendenza continua ad agire in senso opposto alla formazione di minerali come l’ha la terra; cioè tendono a dissolvere i minerali. Le forze che nell’uomo dissolvono i minerali, provengono dal sistema degli arti” (pp. 179-180).
Fuori dell’uomo, il minerale fa il minerale, il vegetale fa il vegetale e l’animale fa l’animale; dentro l’uomo, invece, il minerale, il vegetale e l’animale devono fare soltanto ciò di cui l’umano ha bisogno. A tal fine, l’Io deve incessantemente mantenere entro i limiti umani l’attività del corpo astrale (animale), utilizzando al contempo il corpo astrale, per mantenere entro i limiti umani l’attività del corpo eterico (vegetale), e il corpo eterico, per mantenere entro gli stessi limiti l’attività del corpo fisico (minerale).
Dice Steiner: “Quando un processo patologico sorpassa lo stadio puramente vegetativo, cioè quando il corpo ha la tendenza a lasciar sviluppare in sé non solo il vegetale, ma anche a permettere un processo di cristallizzazione dei minerali, allora si tratta di una forma di malattia molto più grave, più distruttiva, come per esempio il diabete” (p. 180).
Vorrei approfittare di questo accenno al diabete, per cercare di chiarire ancora una volta l’equivoco di cui è solitamente vittima il concetto di forza o di volontà.
Affermare – come fa Steiner – che “le forze che nell’uomo dissolvono i minerali, provengono dal sistema degli arti” equivale infatti a dire che provengono, dal punto di vista animico, dalla volontà. E che cosa dovremmo pensare, allora, vedendo distruggere dal diabete – come a me è purtroppo capitato – proprio un uomo del “fare”, cioè un uomo intraprendente, attivo, aggressivo, e giudicato quindi “forte” o “volitivo”?
Dovremmo concludere che un caso del genere ci obbliga a rivedere quanto sostenuto da Steiner? Niente affatto. Dovremmo piuttosto concludere che ci obbliga a rivedere la nostra rappresentazione della forza o della volontà. Questa, infatti, è normalmente ipotecata da Arimane.
Ricordo ancora quanto mi disse una volta Scaligero: “E’ facile essere forti quando si è cattivi; è facile essere buoni quando si è deboli; difficile è essere forti perché buoni, e buoni perché forti”.
Qual è dunque il nostro compito? Strappare ad Arimane l’idea della forza per restituirla al Cristo. Ma non a quello del solo Venerdì santo o della sola passione e morte, che, nell’apparirci – come si usa appunto dire – un “povero Cristo”, finisce di fatto col riconfermare l’idea che la forza stia altrove, bensì al Cristo del Venerdì santo e della Pasqua, ossia della morte e della resurrezione.
La vera forza, dunque, è quella dell’anima unita amorevolmente allo spirito (“il Signore è con te”): la forza di Lucifero (apparente come debolezza umana) è infatti quella di un’anima senza spirito, mentre quella di Arimane (apparente come forza umana) è quella di uno spirito senz’anima.
Abbiamo finito la dodicesima conferenza. Cominciamo subito la tredicesima.
Dice Steiner: “Dobbiamo prendere in considerazione un duplice aspetto del rapporto dell’uomo col mondo perché, come abbiamo detto, la conformazione degli arti è del tutto opposta a quella della testa. Dobbiamo renderci familiare la difficile idea secondo la quale non possiamo comprendere la forma degli arti se non ci rappresentiamo la forma della testa per analogia con un guanto o con una calza che vengono rovesciati. Il fenomeno che viene ad esprimersi in questo modo è di grandissima importanza per tutta la vita umana. Se rappresentiamo ciò con un disegno (con quello a p. 182 – nda), le cose stanno così: la testa è formata in modo che vi si eserciti una pressione dall’interno verso l’esterno ed essa venga come gonfiata da dentro. Se invece pensiamo agli arti, dobbiamo rappresentarci che, per effetto del rovesciamento di cui abbiamo parlato, la pressione su di essi viene esercitata dall’esterno verso l’interno; ciò ha un grande significato per la vita umana. Immaginatevi che ciò che costituisce il vostro essere interiore prema dall’interno contro la vostra fronte: ora, la superficie interna delle vostre mani e dei vostri piedi risente anch’essa continuamente una pressione che è uguale a quella che si esercita dall’interno sulla fronte, ma che è diretta in senso contrario. Mentre poi portate la mano incontro al mondo esterno o appoggiate la pianta del piede sopra il suolo, entra in voi, attraverso la mano o il piede, una corrente dall’esterno che è la stessa che fa pressione dall’interno contro la fronte” (pp. 182-183).
Possiamo farci un’idea di queste due opposte correnti, pensando a quelle animiche del pensare e del percepire. La prima (efferente) esercita infatti “una pressione dall’interno verso l’esterno”, mentre la seconda (afferente) l’esercita “dall’esterno verso l’interno”. Se poi ci ricordiamo che il percetto è quella metà dell’entelechia (dell’essenza dell’oggetto o del fenomeno) che muove dall’oggetto incontro al soggetto, mentre il concetto è quella metà della stessa che muove dal soggetto incontro all’oggetto, possiamo anche capire il perché Steiner dica che si tratta di due pressioni o correnti uguali. Per questo – come pure ricorderete – ho sempre parlato dell’immagine percettiva come del risultato dell’incontro o dello scontro dell’essenza dell’oggetto con quella del soggetto (con l’Io).
Dice Steiner: “E che cos’è l’uomo di fronte a questo elemento animico-spirituale che scorre in lui? Immaginate un corso d’acqua che incontri uno sbarramento: esso si arresta e rifluisce indietro. Così nell’uomo rifluisce la corrente animico-spirituale, l’uomo è come uno sbarramento per questa corrente. Essa vorrebbe passare liberamente attraverso il corpo umano, ma ne viene trattenuta e deve rallentare, fino ad arrestarsi (…) E come agisce essa nei riguardi del corpo fisico? Tende continuamente a succhiarlo, ad assorbirlo. L’uomo si distingue dal mondo esterno, ma le forze animico-spirituali che stanno in quel mondo cercano continuamente di assorbirlo. Perciò noi ci sfaldiamo continuamente (…) Effettivamente lo spirito, venendo dall’esterno vuole distruggerci succhiandoci; esso tende a distruggere tutto, ma il corpo si oppone a questa azione distruggitrice. Nell’uomo deve essere creato un equilibrio tra le forze distruggitrici del mondo animico-spirituale, e quelle incessantemente costruttrici del corpo. Il sistema del petto e dell’addome è inserito in questa corrente, ed è quello che si oppone alla distruzione cui tende l’animico-spirituale; è anche quello che rifornisce di materia l’uomo intero” (pp. 183-184).
Benché si stia parlando del corpo, torniamo ancora una volta, per aiutarci, a La filosofia della libertà. Abbiamo detto che il percetto è quella metà dell’entelechia (dell’essenza dell’oggetto o del fenomeno) che muove dall’oggetto incontro al soggetto, mentre il concetto è quella metà della stessa che muove dal soggetto incontro all’oggetto. E’ solo però nell’incontro o nello scontro con l’uomo che l’entelechia si divide in queste due metà. Ecco lo “sbarramento”: ed ecco quindi come nasce un essere destinato non soltanto, come tutti gli altri, a esistere, ma a divenire cosciente della propria esistenza ed essenza.
Ricordo, a questo proposito, di aver detto, una sera (cfr. 17° incontro), che il circolo o l’anello della natura (l’inconscia continuità naturale) deve spezzarsi, se si vuole che una sua estremità possa osservare e pensare, avendola di fronte a sé, l’altra.
