Il coraggio di cambiare
Tratto dal libro “L’enigma della paura” di Henning Koehler,
Non è forse del tutto illusoria la concezione secondo la quale un essere umano acquisisce la capacità di percepire in modo intenso e di essere creativo solo a condizione di avere avuto un’infanzia felice, senza avere sofferto e forse disperato di se stesso e del mondo? Erich Fromm ha contribuito a rivitalizzare in modo conforme ai nostri tempi la “concezione classica” secondo la quale “l’uomo è tanto corpo quanto anima, tanto angelo quanto animale, e appartiene a due mondi in conflitto tra loro, conflitto che nell’uomo esige una soluzione”. Riconoscere questo “spaventoso dilemma” (Fromm) può essere sconvolgente e angoscioso, esigere una soluzione può portare alla follia. Collocare il problema nell’infanzia con le relative attribuzioni di colpa non costituisce in molti casi una soluzione, bensì una semplice de-attualizzazione: le tue angosce, i tuoi stati di malinconia non hanno nulla a che fare con il tuo essere-presente; essi sono la zavorra di tempi già vissuti, eredità della casa degli spettri della tua infanzia. Può essere così. Ma non deve essere così. E proprio quando è questo il caso, il riferimento all’attualità è perlomeno altrettanto importante come il chiarimento dei retroscena biografici.
Anche Rudolf Steiner ha parlato a Dornach, il 13 novembre del 1916, del “dilemma” messo in evidenza da Fromm, ma in modo completamente diverso. “Nell’uomo è sempre presente ciò che vuole mantenerlo in una certa situazione e ciò che vuole trarlo fuori da quella specifica situazione (…) L’io è in lotta (…) con ciò che nella vita tende ad agire in senso deterministico”. A questa efficacia dell’io Steiner attribuisce la capacità di “spegnere le situazioni della vita” (con riferimento a quelle che si configurano in relazione al passato), e di “trasformare le situazioni della vita”. Ciò che qui merita considerazione è la sequenza: ciò che deve essere trasformato, ovvero l’elemento deterministico, “operante primariamente attraverso il nostro corpo fisico”, che rappresenta tutto ciò che io immutabilmente sono diventato, deve prima essere spento. Naturalmente Steiner con spegnere non intende cancellare una volta per sempre.
Dobbiamo liberarci dal (e spegnere il) già diventato, l’elemento deterministico, l’essere fissati a determinati comportamenti e modelli comportamentali, e sto parlando di stati di coscienza e di atti di coscienza, se vogliamo aprire la dimensione al futuro. In questa accettazione dello spegnimento che precede la trasformazione si trova qualcosa di particolarmente significativo per il nostro tema: lo sviluppo non è una sequenza di eventi di carattere monocausale, non è il passaggio senza discontinuità da uno stato all’altro, esso è bensì interrotto da eventi che hanno il carattere di una nuova creazione, di un nuovo inizio introdotti dall’atto di volontà dello “spegnimento” di ciò che è dato, che poi nell’atto della rifondazione viene nuovamente rischiarato e trasformato (…). Questa è efficacia dell’Io! L’angoscia ci induce a conservare e a consolidare ciò che “agisce in senso deterministico nella vita”. In ciò risiede anche la sua importanza, poiché noi abbiamo naturalmente bisogno di avere un pavimento sotto i piedi per poter camminare. Però d’altra parte senza l’opposizione dell’io a ciò che è definito, non potremmo sviluppare il concetto del futuro e con ciò nemmeno sviluppare noi stessi! Quest’efficacia dell’io ci accompagna sempre quotidianamente.
Ci sono tuttavia situazioni nelle quali essa dovrebbe intervenire in modo particolarmente energico e ciò non le riesce. Di ciò abbiamo già parlato. In queste situazioni ci viene richiesto il coraggio della decisione. Ogni risveglio interiore o esteriore presuppone che venga respinta la realtà del già divenuto, di ciò che è familiare, rassicurante, delimitante, opponendo un sentimento di antipatia. Bisogna pure diventare ciechi in un certo senso per il mondo dei dati di fatto per avere il coraggio di entrare nel mondo delle possibilità, poiché ad ogni possibilità, ad ogni desiderio si possono contrapporre dati reali di ogni genere, quali argomenti inconfutabili per scoraggiare il passo verso l’aperto. Il conflitto di cui si è parlato prima tra corpo e anima, animale e angelo, non va affatto inteso in senso morale. Esso consiste nel fatto che noi, quando accade qualcosa di nuovo, dobbiamo sempre fare i conti con una costituzione ben definita, già forgiata, collocata tra l’elemento corporeo e psichico sulla quale si conforma il nostro carattere e la nostra esperienza. Da questo punto di vista non abbiamo alcuna responsabilità, siamo imparentati con il mondo animale: un coniglio non può assumere il comportamento di un gatto, perché è completamente assoggettato alla natura del coniglio. D’altro canto contemporaneamente dobbiamo e possiamo discriminare questa natura con un atto intenzionale, per poter essere capaci di compiere passi evolutivi di carattere qualitativo. Così facendo ci avviciniamo all’angelo inteso come essere spirituale che si erge in noi, non soggetto ad alcuna natura, che in noi agisce attraverso il nostro corpo fisico e che rappresenta il futuro, la così detta “identità ottativa”: ciò che noi, quando siamo completamente noi stessi, possiamo riconoscere come nostra meta.