L’arte, ovvero il paradosso
Intervista di Walter Abbondanza a Vittorio Tamburrini
Contemplando un quadro, una scultura spesso mi sono chiesto cosa contribuisse a colpire la mia immaginazione, il mio senso del bello, cosa mi facesse rimanere quasi “incantato” davanti a quell’opera o, al contrario, dopo una fugace occhiata , passare oltre senza particolare interesse. È forse esclusivamente la capacità tecnica dell’artista, la sua conoscenza delle “regole” del disegno, della scelta e distribuzione sulla tela dei colori, dello sviluppo della struttura compositiva, che fanno di un lavoro un’opera d’arte?
Vittorio Tamburrini: la capacità tecnica è per l’artista lo strumento attraverso il quale può dar vita all’opera, la tecnica artistica non è di per sé arte; ci sono tanti lavori tecnicamente ben fatti che non esiteremmo a definire “croste” come pure di cose meno perfette dove pure si legge “l’incanto”.
Nell’arte moderna e contemporanea si è visto all’opera un vasto numero di artisti che ha rinunciato sempre di più al perfezionismo tecnico in favore dell’essenzialità del linguaggio artistico.
Ma allora cosa trasforma un semplice quadro in un’opera d’arte. Rudolf Steiner, ad esempio, in alcune conferenze parlando d’arte ha detto : “l’ artista non cerca il vero naturale, ma l’apparenza del vero. L’opera artistica completa è opera dello spirito e quindi al di sopra della natura”.
Cosa fa di un’opera un’opera d’arte è una domanda non da poco: l’opera d’arte deve suscitare qualcosa che sia al di là del gusto dell’epoca, della regione geografica o della cultura di appartenenza, al di là della tecnica rappresentativa e del mezzo usato; deve rappresentare in sé un evento che abbia una certa indipendenza dal contesto in cui è nato o almeno il contesto deve solo essere un indicatore, uno specificatore, una cornice. L’artista quando è tale mostra qualcosa che è incantato nel mondo e che nell’opera d’arte si manifesta, viene reso visibile. L’artista conosce il mondo e di quella conoscenza ne fa una rappresentazione che parla al senso del bello e del gusto, diversamente dallo scienziato che ne estrae leggi intelligibili al pensiero razionale. L’artista rappresenta leggi di natura incantate nella realtà del mondo perché siano fruibili da una sfera più intuitiva che razionale.
Mi pare di capire che quindi l’opera d’arte ha una vita indipendente, esiste di per sè, al di là della capacità dell’osservatore di penetrare nella sua essenza. Allora colui che osserva ha un ruolo solo passivo o possiamo pensare ad una sorta di rapporto dialettico tra l’opera d’arte e chi la osserva?
Matisse diceva che se l’osservatore è eguale alla sedia della galleria d’arte allora qualunque opera d’arte appare silenziosa, non comunica nulla. L’opera d’arte vive nel dialogo con chi la contempla ovvero ha valore in sé oppure esiste solo quando è contemplata? La stessa domanda vale anche per il mondo naturale: la natura esiste indipendentemente dalla capacità dell’uomo di rappresentarla in sé stesso?
Il “segreto manifesto”, per dirla con le parole di Goethe, incantato nelle manifestazioni della natura o nell’opera d’arte attende l’uomo che lo colga; se questo accade si svela qualcosa che corrisponde a ciò che vede l’innamorato nell’amata e che altri non vedono, insomma una variante dell’“amor figlio di conoscenza” di L. da Vinci.
Allo stesso modo per cui non ci si può innamorare di una lastra di acciaio altrettanto nell’opera d’arte deve esservi un contenuto che non è nella tecnica, non è nel contesto, non è nei mezzi ma può vivere solo nella capacità di rappresentazione dello spettatore.
Sarebbe interessante parlare di come è mutato nel tempo il modo di rappresentare l’opera d’arte, ovvero di incantare nella tela il “segreto manifesto”, e di come si è trasformata la dialettica artista/osservatore nella fruizione dell’opera d’arte.