Da questo punto di vista, l’uomo è un’autentica “zeppa” inserita nel corpo della natura. Pensate che Paolo Flores d’Arcais, nel suo L’individuo libertario (cfr. L’individuo libertario, 2 febbraio 2002 – ndr), definisce, quella umana, “una specie zoologica contro-natura”, senza rendersi conto che tale specie in tanto è “contro-natura” in quanto è spirituale e non “zoologica” o naturale, e che non è “zoologica” o naturale proprio perché impedisce alle forze animico-spirituali del mondo di fare con gli uomini quel che fanno con i minerali, i vegetali e gli animali.
Se dipendesse dalla natura, cioè a dire dalle forze animico-spirituali che vi operano, verremmo, come uomini, distrutti.
Considerate, ad esempio, quei processi infiammatori che comportano, come nel caso della tisi, un dissolvimento o una distruzione della sostanza. Un tempo, di qualcuno morto di tisi, non si diceva che era morto appunto di “consunzione”?
Da sole, dunque, sia la corrente cosmica che preme (nella testa) dall’interno verso l’esterno, sia quella che preme (negli arti) dall’esterno verso l’interno, non consentirebbero all’uomo di essere (anche fisicamente) quello che è; è perciò necessario che intervenga, come sempre, una “terza” corrente (quella “del petto e dell’addome”) a contrastare, bilanciare e armonizzare le opposte azioni delle prime due.
In ogni caso, che le une si mostrino “distruggitrici” e le altre “creatrici” dipende dal punto di vista da cui le si osserva.
Osservate dal punto di vista della coscienza (del nervo), risultano ad esempio “creatrici” le correnti o le forze che per la vita sono “distruggitrici”; osservate dal punto di vista della vita (del sangue), risultano invece “creatrici” quelle che per la coscienza sono “distruggitrici”.
Ci fermiamo qui. Continueremo la prossima volta.
L.R. Roma, 15 giugno 2000
ANTROPOLOGIA 32° Incontro
Abbiamo visto, giovedì scorso, che la corrente animico-spirituale del mondo esterno tenderebbe a smaterializzarci, ma che il corpo umano le si oppone, “trattenendola”, “rallentandola” e “arrestandola”. Abbiamo anche provato a farci una prima idea della realtà di questa dinamica, spostando l’attenzione dal piano corporeo a quello animico.
Adesso, però, dobbiamo tornare sul piano corporeo, poiché è a questo che Steiner qui si riferisce.
Ripartiamo, dunque, da questa sua affermazione: “Il sistema del petto e dell’addome è inserito in questa corrente, ed è quello che si oppone alla distruzione cui tende l’animico-spirituale; è anche quello che rifornisce di materia l’uomo intero”.
La corrente animico-spirituale del mondo esterno investe dunque gli arti, il petto, l’addome e la testa, ma sono il petto e l’addome (il centro) a rifornire di materia gli arti e la testa (la periferia). E come?
Dice Steiner: “I nostri arti, i quali emergono oltre il tronco, sono quanto vi è in noi di più spirituale, poiché in essi il processo produttore di materia si svolge in grado minimo: gli arti debbono la loro materialità soltanto a ciò che il sistema del tronco invia loro attraverso i processi del ricambio. Gli arti possiedono un alto grado di spiritualità e, quando eseguono dei movimenti, vengono alimentati dal resto del corpo” (p. 184).
Osservando lo scheletro umano, è in effetti difficile non notare la grande differenza che c’è tra la pesante e rotondeggiante struttura ossea della testa (in specie della scatola cranica) e quella leggera lineare e raggiata degli arti, così com’è difficile non notare che, nella testa, la struttura ossea è esterna e quella non-ossea (il cervello) è interna, mentre negli arti la struttura ossea è interna e quella non-ossea (muscolare) è esterna. Ciò potrebbe già permetterci di capire – come vedremo tra breve – che il tronco e l’addome forniscono di materia morta la testa e di materia vivente gli arti.
Dice Steiner: “Se gli arti si muovono troppo poco o si muovono in modo ad essi inadatto, non sottraggono al corpo delle sostanze in quantità sufficiente. Il sistema del tronco si trova allora nella felice situazione – felice dal suo punto di vista – che gli arti non gli sottraggono abbastanza materia. Esso impiega allora la parte inutilizzata per creare nell’uomo della materialità supplementare (…) Questo soprappiù pervade ciò che l’uomo non dovrebbe avere e che ha materialmente soltanto perché è un essere terrestre, qualcosa che, nel vero senso della parola, non ha nessuna propensione verso l’animico-spirituale: questa cosa che pervade sempre più il corpo è il grasso. Ma quando il grasso si deposita in modo anormale, pone un vero e proprio ostacolo al processo animico-spirituale che è un processo di assorbimento, e rende difficile a tale processo di arrivare fino al sistema della testa (…) Più tardi nella vita il fatto di ingrassare dipende da altre cause assai svariate, ma nell’infanzia si ha sempre modo, in bambini normali, di controbilanciare con un’alimentazione appropriata la tendenza ad ingrassare troppo (…) Ma non si può sentire la giusta responsabilità di fronte a queste cose, se non se ne misura l’enorme importanza, se non si riconosce che, autorizzando i bambini a nutrirsi in modo da accumulare troppo grasso, si impedisce lo svolgersi del processo cosmico che tende a far sì che l’elemento spirituale-animico scorra attraverso l’uomo” (pp. 184-185).
Abbiamo appena detto che il tronco e l’addome forniscono di materia vivente gli arti. Ed ecco infatti che quando gli arti vivono (“si muovono”) troppo poco o vivono (“si muovono”) in modo ad essi inadatto, la materia da loro inutilizzata si deposita come grasso: cioè a dire come una sostanza della quale non si sono serviti gli arti e della quale non può servirsi la testa, che vi trova anzi un ostacolo (in quanto – direbbe un orientale – è “tamas”, e quindi attratta in basso dalla gravità).
Varrà la pena ricordare, in proposito, che proprio in questi giorni si è avuta notizia che i bambini italiani, stando almeno alle statistiche, sarebbero, tra quelli europei, i più obesi.
Ma vediamo adesso che cosa succede nella testa.
Dice Steiner: “Nella testa dell’uomo avviene veramente qualcosa di meraviglioso: qui viene a fermarsi la corrente animico-spirituale, e rifluisce indietro, come l’acqua quando incontra uno sbarramento (…) In questo riflusso si ha un continuo depositarsi di materia entro il cervello. E quando questa materia, ancora compenetrata di vita, vien respinta indietro e si deposita, allora si forma il nervo. Il nervo si forma sempre quando della materia, trascinata dallo spirito attraverso la vita, si deposita e muore entro un organismo vivente. Il nervo è dunque della materia morta in seno ad un organismo vivente, della materia da cui la vita si ritrae, rifluendo su se stessa, disgregando, sbriciolando la sostanza. In tal modo si formano nell’uomo dei canali, che si estendono dappertutto e sono riempiti di materia morta, i nervi. Lungo i nervi l’elemento animico-spirituale può rifluire nell’uomo; l’animico spirituale scorre lungo i nervi, perché si serve della materia morta” (pp. 185-186).
La realtà animico-spirituale ci viene dunque incontro e ci attraversa, ma, attraversandoci, viene accolta, frenata e arrestata. Potremmo dire, volendo, che viene “accolta” nella sfera dell’inconscio o del sonno (degli arti), che viene “rallentata” in quella del subconscio o del sogno (del tronco) e che viene “arrestata” in quella del conscio o della veglia (della testa).
