Una fiaba per guarire – riflessioni su un libro di Gisela Fugger
di Gabriele Burrini
Il nostro tempo ci offre un ventaglio molto ampio di metodi terapeutici, ispirati ai più diversi tipi di medicine alternative e di “tecniche di autoguarigione”. E ciò avviene perché “guarire” oggi non significa più quel che significava decenni fa, quando si riteneva che la malattia fosse esclusivamente legata all’ambito fisico, fosse cioè una modificazione dei tessuti, tanto che il suo nome scientifico finiva quasi sempre in -ite, in -osi o in -oma (polmonite, tubercolosi, carcinoma…). Oggi è diverso: mentre le grandi infezioni vengono perlopiù debellate dagli antibiotici, fanno ingresso trionfale fra i morbi nuove sindromi, dovute all’accumulo di ansia, di stress, oppure a nuove e imprecisate infezioni virali: tutte sindromi che si traducono in astenia psicofisica. Insomma, sembra quasi che oggi l’essere umano soffra più sul piano mentale (astrale) che su quello eterico-fisico; quasi che l’uomo sia malato più nei pensieri che nel corpo. Indubbio segno che, nonostante tutto, viviamo nell’epoca dell’anima cosciente. Per rimediare ai tanti disturbi che sfuggono a una precisa definizione clinica, si cercano nuove forme di “autoguarigione”, come la musicoterapia, la danzaterapia, il reiki, la costruzione artistica del “proprio” mandala, il massaggio dei chakra o la pratica dei mantra: forme in cui il gesto e il suono si incontrano per guarire l’anima più che il corpo.
Ma se un suono, un gesto, un passo di danza possono guarire, perché non può guarire una fiaba? Forse basta soltanto imparare a comprendere quel suo linguaggio allegorico, quel suo intreccio “di magia” così tipico, per esempio, della fiaba europea. In questo cammino verso il cuore segreto della fiaba ci guida un prezioso libriccino di Gisela Fugger (Introduzione al linguaggio immaginativo delle fiabe, Edizioni Arcobaleno, Oriago di Mira, 1994, trad. di S. Pederiva e V. Sorge), che ci apre una finestra sul suggestivo immaginario delle più belle fiabe europee.
Abbandoniamoci, in un rapido volo, ad alcune suggestioni. Per esempio, alla contrapposizione fra bosco e giardino. L’immagine fiabesca del giardino non vuol dire, infatti, soltanto rigoglio della natura, ma apertura completa delle forze eteriche, quindi vita eterica dell’anima, in contrasto con l’oscurità del bosco che, invece, è sinonimo di astralità umana, di autopercezione.
E che dire della triade padre-madre-figlio? Può avere diversi valori: a volte infatti è sinonimo delle facoltà umane pensare-sentire-volere, altre volte invece simboleggia stadi successivi di coscienza, nel senso che il padre rappresenta la coscienza legata alla tradizione e alla stirpe, mentre il figlio è la nuova coscienza che va incontro al proprio destino abbandonando la casa paterna. E la madre? In genere, quando è protettiva è la Madre Terra, che però finisce col diventare “matrigna” quando l’uomo scopre la durezza della vita terrena.
Tuttavia le fiabe non sono belle soltanto se evocano staticamente i principi spirituali, ma soprattutto se li animano e li presentano nella loro vita, nel loro dinamismo. “C’erano una volta tre fratelli, l’ultimo dei quali era un po’ stupidello”: cominciano così certe favole, che finiscono poi proprio col trionfo di quest’ultimo. La storiella diviene allora metafora delle facoltà dell’anima, pensare, sentire e volere. Chi si affida al pensare – pare suggerire la fiaba – non di rado è sognatore e visionario agli occhi dei fratelli “praticoni” che eleggono a regole di vita le consuetudini tramandate (sfera del sentire) o i bisogni egoici (sfera del volere).
Le fiabe si prestano a tante chiavi di lettura. Si può leggerle per il gusto della fantasy, si può raccontarle per comunicare il messaggio morale insito nella storia, ci si può immergere nelle immagini fiabesche per ritornare un po’ bambini. Ma c’è di più. “Le fiabe – scrive la Fugger (pp. 47-48) – in quanto poggiano sul presupposto archetipico della salute, possono agire in senso terapeutico e possono anche venire usate sotto questo profilo come realtà artistico-terapeutiche, così come l’aria di montagna può avere un effetto salutare”. La fiaba è bella, completa, autentica se si presta a tutte queste chiavi di lettura, se ogni età vi ritrova un messaggio di crescita interiore: se guida, se conforta, se guarisce l’anima.
Una di queste fiabe “guaritrici” per antonomasia è Biancaneve e Rosarossa, dei fratelli Grimm, interamente riportata nel testo della Fugger. Vediamone in sintesi la trama e il commento.
Una povera vedova ha due figlie: Biancaneve, che ama stare in casa con la mamma, e Rosarossa, che ama correre fra le bellezze della natura. Le fanciulle si amano molto e dicono spesso: “Non ci separeremo mai!”. Una notte pernottano nel bosco e al risveglio si vedono dinanzi un bimbo luminoso, che presto fugge: si accorgono allora di aver dormito sull’orlo di un abisso. “Era l’angelo che veglia sui bambini”, svelerà loro la madre a commento dell’episodio.