Nel rinascimento l’insieme tra perfezione tecnica e contenuto artistico ha forse raggiunto un apice ineguagliabile che mostra la capacità di far convivere la perfezione della forma con la capacità di riempirla di vita, di darle un’anima.
In epoca moderna e contemporanea c’è stato invece un grande numero di artisti che ha sacrificato l’abilità rappresentativa per cercare l’essenzialità del colore o del gesto o del modellato o della forma o della materia o comunque degli elementi fondamentali dell’espressione artistica. Un sacrificio che mostrasse cosa è l’arte, di quali essenze è fatta, che mettendola a nudo la mostrasse indipendente dalla “copia” della natura, dal disegno, dalla forma. Mostrasse l’arte indipendente dal “cosa” rendendo evidente che ciò che conta è il “come”: non cosa rappresento ma come lo rappresento. Questo sacrificio per molti artisti è stato così intenso da inscrivere la tragedia nella loro vita o almeno da non impedirla. L’opera di questi artisti perde completamente di senso se l’osservatore non coglie il segreto e non si “innamora”; non c’è nulla a cui appigliarsi senza cogliere quel “segreto manifesto”, non c’è modellato, non c’è disegno, non c’è forma, niente tecnica, solo pochi elementi essenziali perché qualcosa possa accadere tra opera e spettatore.
Molti anni fa ho visitato una mostra di Morris Lewis . A tutta prima rimasi molto perplesso, non vedevo nulla se non dei segni colorati su tele enormi. Mi trovavo dinanzi ad una tela lunga forse 6-7 metri, era una tela grezza con tre segni colorati negli angoli in basso a destra e a sinistra, tutto il resto era vuota tela grezza. Non ne capivo né il senso né la bellezza. Mi allontanai di qualche passo, poi ancora di qualche passo e d’improvviso mi sentii tutt’uno con l’opera, cosa che suscitò in me una grande emozione ed una esperienza che ancora oggi ricordo intensamente. Cosa era successo? Da un punto di vista tecnico una banalità: mi ero trovato ad una distanza tale da poter cogliere contemporaneamente i segni nei due angoli opposti della tela pur mantenendo lo sguardo nel centro vuoto dell’opera. L’opera era divenuta tale solo perché io la guardavo e guardandola in quel modo le restituivo l’unità, l’opera era l’insieme tela più osservatore e la nuda sacrificale semplicità del dipinto permetteva di accorgersene perché non c’era null’altro da ascoltare se non l’unità tra dipinto e osservatore che appariva nel momento in cui lo sguardo nel centro vuoto del dipinto fosse in grado di vedere contemporaneamente i segni dipinti negli angoli a destra e a sinistra.
Quanto era costata nella vita di M. Lewis la ricerca di una essenzialità così estrema? Il totale sacrificio del disegno, del colorito e della forma per un’artista che ne conosce la bellezza non è poca cosa ed è proprio questo sacrificio a mettere a nudo le leggi sottese all’opera d’arte; non si tratta di leggi fisiche ma pur sempre leggi della natura se per natura si intende anche la manifestazione della coscienza individuale e non solo la natura fisico-sensibile.
Ma queste diverse modalità nel rappresentare l’arte che si sono sviluppate nel tempo non mettono in discussione una concezione estetica che voglia essere oggettiva o, peggio, non mettono in crisi il concetto di arte come rappresentazione oggettiva del “bello”?
L’arte è rappresentazione del bello! Questa frase si espone alla massima ambiguità perché si considera bello ciò che piace. Se “bello” è invece poter congiungere in una esperienza di sintesi interiore gli elementi che compongono l’opera e riconoscerli come unità, unità viva, allora il bello non è ciò che piace ma l’intrinseca vitalità dell’opera che si mostra nell’esperienza di chi osserva. Un dipinto tecnicamente perfetto che non possa mostrare questa unità organica non è un’opera d’arte.
Nel rinascimento le personalità di Leonardo, Michelangelo e Raffaello hanno portato l’espressione artistica ad un livello di grandissima elevazione pur nella loro differentissima tecnica rappresentativa.