In virtù di questo viaggio, all’interno dell’uomo, la forza-forma animico-spirituale si trasforma in forma animico-spirituale: ovvero, la volontà-pensiero cosmica si trasforma nel pensiero umano. Questo viaggio equivale quindi a un processo inteso a distillare la forma dalla forza, liberandola gradualmente da questa.
Ma che cos’è una forma liberata interamente dalla forza? E’ una forma “morta”, tanto sul piano della sostanza (del nervo) quanto su quello del pensiero (riflesso).
Sarà forse il caso di ricordare, ancora una volta, che una cosa è l’animico-spirituale che si fa vita della sostanza, e che si presenta o manifesta perciò come tale (ad esempio, come cellula), altra è l’animico-spirituale che si presenta o manifesta come “animico-spirituale”: che si spoglia cioè del suo abito vitale e sostanziale, per presentarsi nudo di fronte allo specchio cerebrale e poter così acquisire una prima e riflessa coscienza di sé.
Ma c’è di più. Abbiamo appena detto che una forma, liberata interamente dalla forza, è una forma “morta”. E che cos’è invece – domandiamoci – una forza liberata interamente dalla forma (un volere interamente liberato dalla forma conferitagli dal karma)? E’ presto detto: una libera volontà.
Ascoltate infatti quanto dice Steiner, ne La filosofia della libertà: “La volontà è libera. Non può però osservare questa libertà della volontà chi non sia in grado di vedere che la libera volontà consiste nel fatto che soltanto dall’elemento intuitivo la necessaria attività dell’organismo umano viene paralizzata, respinta, e sostituita dall’attività spirituale della volontà piena d’idee. Solamente chi non può fare questa osservazione della duplice articolazione di un libero volere, crede alla non libertà di ogni volere. Chi invece sia in grado di osservarla si apre un varco alla comprensione del fatto che in tanto l’uomo non è libero, in quanto non è capace di compiere fino in fondo il processo di repressione dell’attività organica, e che però questa non-libertà anela alla libertà, la quale non è per nulla un ideale astratto, bensì una forza dirigente che risiede nell’essere umano”.
A ben vedere, “compiere fino in fondo il processo di repressione dell’attività organica”, vuol dire appunto infrangere quella unità di forza (volere) e di forma (pensare) che domina e governa l’intera natura (il pensare nel volere è quel segreto della natura cui non hanno accesso, vuoi i filosofi della sola volontà, vuoi quelli del solo pensiero): vuol dire cioè dividere la forza dalla forma e la forma dalla forza, per poi tornare a riunirle (quale volere nel pensare), non come si danno necessariamente (incoscientemente) in natura, ma come sono chiamate a darsi liberamente (coscientemente) nell’uomo.
Che cosa abbiamo detto infatti l’ultima volta? Che l’uomo è un’autentica “zeppa” inserita nel corpo della natura: ossia un “cuneo” che divide appunto la forma dalla forza e la forza dalla forma, al fine di creare, sulla Terra, il nuovo regno della libertà e dell’amore.
Dice Steiner: “Come possiamo dunque rappresentarci ciò che è organico, ciò che è vivente? Possiamo rappresentarcelo come qualcosa che arresta e accoglie in sé l’animico-spirituale, che non lo lascia passare. Possiamo invece rappresentarci la sostanza morta, materiale, minerale, come qualcosa che lascia passare l’animico-spirituale (…) Ciò che vive organicamente è impenetrabile per lo spirito, mentre la materia morta si lascia attraversare dallo spirito. “Il sangue è un succo del tutto peculiare”, perché si comporta di fronte allo spirito come una sostanza opaca di fronte alla luce: non lascia passare lo spirito, ma lo trattiene in se stesso. Anche la sostanza nervosa è una sostanza assai peculiare; è come un vetro trasparente di fronte alla luce. Come un vetro trasparente lascia passare la luce, così la materia fisica morta, ed anche la sostanza nervosa, lascia passare lo spirito” (pp. 186-187).
Potremmo anche dire che il sangue, in quanto permeabile dallo spirito, lo assorbe, mentre il nervo, in quanto impermeabile allo spirito, lo lascia andar via.
Pensate alla Luna. La sua parte luminosa è tale perché non assorbe, e per ciò stesso riflette, la luce solare, mentre la sua parte oscura è tale perché l’assorbe, e per ciò stesso non la riflette. Possiamo pertanto paragonare “ciò che vive organicamente” alla Luna oscura e la “materia morta” alla Luna chiara, che per l’appunto riflette la luce solare, così come il cervello riflette il pensiero vivente.
Dice Steiner: “Come vedete, vi è una differenza tra due parti costitutive dell’uomo: tra ciò che in lui vi è di minerale e che si lascia attraversare dallo spirito, e ciò che vi è di animale, di organico-vivente, che trattiene in sé lo spirito inducendolo a produrre le forme che configurano l’organismo” (p. 187).
Vi è cioè differenza, in lui, tra ciò che lascia che lo spirito conservi (seppure riflesse) le sembianze dello spirito, e ciò che conferisce invece allo spirito le sembianze, mettiamo, del fegato, dei reni, dei polmoni o del cuore.
Guardate le foglie in primavera: sono turgide e piene di vita, proprio perché lo spirito vi si è calato interamente. Guardatele invece in autunno: sono secche e prive di vita, proprio perché lo spirito ne è fuoriuscito. Nel primo caso, lo spirito ci si dà dunque in forma di foglia; nel secondo, in forma appunto di spirito (in forma – direbbe Goethe – di Urpflanze).
Durante la primavera e l’estate, la natura inspira infatti lo spirito, mentre durante l’autunno e l’inverno lo espira.
Dice Steiner: “Quando l’uomo lavora fisicamente, egli muove i suoi arti. Ciò significa che egli nuota, per così dire, entro lo spirito (…) Sia che tagliate della legna, sia che camminiate o comunque muoviate i vostri arti per un lavoro utile o inutile, voi diguazzate continuamente nell’elemento spirituale, siete continuamente in rapporto con lo spirito. Questo fatto è molto importante. Ma è ancora più importante se ci domandiamo come stiano le cose quando lavoriamo spiritualmente, quando pensiamo o leggiamo. In questo caso non nuotiamo coi nostri arti dentro il mondo spirituale esteriore; bensì l’elemento spirituale-animico che è dentro di noi lavora, servendosi continuamente del nostro corpo, cioè si esprime completamente in noi mediante un processo fisico-corporeo. In questo processo della materia viene continuamente ad urtare come contro uno sbarramento, e rifluisce all’indietro. Nel lavoro spirituale il nostro corpo svolge un’attività sovrabbondante, mentre nel lavoro fisico-corporeo è il nostro spirito che svolge un’attività sovrabbondante (…) Il lavoro del corpo è spirituale, il lavoro dello spirito è corporeo, per quanto riguarda l’uomo. Dobbiamo far nostra questa verità paradossale, e comprendere che nell’uomo il lavoro corporeo è spirituale, e il lavoro spirituale è corporeo. Lo spirito ci irrora da fuori quando eseguiamo un lavoro fisico. La materia è attiva in noi quando lavoriamo spiritualmente” (pp. 187-188).
Qual è dunque il paradosso? Che l’homo faber è uomo “spirituale”, mentre l’homo sapiens è uomo “corporeo”. Ma attenzione: il primo consuma lo spirito (incosciente) per lavorare col corpo, mentre il secondo consuma il corpo per lavorare con lo spirito (cosciente).