Biancaneve e Rosarossa sono immagini simboliche dei due poli dell’anima: interiorità ed esteriorità, contemplazione e azione, anima che guarda al cielo o che ama la terra. Non si tratta di princìpi contrapposti, allusi spesso, nella favolistica, dall’immagine dei due figli, uno buono e uno cattivo. Si tratta invece di facoltà complementari che si accordano bene, perché si affidano alla luce dell’Io, si lasciano ispirare dalla sua invisibile presenza: l’Io (ancora disincarnato perché “presto fugge”) è il principio che le lega, è l’angelo che dall’alto e da lontano veglia su di loro.
“Biancaneve e Rosarossa tenevano così pulita la capannuccia della madre che era una gioia vederla”.
La madre e le figlie costituiscono un’unità spirituale (la casa), che è pura grazie all’armonia delle forze (madre + figlie). Questa armonia è espressa in modo pittoresco sia dai due rosai bianco e rosso che crescono dinanzi alla casa sia da quel quadretto familiare che ritrae le figlie intente a filare (tipico gesto che esprime i ritmi del sentire), mentre la madre legge ad alta voce da un librone, ovvero, in altre parole, attinge forze di luce dalla saggezza cosmica, dall’eterna sapienza (p.62).
Chi rivive interiormente – quasi con intento meditativo – il succedersi delle immagini della fiaba sperimenta una crescita di forze: passa gradualmente dall’unitaria armonia del sentire, simbolicamente espressa dalla “casa della madre”, al polarizzarsi delle facoltà – Biancaneve come il pensare e Rosarossa come il volere – fino a presagire quel nuovo principio spirituale che dall’alto guida le forze, l’angelo, ovvero l’Io disincarnato.
Questo è lo scenario delle facoltà, questa la dinamica interiore.
Che cosa succede nella fiaba a un certo punto dell’inverno? Qualcuno bussa alla porta: è un orso dalla grossa testa nera: “Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio solo scaldarmi un po’ con voi”, dice l’orso. Le fanciulle si familiarizzano con quest’orso, che ogni giorno esce di casa all’alba e torna poi ogni sera. Giunta poi la primavera, l’orso dice a Biancaneve: “Adesso devo andare via e per tutta l’estate non potrò più tornare”.
L’orso vive secondo un ritmo davvero inverosimile per un animale che d’inverno dovrebbe essere in letargo. Per di più questa presenza dell’orso non è legata soltanto a un ritmo circadiano (ogni sera), ma anche a un ritmo stagionale. Grazie a tali caratteristiche l’orso acquisisce una forza simbolica di metamorfosi, di trasformazione, diventa simbolo solare, al contrario di molte mitologie in cui esso è simbolo lunare. Come il sole, infatti, esce all’alba e tramonta di sera e, come il sole, esprime d’estate la sua massima attività, allusa nella fiaba dal fatto che, con il disgelo, l’orso si allontana per preservare la vita vegetale dai “cattivi nani”, le forze oscure della morte vegetale.
Che cosa avviene a questo punto? Che l’anima (madre + due figlie = sentire + pensare, volere) che si è nutrita di saggezza solare (orso) e che in esso ha visto perfino una realtà superiore e paterna, assente in verità dalla famiglia perché la madre era vedova, ora anela a una nuova conquista (la madre mandò le bambine nel bosco). E qui le fanciulle incontrano per quattro volte il nano, liberandolo da alcuni pericoli. E’ il momento in cui le facoltà dell’anima affrontano le quattro prove:
· prova della Terra: albero che trattiene la barba del nano
· prova dell’Acqua: pesce che, preso all’amo, tira la barba del nano
· prova dell’Aria: aquila che ghermisce il nano
· prova del Fuoco: collera del nano paonazzo, sole al tramonto, gemme che scintillano.
Sono prove comuni a molte fiabe e le si ritrova perfino nella Spada nella roccia, dove il piccolo Artù disneyano supera queste esperienze con l’aiuto del mago Merlino.
Il nano è nel pieno della collera, quand’ecco che compare l’orso che lo mette in fuga. Le ragazze riconoscono la voce dell’amico orso, che nel frattempo si toglie la pelle e si trasforma in “un bel giovane tutto vestito d’oro”. “Sono il figlio di un re – dice – e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato”. Tutto poi si conclude con le immancabili nozze fra il principe e Biancaneve e tra il fratello del principe e Rosarossa.
Il superamento delle prove sigla il definitivo trionfo dell’Io sugli elementi e la vera armonia delle facoltà.
Una fiaba, anzi una “fiaba di magia”, si presta a vari codici di interpretazione, tutti ugualmente validi, proprio perché è metafora del cammino interiore di metamorfosi vissuto dall’essere umano. Così Biancaneve e Rosarossa (p.53 sgg.) si offre a una lettura morale, psicologica e spirituale e la Fugger stessa le sa mettere in luce, colorando le immagini che meglio possono imprimersi nell’animo infantile e mettendo in evidenza i momenti dinamici, quelli che più si addicono a destare i moti dell’anima, a promuovere lo sviluppo, a far sbocciare le forze dell’Io.