In Raffaello si può dire che l’armonia è l’esperienza centrale; si può osservare Raffaello e vivere nella sfera del puro sentire: ogni cosa, colori, sguardi, disegno sono compiuta armonia, spontanea ricchezza di senso in equilibrio. Se si guarda Leonardo, l’abilità rappresentativa raggiunge un apice estremo, si sente l’incessante osservazione e riflessione dell’artista, si scorge qualcosa di simbolico, si intravede ovunque il tessere del pensiero, pensiero che si tormenta alla ricerca delle leggi e della perfezione. Michelangelo è, all’opposto di Leonardo, una sfida alla materia. Usando parole un po’ brutali si può dire che nel pittore si vede lo scultore che affronta masse da porre in equilibrio, un’armonia ottenuta congiungendo e separando, giustapponendo peso e leggerezza in una grandiosità senza eguali.
Tre artisti, tre moti interiori differenti, tre differenti orientamenti dell’anima che mostrano altrettanti modi differenti di incontrare il mondo e rappresentarlo artisticamente: un’anima che vive in se stessa ed è pura contemplazione del bello; un’anima che anela al sapere e al riconoscere; un’anima che vive nell’immedesimazione con il mondo in quanto esperienza di unità.
È un fatto che si impone all’attenzione che tre esperienze artistiche così diverse e che danno nel loro insieme un senso di profonda unità si presentino in tre vite d’artisti tra loro contemporanei.
Per ritrovare qualcosa di analogo bisogna arrivare fino al 1800 in pieno impressionismo per vedere in Gauguin un’esperienza di bellezza puramente pittorica dove spesso la forma è pura occasione per il colore, la prospettiva si annulla nella giustapposizione cromatica e gli elementi pittorici si intessono nel linguaggio del colore.
In Van Gogh si sperimenta l’incessante tentativo di immedesimazione con il mondo, prima attraverso il volersi riconoscere nel soggetto al fine di rappresentarlo per ciò che esso è e non per ciò che esso sembra. Poi passa per una immedesimazione nelle forze nascoste della natura, nella volontà di rappresentare le forze di cui vive il mondo. In Cezanne si fa l’esperienza del metodo, dell’intenzione di conoscere le leggi del rappresentare, l’incessante osservazione e poi la strutturazione della tecnica pittorica per portare a coscienza i perché del senso di unità e vitalità dell’opera d’arte.
Anche in questi tre grandi le cui opere esposte attirano sempre grandi folle di pubblico si manifesta qualcosa che nel suo insieme viene sentito come una unità. Si tratta delle tre attitudini dell’anima sufficientemente liberate da elementi individuali o epocali per essere individuabili più nitidamente che in altri: il senso del bello, del giusto e del vero.
Mentre un tempo esisteva un’armonia tra arte e tecnologia che si bilanciavano nel fluire della vita quotidiana, contribuendo all’equilibrio della vita emotiva e spirituale dell’individuo, oggi si assiste al predominio della tecnica, mentre l’arte è un “lusso” di pochi, una forma di snobismo avulsa dalla vita reale dell’ individuo. Possiamo parlare di questo squilibrio e di come l’arte possa tornare a rappresentare un elemento fondamentale della vita quotidiana degli individui.
Si può considerare l’arte come manipolazione della materia al fine di produrre qualcosa che è più della somma delle singole parti. L’artista usa la sostanza grezza e la organizza in modo che in essa si manifesti ciò che non è a tutta prima percepibile. Lo scienziato vuole svelare le leggi all’intelletto analitico, l’artista vuole farle riconoscere al senso sintetico che fa sentire tutt’uno con esse. Anche la tecnologia è manipolazione della materia capace di produrre oggetti che sono sempre la somma delle singole parti. Questa è la sola differenza tra arte e tecnica. La prima produce qualcosa che è più della somma delle sostanze che la compongono, la seconda è riconoscibile in ciò che è sempre e solo la somma delle parti. Si può dire che l’arte è unità organica proprio perché è specifico dell’organismo essere qualcosa di più della somma delle parti.