Dice Steiner: “Noi ci spiritualizziamo in modo eccessivo quando lavoriamo troppo fisicamente: dall’esterno ci rendiamo troppo spirituali. Quale conseguenza ne deriva? Che noi dobbiamo abbandonarci per troppo tempo allo spirito, cioè dobbiamo dormire troppo a lungo. Se lavoriamo eccessivamente col nostro corpo, dobbiamo dormire troppo (…) Ma da che cosa proviene allora che i fannulloni dormono così volentieri e così a lungo? (…) Il fannullone dorme tanto non perché lavora troppo poco, giacché anch’egli muove le gambe e gesticola con le mani e le braccia per tutta la durata del giorno. Anche il fannullone agisce in qualche modo. Guardando dal di fuori, si può dire che egli non fa niente di meno di quanto non faccia l’uomo attivo, ma si muove senza un senso. L’uomo attivo si dedica al mondo esteriore, dà un senso alle sue attività: e in ciò sta la differenza” (pp. 188-189).
La differenza sta cioè nel fatto che l’uomo attivo, dando un senso (cosciente) al suo lavoro fisico, lo spiritualizza, mentre il fannullone, non dandogli un senso, lo lascia nelle mani (incoscienti) della natura.
Dice Steiner: “Occorre che noi ci compenetriamo di queste parole – agire sensatamente – se vogliamo diventare educatori di bambini. E quando l’uomo agisce invece irragionevolmente? Quando non fa nient’altro che quello che il suo corpo richiede. Agisce sensatamente quando compie azioni quali le richiede il mondo circostante, e non soltanto il suo corpo” (p. 189).
Pensate, ad esempio, a tutti quelli che oggi praticano il cosiddetto “footing” o che vanno in palestra. Non mettono forse (insensatamente) lo spirito al servizio del corpo?
Sia chiaro, non si tratta qui di “mortificare la carne”, bensì di educarla; e la si educa in modo sano solo se la si educa indirettamente. Se vogliamo curare davvero noi stessi, se vogliamo davvero il nostro bene, dobbiamo perciò curare il mondo e volere il suo bene (compiendo “azioni quali le richiede il mondo circostante”). Quanti ricercano invece direttamente il proprio bene (quello del corpo), finiscono prima o poi col farsi del male. O non è vero, forse, che passiamo gran parte della seconda metà della nostra vita tentando di rimediare alle molte sciocchezze che abbiamo fatto durante la prima?
Pensate che l’autopsia di molti giovani soldati americani caduti durante la guerra nel Vietnam ha rivelato numerosi casi di arteriosclerosi: cioè a dire, di una patologia che consiste nel progressivo indurimento delle arterie, e che accompagna di solito la vecchiaia.
Dice Steiner: “Più noi faremo fare della pura ginnastica, e più porteremo il bambino a provare un eccessivo bisogno di sonno e a sviluppare una tendenza all’ingrassamento (…) Che della ginnastica si sia fatta a poco a poco un’attività priva di significato, che si occupa unicamente del corpo, è stato un fenomeno che ha accompagnato l’epoca del materialismo. La nostra pretesa di far dello sport, dove non solo si eseguono dei movimenti privi di senso, ma dove si sviluppa il senso della rivalità, dell’opposizione, corrisponde allo sforzo di abbassare l’uomo non solo a non avere che pensieri materiali, ma anche a non possedere che una sensibilità animale. Un’attività sportiva esagerata si può chiamare darwinismo pratico. Il credere che l’uomo discenda dagli animali significa fare del darwinismo teorico. Fare dello sport, invece, è darwinismo pratico, significa fondare una morale che riconduce l’uomo al rango degli animali” (p. 190).
Allorché Giuseppe Prezzolini (1882-1982) compì cento anni, fu intervistato. E sapete cosa rispose quando gli venne chiesto quale fosse il segreto della sua longevità? “In vita mia, non ho mai fatto ginnastica”.
Certo, non è che una battuta, ma una battuta che contiene qualcosa di vero. Come detto, non si tratta di decidere se il corpo debba muoversi o meno, ma se debba muoversi in una maniera o nell’altra, sensatamente o insensatamente (oppure – direbbe Freud – in modo “narcisistico” od “oggettuale”).
Che senso ha, ad esempio, che una persona sana si affatichi a “sviluppare i muscoli” o a praticare il cosiddetto “body building”? Spera forse (darwinisticamente) di poter prevalere nella “lotta per l’esistenza” e di garantirsi così la “selezione naturale”? Ma questa è solo un’illusione.
Come testimonia Viktor Frankl (nel suo Uno psicologo nei lager), a meglio resistere alle terribili condizioni di vita nei lager, non sono stati infatti gli individui più forti fisicamente (che hanno ceduto, anzi, assai presto), quanto piuttosto gli individui più forti spiritualmente: vale a dire, coloro che sono riusciti a dare in qualche modo un senso o un significato alla loro atroce esperienza.
Si è fatto tardi. Continueremo la prossima settimana.
L.R. Roma, 22 giugno 2000
ANTROPOLOGIA 33° Incontro
Abbiamo visto, la volta scorsa, quel che accade quando si lavora fisicamente in modo eccessivo o insensato. Vediamo adesso cosa succede quando si lavora spiritualmente.
Dice Steiner: “In questo tipo di lavoro, cioè nel pensare, nel leggere, e così via, si deve constatare che esso è continuamente accompagnato da un’attività corporea, da un consumo incessante di materia organica, che viene così a morire (…) Un lavoro spirituale-animico troppo intenso disturba il sonno, come un lavoro fisico esagerato produce un eccessivo bisogno di dormire (…) Anche qui ci troviamo in presenza di una dualità. Come vi è una differenza fra un’attività esteriore ragionata e un agitarsi privo di senso, così dobbiamo fare una differenza tra un’attività di pensiero e di riflessione puramente meccanica e quella che è accompagnata continuamente da sentimenti. Se noi compiamo un lavoro spirituale e animico portandovi un interesse continuato, allora l’interesse, l’attenzione che vi poniamo vivificano l’attività del sistema del petto, e impediscono una distruzione esagerata di sostanza nervosa” (p. 191).
Una cosa, dunque, è un’attività spirituale fredda e dis-animata (“meccanica”), altra è un’attività spirituale calda e animata.
Ricordate ciò che scrive Steiner, nelle sue Massime? Che “l’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima”, e che Arimane “vorrebbe vedere il mondo attuale interamente trasformato in un cosmo di essenza intellettuale”.
Queste parole, del 1924, risultano oggi profetiche.
Pensate, ad esempio, alla patologia. Da allora a oggi, le malattie cosiddette “degenerative”, cioè quelle che vengono per così dire dal “freddo”, e quindi in ultima analisi dai nervi e dall’intelletto (ma ufficialmente dovute a “cause sconosciute”), non hanno preso appunto il sopravvento su quelle “infiammatorie”?
Oppure pensate alla vita economica. Ho letto di recente un libro, significativamente intitolato: Il capitale intellettuale (cfr. Thomas A. Stewart: Il capitale intellettuale – Ponte alle Grazie, Milano 1999 – ndr), che dimostra nel modo più chiaro come l’attività economica (che, per sua natura, dovrebbe essere legata al volere) si sia ormai tanto intellettualizzata da ridurre a “merce” perfino il sapere, e come questo “sapere-merce” (questo “know how”) vada prendendo sempre più il posto di quelle “risorse congelate” rappresentate, nell’era industriale, dai concreti beni di consumo.
Anche il sapere è diventato dunque una “risorsa congelata”. Ma come potrebbe essere altrimenti se lo stesso essere umano – stando a quanto afferma Edoardo Boncinelli – non sarebbe che un casuale “incidente congelato”? Ascoltate: “Il codice genetico si è instaurato per caso, ma si è mantenuto praticamente inalterato attraverso milioni di generazioni, perché la pressione selettiva non ha mai permesso la sopravvivenza di entità biologiche che tentassero di utilizzarne uno diverso. Questo non perché un codice diverso sarebbe stato peggiore, ma semplicemente perché troppe cose sarebbero dovute cambiare contemporaneamente al codice genetico affinché l’organismo potesse sopravvivere. Si è trattato di un vero e proprio incidente congelato, di una combinazione particolare, né migliore né peggiore di altre, che ha attecchito subito e i cui effetti si sono proiettati nei secoli. Molto probabilmente la vita avrebbe benissimo potuto avere un suo corso anche con un codice genetico diverso” (cfr. Il corpo, la mente e l’anima, 12 dicembre 2001 – ndr).
Ebbene, tutto questo “gelo” non fa venire forse i brividi? Ma la realtà è un’altra. L’unica cosa oggi invero “congelata” è il pensiero. Un conto, infatti, è il pensiero morto, dal quale siamo chiamati a far risorgere quello vivente, altro il pensiero ibernato o congelato (irrigidito o assolutizzato) da Arimane, proprio al fine d’impedirne la resurrezione.
Si dice che bisogna ragionare “a mente fredda”. Il che va bene quando si è alle prese con delle realtà fredde o morte (inorganiche); quando si è però alle prese con delle realtà viventi o, a maggior ragione, animate o spirituali non si dovrebbe continuare a ragionare così, né tantomeno cominciare a sragionare come fanno le cosiddette “teste calde”. Dovremmo piuttosto imparare a ragionare “a mente calda”: ovvero, con uno spirito non disgiunto dall’anima o con un’anima non disgiunta dallo spirito (ricordiamoci che Arimane è uno spirito senz’anima, o una “testa” senza “cuore”, e che Lucifero è un’anima senza spirito, o un “cuore” senza “testa”).
Scrive Steiner, dell’Arcangelo Michele (nelle Massime): “Compenetrando l’intellettualità, egli mostra anche come essa contenga la possibilità di essere un’espressione del cuore e dell’anima, altrettanto bene quanto lo è della testa e dello spirito”.
Ma torniamo a noi.
Dice Steiner: “Quando uno studente lavora come un bufalo (si può anche dire come un “bue”, a seconda delle regioni) per prepararsi a un esame, accoglie in sé molte cose che non lo interessano affatto. Se si limitasse a studiare solo quello che lo interessa, il minimo che gli succederebbe, nelle condizioni odierne, sarebbe di non essere promosso all’esame. La conseguenza è che questo studio intensivo in vista di un esame disturba il sonno, porta un disordine nell’esistenza umana abituale. Si deve prestare molta attenzione a ciò, in special modo nei bambini. Il meglio di tutto, per i bambini, (ed è ciò che corrisponde in massimo grado all’ideale dell’educazione) si avrà se si tralascerà completamente quell’apprendimento forzato di nozioni che precede gli esami, se cioè si sopprimeranno gli esami stessi e si lascerà che l’anno scolastico termini come è cominciato. Il maestro dovrà chiedersi: a che scopo il bambino deve venir esaminato? Io l’ho sempre avuto davanti agli occhi, e so benissimo quello ch’egli sa o non sa” (p. 192).
Gli esami non finiscono mai, è questo il titolo di un noto lavoro di Eduardo de Filippo. A scuola, all’università, al lavoro e durante tutta la vita, quanti sono infatti gli esami, le prove o i test ai quali si vorrebbe che ci sottoponessimo? Tutto deve essere continuamente “misurato”, a cominciare dall’intelligenza. E’ il trionfo della quantità e la disfatta della qualità, poiché è possibile contabilizzare le informazioni, ma non la formazione. Lo abbiamo detto: la maturazione umana è più della maturazione intellettuale o cerebrale.
Avrete notato, ad esempio, che si sente non di rado parlare di una “intelligenza diabolica”, mai però di una “saggezza diabolica”.
Dice Steiner: “E’ necessario che spiritualizziamo il nostro lavoro fisico esteriore e che compenetriamo di sangue il nostro lavoro intellettuale interiore. Meditate su queste due verità, e vedrete che la prima ha un’importanza particolare dal lato educativo ed anche dal lato sociale; mentre la seconda presenta non soltanto un grande interesse pedagogico, ma anche igienico” (p. 193).
L’ordinario pensiero intellettuale (rappresentativo) è in effetti “anemico”. Grazie alla scienza dello spirito, possiamo però curarlo, animicamente, ricorrendo in primo luogo al “ferro meteorico” (cosmico) offertoci dall’Arcangelo Michele (“il fiammeggiante principe del pensiero”). Piaccia o meno, non c’è altro modo di scongelare e ri-animare umanamente l’intelletto (Arimane infatti dis-umanamente lo “congela”, mentre Lucifero dis-umanamente lo “surriscalda” o lo “brucia”). Dunque, “spiritualizziamo il nostro lavoro fisico esteriore” portando il pensare incontro al volere e “compenetriamo di sangue il nostro lavoro intellettuale interiore” portando il volere incontro al pensare.
Risposta a una domanda
Steiner dice che la prima di tali due verità ha un’importanza particolare “anche dal lato sociale”, poiché comporta una diversa concezione del lavoro umano: cioè a dire, di un’attività che non può essere considerata – come fa ad esempio Wilhelm Reich – “biologica”, e quindi caratteristica non solo degli “animali inferiori”, ma anche degli “organismi viventi primitivi” (cfr. W.Reich: Individuo e Stato – Sugarco, Milano 1978 – ndr), o – come fa invece Marx – un mero “logorio della macchina umana (cfr. C.Marx: Il capitale(estratti) – Reprint, Palermo 1993 – ndr).
Ricorda che cosa abbiamo detto, l’altra volta? Che l’homo faber è uomo “spirituale”, mentre l’homo sapiens è uomo “corporeo”. Ed è forse possibile eliminare “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, redimere e umanizzare il lavoro, oppure creare un “mondo migliore”, se si è convinti, da materialisti, che tanto l’homo faber quanto l’homo sapiens sono uomini “corporei”?
Non potendo ora soffermarci, per ovvie ragioni, su questo argomento, le consiglierei (se già non lo ha fatto) di consultare, di Steiner: I punti essenziali della questione sociale (Antroposofica, Milano 1980).
Abbiamo finito la tredicesima conferenza. Cominciamo perciò l’ultima, la quattordicesima.
Dice Steiner: “Noi distinguiamo chiaramente tutto quello ch’è connesso con la formazione della testa da ciò che costituisce il sistema del petto e del tronco in generale, e da ciò che si riferisce alla formazione degli arti; inoltre dobbiamo formarci l’idea che il sistema degli arti è molto più complicato di quanto comunemente si creda. Infatti, ciò che costituisce questo sistema e che, come abbiamo visto, proviene dall’esterno, si prolunga all’interno dell’uomo; dobbiamo dunque fare una distinzione anche fra quelle parti del corpo umano che sono costruite dall’interno verso l’esterno, e quelle che invece sono, in certo modo, inserite dall’esterno verso l’interno. Se consideriamo a fondo questa triplice organizzazione del corpo umano, ci apparirà del tutto evidente che la testa dell’uomo per sé sola è un essere umano completo che si è innalzato al di sopra del regno animale. Abbiamo nella testa la testa vera e propria. E poi abbiamo in essa un tronco, che corrisponde a tutto quanto è di pertinenza del naso. Infine vi è una parte corrispondente agli arti, che ha il suo prolungamento nell’interno del corpo, costituita da tutto quello che comprende la bocca” (p. 194).