Oggi c’è un forte disequilibrio tra arte e tecnica; la seconda permea quasi ogni istante della vita umana conformando ad essa i gesti quotidiani e con essi i pensieri che acquisiscono morta forma inorganica analoga a quella della tecnologia stessa. L’arte e la tecnologia si presentano come le facce opposte della stessa moneta, come le due metà dell’intero, l’una necessaria all’altra per cogliere l’interezza delle cose, della realtà.
L’orientamento sproporzionatamente favorevole allo sviluppo tecnologico e al contempo la celebrazione rituale dell’arte come fatto avulso dalla vita o tutt’al più affiancato ad essa tendono a svilire la coscienza umana perché la privano di quel contenuto di immagini forgiato dalla capacità di cogliere l’unità organica della molteplicità, capacità che solo si esercita nel fare arte e nel godimento artistico oppure nella relazione con la natura.
Attraverso l’interiore senso artistico si sente la vita; attraverso l’unilaterale educazione alla tecnologia dovuta al quotidiano e incessante uso di essa si corre il rischio di orientare la coscienza alla frammentazione dei bit e alla inappagante trasparenza del meccanismo.
Perché la tecnologia sia fruttuosa va bilanciata dal senso artistico capace di guardare il mistero presente nel vivente e in ciò che è cosciente, mistero cui allude la realtà che gli artisti intuiscono e vogliono manifestare nella ricca molteplicità delle loro opere.
La continua e quotidiana esperienza della tecnologia è propria di ogni uomo in modo relativamente indipendente dalla posizione sociale o dal lavoro o dalla nazionalità e per questo si impone come necessaria ad equilibrare questo abuso una quotidiana esperienza artistica individuale ma non è possibile pensare ad un mondo di artisti proprio come non ogni uomo è un tecnico per il solo fatto di convivere con l’uso della tecnologia. È necessario che l’arte sia sperimentata nel vivere quotidiano allo stesso modo in cui la tecnologia permea il quotidiano di ognuno (automobili, elettricità, internet, telefonia, TV, radio, ecc.); il senso artistico di ogni uomo opportunamente rafforzato dovrebbe forgiare la vita quotidiana, le sue relazioni, il suo lavoro, il suo rapporto con il mondo, non solo nella contemplazione ma proprio nella forma che la vita prende.
Questa ipotesi prevede che si dedichi spazio sufficiente all’educazione di un profondo senso estetico nei giovani e nei bambini e che ogni adulto consapevole di questo bisogno si dedichi alla propria formazione estetica.
Per concludere, una riflessione sulla potenzialità positiva che lo sviluppo del senso artistico avrebbe nei rapporti sociali e nell’integrazione dell’“altro” nel proprio mondo, sia esteriore che interiore
In una società multietnica come quella in cui viviamo ci sono infinite possibilità di sperimentare l’altro come pericolo per sé: pericolo per la perdita del lavoro, dell’identità, delle forme sociali, ecc.
Sulla scia di queste riflessioni penso che un senso artistico che faccia identificare nell’altro (van Gogh), che crei aspirazione a conoscere l’altro (Cezanne) oppure che trovi il bello nell’altro (Gauguin) aprirebbe inconsuete possibilità all’incontro tra realtà differenti quali si sperimentano nella società e nell’incontro con l’altro uomo.
Il mondo del lavoro che è stato profondamente trasformato dalla tecnologia dovrebbe lasciarsi permeare dal senso artistico ritrovando attraverso di esso la possibilità di essere mezzo di manifestazione dei talenti, di sperimentazione della propria dignità e del senso della comunità.
Vittorio Tamburrini, 48 anni, dal 1985 si dedica al lavoro sul colore sia nei suoi aspetti teorici, con un’intensa attività di divulgazione della “Teoria dei colori di Goethe”, sia negli aspetti legati agli ambienti di abitazione e quindi nel progetto colore e nella tecnica di colorazione d’interni in trasparenza, che attraverso l’insegnamento della pittura (nel periodo dal 1991 al 1997). È fondatore di un’azienda che produce colori e pitture a base di chimica vegetale.