Tutto ciò “ci apparirà del tutto evidente” – dice Steiner – se “consideriamo a fondo” la “triplice organizzazione del corpo umano”; per poterla considerare così, è tuttavia necessario alleggerirsi del bagaglio di tutte le nostre consuete e statiche rappresentazioni. Il che è reso difficile dalla pigrizia o dall’inerzia. Che il naso costituisca una sorta di metamorfosi dei polmoni, o che la mascella e la mandibola costituiscano una metamorfosi degli arti, ci apparirà infatti “del tutto evidente” soltanto se, immaginando, sapremo muovere il pensiero in sintonia con il processo oggettivo della metamorfosi, che non è un “essere”, ma un “divenire”.
Dice Steiner: “Cosìcché possiamo vedere come nella testa umana sia rappresentato il corpo tutt’intero. Solamente, l’elemento “petto”, nella testa, è già atrofizzato, tanto che ciò che costituisce il naso manifesta soltanto in modo assai vago il suo rapporto coi polmoni. Il naso dell’uomo è come una specie di polmone metamorfosato, e perciò esso realizza il processo di respirazione in un modo molto più materiale che i polmoni (…) Ciò che appartiene alla bocca è apparentato con il sistema del ricambio, con i processi di nutrizione e di digestione e con tutto quello che penetra nell’uomo attraverso gli arti (…) Così vedete che la testa umana è un uomo tutt’intero, un uomo in cui però gli elementi del petto, del tronco e delle membra si sono atrofizzati” (pp. 194-195).
Possiamo approfittare di queste considerazioni per riandare col pensiero a quelle fasi evolutive – descritte ne La scienza occulta – in cui l’uomo, non ancora sensibilmente visibile, era in qualche modo solo testa. A suo tempo, abbiamo parlato infatti della testa come di un “bulbo” dal quale è poi fuoriuscita gran parte del restante organismo, e Steiner ci ha ricordato ch’è proprio la testa ad avere più storia dietro di sé (vale a dire una storia che risale all’”antico-Saturno”).
Che cosa significa dunque, in questa luce, “che la testa umana è un uomo tutt’intero, un uomo in cui però gli elementi del petto, del tronco e delle membra si sono atrofizzati”? Significa che la nostra testa conserva, nel naso e nella bocca, tracce (memoria) di quella fase evolutiva nella quale era davvero “un uomo tutt’intero”, e quindi un uomo dal quale non erano ancora fuoriusciti il tronco e l’addome, e nel quale non si erano ancora inseriti (dall’esterno) gli arti.
Dice Steiner: “All’opposto, se consideriamo l’essere umano nelle sue membra, constatiamo che queste, in tutto ciò che manifestano esteriormente, in tutta la loro formazione esteriore, si presentano essenzialmente come una trasformazione delle due mascelle, la mascella superiore e la mandibola. Le mascelle sono della stessa natura delle gambe, dei piedi, delle braccia e delle mani; soltanto esse sono atrofizzate (…) Ed ora potrete dire: quando io mi rappresento le mie braccia e le mie mani come una mascella superiore, e le mie gambe e i miei piedi come una mandibola, allora mi si affaccia una questione: dov’è la bocca che è racchiusa da queste mascelle? Che cosa morde? A tale domanda si può rispondere: la bocca si trova là dove il braccio si attacca al corpo e là dove la gamba, il femore si attacca al tronco (…) Che cosa fa questa testa invisibile? Vi divora continuamente, schiude le sue fauci sopra di voi. E qui avete, nella vostra figura esteriore, una meravigliosa immagine della realtà. Mentre la testa propriamente detta è una testa fisica, materiale, la testa che appartiene agli arti è una testa spirituale, che si materializza tuttavia in minima parte al fine di poter incessantemente divorare l’uomo” (pp. 195-196).
La mascella superiore fisica è la metamorfosi delle braccia e delle mani, mentre la mandibola lo è delle gambe e dei piedi: ergo, la bocca fisica è la metamorfosi di una bocca spirituale “che si materializza tuttavia in minima parte al fine di poter incessantemente divorare l’uomo”.
Ma come possiamo farci un’idea del modo in cui questa bocca spirituale “divora” l’uomo? Non è difficile: pensando al non-ego che “divora” l’ego.
Quale altra ambizione nutre infatti l’ego del mistico, se non appunto quella di gettarsi nelle fauci di quella entità che si rappresenta come un “non-ego” (divino e trascendente), per farsi così “divorare” “inghiottire” e “dissolvere”?
Ho detto spesso che dietro ogni mistico (cosciente) si nasconde un materialista (incosciente), così come dietro ogni materialista (cosciente) si nasconde un mistico (incosciente).
Che cosa fa infatti il materialista “pentito”, ossia il materialista cui sia venuto a noia il divorare manicaretti con la bocca fisica? Si converte, si rifugia magari in un eremo, e prova a farsi divorare dalla bocca spirituale. E che cosa fa invece il mistico “pentito”, ossia il mistico cui non sia riuscito, malgrado ogni sforzo, di farsi divorare dalla bocca spirituale? Getta la tonaca alle ortiche e comincia a divorare manicaretti con la bocca fisica (facendosi così divorare dalla gola, come altri si fanno divorare ad esempio dalla rabbia o dalla gelosia).
Ma per quale ragione dovremmo farci divorare, quando potremmo, per così dire, “baciare” con la bocca fisica (con l’Io umano) la bocca spirituale (l’Io divino)? Non insegnano forse le favole (e le favole la sanno lunga!) ch’è proprio grazie a un bacio che i rospi si trasformano in principi?
Dice Steiner: quando l’uomo “muore, quella testa spirituale l’ha divorato completamente. In questo consiste tale meraviglioso processo: i nostri arti sono costruiti in modo che essi ci mangiano continuamente. Noi scivoliamo continuamente col nostro organismo dentro la bocca spalancata della nostra spiritualità. Lo spirito esige da noi incessantemente il sacrificio della dedizione di noi stessi. Anche nella nostra stessa figura corporea vi è l’espressione di questo sacrificio. Noi non comprendiamo bene la configurazione fisica dell’uomo se non troviamo già espresso, nei rapporti fra gli arti e il resto dell’organismo questo sacrificio di dedizione allo spirito” (p. 196).
Nel materialista la dedizione è rivolta, in forma di brama, all’ego; nel mistico è rivolta, sempre in forma di brama, al non-ego. In un caso e nell’altro, non si ha dunque vera dedizione. Questa, infatti, può nascere solo dalle ceneri della brama, e la brama può essere arsa solo dalla conoscenza.
Continueremo giovedì prossimo.
L.R. Roma, 29 giugno 2000
ANTROPOLOGIA 34° Incontro
Ci siamo occupati, giovedì scorso, di quella parte del nostro corpo che si forma “dall’interno verso l’esterno”, cioè della testa, di quella parte del nostro corpo che si forma invece “dall’esterno verso l’interno”, cioè degli arti, e abbiamo visto che la mascella rappresenta una metamorfosi (atrofizzata) delle braccia e delle mani, mentre la mandibola rappresenta una metamorfosi (atrofizzata) delle gambe e dei piedi.
Occupiamoci adesso del petto, cioè di quella parte del nostro corpo in cui si mescolano “la natura della testa e quella degli arti, in parti equivalenti”.
Dice Steiner: “Il petto manifesta costantemente nella sua parte superiore la tendenza a divenire testa, mentre la parte inferiore mostra una continua propensione ad adattarsi alla natura degli arti, a conformarsi al mondo esteriore, cioè, in altre parole, a divenire membra. Ma la parte superiore del petto non può divenire testa: la testa vera e propria vi si oppone. Perciò il petto non arriva che a creare un’immagine della testa, qualcosa che si potrebbe chiamare un inizio di formazione di una testa. Non possiamo riconoscere chiaramente che nella parte superiore del petto vi è come una preformazione della testa? Ivi si trova la laringe (in tedesco Kehlkopf, parola composta da Kehl = gola, e Kopf = testa); questa è veramente una testa umana atrofizzata, una testa che non può arrivare a divenir del tutto testa, e che perciò realizza questa sua natura particolare nel linguaggio umano. Il linguaggio rappresenta lo sforzo continuo sostenuto dalla laringe a contatto dell’aria, per diventare testa” (p. 197).
Vedete, se ho due mele e due pere, posso dire di avere quattro frutti. In questa addizione, 2 + 2 = 4, il primo 2 rappresenta le mele, l’altro le pere, e il 4 i frutti. E che cosa rappresentano invece il segno + e il segno = ? Lo abbiamo detto altre volte: delle relazioni, e quindi delle realtà che non si possono vedere con gli occhi o toccare con le mani come le mele e le pere (cosa che, a rigore, vale anche per i “frutti”. Hegel racconta appunto la storia di un tizio che, avendo deciso di mangiare solo “frutta”, ma non vedendosi offrire altro che mele, pere, banane, ciliegie, fragole, ecc., finì col morire di fame).
Ebbene, quanto vale per le mele e le pere, vale anche per la testa e la laringe (oltre che – come abbiamo visto la volta scorsa – per il naso e i polmoni, per la mascella e le braccia e le mani, per la mandibola e le gambe e i piedi). Una cosa sono infatti la testa e la laringe fisiche (che si possono vedere e toccare), altra le relazioni (eteriche) che vi intercorrono. Queste – come ormai sappiamo – possono essere percepite solo con gli occhi dello spirito, e quindi “immaginate” (dalla coscienza “immaginativa”).
Mi sembra già di sentire l’obiezione: “Tutto ciò, dunque, è solo frutto d’immaginazione”. Oh bella! E non è pure “frutto d’immaginazione” tutto ciò che, in fatto di relazioni, ci presenta il materialismo? Ricordate il passo di Boncinelli che ho letto la volta scorsa? Non è forse “frutto d’immaginazione” che il codice genetico si sia “instaurato per caso”, che “la pressione selettiva” non abbia “mai permesso la sopravvivenza di entità biologiche che tentassero di utilizzarne uno diverso”, o che si sia “trattato di un vero e proprio incidente congelato, di una combinazione particolare, né migliore né peggiore di altre, che ha attecchito subito e i cui effetti si sono proiettati nei secoli”?
Fatto sta che come non si può sfuggire al pensare, così non si può sfuggire all’immaginazione. Il problema – se si vuole essere scientifici – riguarda perciò il come si debba immaginare. Un conto, infatti, è educarsi a farlo con rigore oggettivo, altro lasciarsi andare alla fantasia. E quand’è che ci si lascia andare alla fantasia? Quando, partendo dall’ordinario grado di veglia della coscienza rappresentativa, si scende inavvertitamente a quello inferiore del sogno (e quindi a quello delle “sub-immaginazioni” o delle “contro-immaginazioni”), anziché salire a quello superiore della coscienza immaginativa.
Dice Steiner: “Dobbiamo dunque essere coscienti che, quando il bambino ci viene affidato nella scuola, abbiamo da esercitare su di lui, nel campo dell’anima, una funzione simile a quella che il corpo ha compiuto facendo spuntare i nuovi denti. Così consolidiamo, ma soltanto animicamente, la formazione del linguaggio, quando insegniamo nel giusto modo le regole della grammatica, che poi dal linguaggio esercitano un’azione sul modo di scrivere e di leggere. Non avremo il giusto rapporto di sentimento col linguaggio, se non sappiamo che le parole che l’uomo pronuncia sono in realtà destinate a formare una testa” (p. 198).
La grammatica, quale “sistema osseo di natura animica”, rappresenta dunque, per l’anima, ciò che i denti rappresentano per il corpo.
Il che mi porta a dire che La filosofia della libertà sta all’antroposofia (allo spirito) come la grammatica sta al linguaggio (all’anima).
Non è forse inutile dirlo, dal momento, come purtroppo si sa, che non tutti quelli che dicono di richiamarsi all’antroposofia la studiano, l’approfondiscono e la meditano, mostrando così di non riconoscerla come l’opera fondamentale di Steiner dalla quale non si può assolutamente prescindere.
Avrete notato quante volte, nel corso del nostro studio, ci siamo richiamati a La filosofia della libertà. Ciò è dovuto al fatto che quest’opera rappresenta una sorta di “scheletro” atto a sostenere le varie materie o discipline (in questo caso, la pedagogia), permettendo loro di conseguire la “stazione eretta”, e per ciò stesso la forma “umana” (l’odierna antropologia, ad esempio, parlando dell’uomo come di un animale, mostra di non averla ancora conseguita).
Dice Steiner: “Come la parte superiore del tronco umano ha la tendenza a divenire testa, la parte inferiore ha la tendenza a divenire membra. Ma mentre ciò che viene emesso dalla laringe, il linguaggio, è una testa di natura più sottile, una testa rimasta ancora allo stato aeriforme, tutto ciò che proviene dalla parte inferiore del tronco, e tende a organizzarsi sotto forma di membra, è invece della stessa natura degli arti veri e propri, ma più grossolana. Ciò che il mondo esteriore impianta in certo modo nell’uomo è paragonabile a degli arti di natura più densa, più grossolana. Se una volta la scienza arriverà a svelare il mistero per cui delle mani e dei piedi, delle braccia e delle gambe di natura più grossolana sono impiantati nell’interno del corpo umano più di quanto non appaiono all’esterno, allora questa scienza avrà scoperto i segreti della sessualità. Allora soltanto si potrà trovare il tono giusto per parlare di tali cose. Non vi è perciò da meravigliarsi se tutte le considerazioni che oggi si fanno per spiegare la questione sessuale sono quasi prive di valore; non si può infatti spiegare bene ciò che non si capisce da se stessi (…) Si deve sapere che, come vi è analogia fra ciò che l’educatore infonde nell’anima del bambino nei primi anni di scuola e ciò che si manifesta nel cambiamento dei denti intorno al settimo anno d’età, così pure vi è affinità fra quello che si fa entrare nell’anima dei fanciulli durante gli ultimi anni delle scuole elementari e nelle scuole medie, e ciò che deriva dalla natura degli arti e che viene completamente ad espressione soltanto dopo la pubertà” (pp. 198-199).
Dice una storiella: “Quando un tedesco non sa una cosa l’impara; quando un italiano non sa una cosa l’insegna”. Non si sa se l’abbia inventata o meno un tedesco, ma si può essere certi che quando si tratta della sessualità la tentazione d’insegnarla si fa universale.
Qualcuno talvolta lamenta che Steiner abbia trattato poco questo argomento. Il che è vero, ma solo per quella parte della sessualità ch’è a tal punto oberata e afflitta – oggi più di ieri – da pregiudizi e passioni (coscienti o incoscienti) da rendere praticamente impossibile il parlarne obiettivamente o con il “tono giusto”. Ascoltate quanto dice, riferendosi appunto alla “psico-sessualità”: “L’occultista è cauto in questo campo perché verità ed errore sono separate solo da una ragnatela e perché tocca tutto l’atteggiamento dell’anima; ecco perché è rischioso parlare di queste cose” (cfr. Essere cosmico e Io – Antroposofica, Milano 2000 – ndr).
Prendiamo, ad esempio, la teoria della “sessualità infantile” di Freud. Si tratta di una fantasia (di una “sub-immaginazione”) in tutto e per tutto pari a quella dell’”incidente congelato” di Boncinelli (cfr. Freud, Jung, Steiner, 15 novembre 2003 – ndr).
Sulla base di tale teoria, Freud spiega però l’origine o l’eziologia delle nevrosi. “In principio” – sostiene infatti – c’è la sessualità (il bios); poi intervengono le “contro-cariche socio-culturali” (Fenichel) che, reprimendo in un primo tempo la sessualità, generano le perversioni, e, reprimendo in un secondo tempo le perversioni, generano le nevrosi.
Orbene, un ragionamento di questo genere equivale a quello di chi dicesse: due più due fa cinque, cinque più tre fa otto, e otto più quattro fa dodici; equivale cioè a un ragionamento che ha il solo difetto di partire col piede sbagliato.
“In principio” (prima ancora della pubertà), non c’è infatti la sessualità (lo ha realizzato anche Jung), bensì quella dedizione che caratterizza, animicamente, soprattutto il primo e il secondo settennio: quella dedizione che scaturisce, nel bambino, dall’inconscia convinzione che il mondo sia “buono” e “bello” (come quello spirituale che ha appena abbandonato).
Se proprio lo si volesse (ma sarebbe meglio evitare di aumentare la confusione), si potrebbe vedere in questa dedizione, ossia in questa corrente d’interesse e d’amore che il bambino riversa sul mondo, l’autentica “Libido” o l’autentico “Eros”.
E’ vero, dunque, che la repressione della perversione può generare la nevrosi, così come la repressione della sessualità può generare la perversione, ma ancor prima è vero che è la repressione del caldo interesse rivolto al mondo a generare precocemente quello rivolto alla sessualità: a provocare, cioè, un ritiro di tale interesse dal mondo, e un doloroso richiudersi dell’anima in se stessa (nel proprio corpo).
Di quale “repressione” sarebbe allora il caso di parlare? Di quella esercitata sull’anima infantile (ma non solo su questa) dalle “contro-cariche socio-culturali” (dal “conscio collettivo”, direbbe Jung) che ne mortificano o negano in modo sistematico ogni più profondo bisogno di bontà, di bellezza e di verità. (Scrive Saul Bellow: “Un mondo dal quale il mistero è stato estirpato ti fa dolere il cuore, ti rende più suggestionabile. In poesia la gradisci, tale suggestionabilità. Quando invece irrompe nei momenti sbagliati (in un contesto razionale) mandi a chiamare la polizia; e gli agenti psicologici portano via il tuo criminale “animismo”. La tua rispettabile aridità vien così ripristinata” – Gerusalemme: andata e ritorno – Rizzoli, Milano 1977).
Dice Steiner: “Come nella facoltà d’imparare a leggere e a scrivere, durante i primi anni di scuola, si manifesta una specie di dentizione animica, così, in tutto ciò che è attività di fantasia ed è pervaso di calore interiore, si esprime quello che l’anima del ragazzo sviluppa fra il dodicesimo e il quindicesimo anno. Allora emergono in modo tutto speciale le facoltà psichiche che hanno bisogno di essere compenetrate di amore interiore animico, vale a dire dunque quelle che si esprimono come forza di fantasia (…) Stimolare la fantasia del ragazzo: ecco quello che dobbiamo cercar di ottenere col nostro insegnamento in questo periodo, specialmente per mezzo di quanto ha attinenza con lo studio della storia e della geografia” (p. 199).
“Specialmente”, ma non solo, dal momento che Steiner stesso esemplifica (utilizzando il teorema di Pitagora) uno dei modi in cui si potrebbe stimolare la fantasia perfino nell’insegnamento della geometria e della matematica.
Stiamo parlando, ovviamente, di quella fantasia infantile che deve fare da levatrice all’intelletto, e non di quella cui è possibile regredire (istericamente) dopo ch’è maturato l’intelletto.
Nel fanciullo, l’intelletto è il futuro della fantasia, mentre, nell’adulto, l’immaginazione è il futuro dell’intelletto.
Ho spesso ricordato, in proposito, che l’Arcangelo Michele, guidandoci verso un futuro ch’è stato, a un diverso livello, il nostro passato (la nostra origine), ispira la nostalgia del futuro: un sentimento quindi ignoto, sia a quelli cui Lucifero ispira la nostalgia del passato, sia a quelli cui Arimane presenta il futuro come un’incognita o come il “buio che è dietro l’angolo”.
Dice Steiner: “Si deve dunque far continuamente attenzione perché ciò che il maestro trasmette allo scolaro sia, in quell’età specialmente (fra il dodicesimo e il quindicesimo anno – nda), stimolante per la fantasia. Il maestro deve mantenere vivente dentro di sé la materia d’insegnamento, deve penetrarla di fantasia. Ed egli non vi riuscirà in altro modo se non compenetrandola di volontà piena di sentimento (…) Tutto questo getta una luce sul modo in cui il maestro stesso deve comportarsi e vivere. In nessun momento della sua vita deve inacidirsi. Vi sono due cose che non si dovranno mai incontrare in lui, se la sua vita dev’essere benefica e feconda: sono la professione di maestro e la pedanteria (…) Da ciò vedete che l’insegnamento implica una certa moralità interiore, crea certi doveri. Esiste un vero imperativo categorico per il maestro, ed è questo: “Conserva vivente la tua fantasia; e quando senti che stai diventando pedante, di’ a te stesso: “La pedanteria può già essere un male per gli altri uomini, ma per me è una scelleratezza, un’immoralità””” (pp. 200-201).
Se è una “scelleratezza” o un’”immoralità” portare incontro ai fanciulli la “pedanteria”, figuriamoci allora cos’è il portare loro incontro, in una forma o nell’altra, la cosiddetta “realtà virtuale”: ossia una realtà che mira appunto a surrogare tecnicamente, meccanicamente e freddamente la mancanza o il vuoto di fantasia.
Tanto più, poi, che quel che crediamo ingenuamente “virtuale” è invece “reale”; non certo dal punto di vista umano, ma da quello di Arimane: dal punto di vista cioè di uno spirito che, essendo privo di anima, non può far altro che simularla.
Dice Steiner: “Al dovere di compenetrare di fantasia la sua materia d’insegnamento, il maestro deve aggiungere ancora il coraggio della verità (e Arimane – lo sappiamo – è lo spirito della menzogna – nda). Senza il coraggio della verità, egli non potrà riuscir bene nel suo insegnamento, specialmente con gli scolari meno giovani. D’altra parte, lo sviluppo di questo coraggio della verità dev’essere sempre accompagnato da un forte sentimento di responsabilità di fronte alla verità stessa. Necessità di fantasia, senso della verità, sentimento di responsabilità sono le tre forze che costituiscono i nervi della pedagogia. E chi vuole dedicarsi alla pedagogia, scriva come motto per la sua attività le parole seguenti: compenetrati di fantasia; abbi il coraggio della verità; affina il tuo sentimento di animica responsabilità” (p. 203).
Abbiamo così finito il nostro lavoro. Vi ringrazio per averlo reso possibile.
L.R. Roma, 6 luglio 2000