Le lingue straniere nelle prime classi | di Athis Floride (tratto dalla rivista “Arte dell’educazione”)
La pedagogia applicata nelle scuole Waldorf è universale, cosmopolita, nel senso più ampio della parola. E’ anche moderna, perché, se l’educazione deve tener conto delle particolarità, dei caratteri specifici di ogni popolo, deve nello stesso tempo infrangere le frontiere per trovare l’universale.
Nel ciclo di conferenze che egli tenne su “Le anime di popolo” ad Oslo nel 1910, Rudolf Steiner avvertì che “il futuro immediato dell’umanità condurrà tutti gli uomini verso un destino comune, molto più di quanto non sia accaduto fino ad ora”.
Queste parole evidenziano ciò che, in seguito, è diventato realtà quotidiana, anche se la presa di coscienza lascia ancora a desiderare : presa di coscienza del fatto che tutti noi siamo impegnati in un’ evoluzione comune, e che l’educazione deve portare il bambino ad oltrepassare ciò che è nazionale, legato ad una località geografica della terra ed in particolare a superare quelli che sono i limiti della lingua materna, eredità della Torre di Babele. Se da un lato questa lingua è portatrice di una sostanza fondamentale, dall’altro limita notevolmente sia il sentimento che il pensiero. Si imparano le lingue straniere per “tappare i buchi” della propria lingua.
Insegnare una seconda lingua – che porta naturalmente il carattere di “straniero”- è, tra l’altro, permettere agli allievi due esperienze. Innanzitutto di tuffarsi in un elemento del quale non avevamo esperienze precedenti; sin dall’infanzia, si erano legati ad un’unica lingua : quella della “madre”. Negli anni seguenti, questa resterà l’unico elemento linguistico in cui essi vivranno con tutto il cuore, l’unico strumento di comunicazione con gli altri, l’unico ponte superante gli abissi che separa gli uomini. Non immaginano assolutamente che gli oggetti che essi vedono, maneggiano, utilizzano, con cui si legano affettivamente, possano essere nominati in un altro modo. Non possono immaginare che “finestra” possa essere ugualmente “fenètre”, “window”, “fenster”. E’ una sorpresa, persino uno shock, venire in contatto con questi strani suoni che designano oggetti così conosciuti. Ciò provoca nei piccoli una profonda, gioiosa emozione, segno che essi avvertono, inconsciamente, l’effetto liberatore di questo approccio al mondo.
Allora ci si mette a giocare con questi suoni. Nelle scuole Waldorf, fin dalla prima classe – i bambini sono nel settimo anno – si è messi in contatto con due lingue straniere. Il bambino francese avverte immediatamente delle profonde differenze rispetto alla propria lingua. Il tedesco, per esempio, esige da parte sua grosse emissioni di fiato per essere parlato : si pronunciano tutte le lettere , mentre l’inglese è legato ad un a notevole sottigliezza nella pronuncia, particolarmente nelle vocali.
Il secondo effetto è una presa di coscienza di ciò che è la propria lingua. Il rapporto con la lingua materna si modifica, grazie all’apprendimento di un’altra lingua. Sono fenomeni sottili, ma ben visibili. Ogni lingua convoglia le esperienze di un popolo, di un’anima collettiva, di uno spirito. Così, parlando un’altra lingua prendo coscienza del carattere proprio della mia lingua, del mio popolo. Perché “fair play” esiste solo in inglese ? Anche il tedesco ha un vuoto linguistico per caratterizzare queste qualità di obiettività verso le regole di uno sport o di un gioco. Perché l’ausiliare più usato in tedesco è “werden” (divenire), impiegato per formare il futuro, il passivo, il condizionale? Presso i nostri amici tedeschi, si “diventa partire” (si partirà), si “diventa chiamato” (si è chiamati),- si “diventerà donare” (si donerà), ecc…..Così non ci si ammala, ma si “diventa malati”. Perché l’inglese è continuamente in atto di “fare”? Si interroga con “fare” : do you want?: si nega con “fare” I don’t want, e così via. La grammatica si trasforma in campo di esperienze e di scoperta. Consideriamo un francese che prende posizione sull’impiego costante del verbo “werden” in tedesco. Che cosa trova di fronte a questo fatto?
Il tedesco dice :” Ich werde dieses machen”, cioè :”io divento fare questo”. Ma questo “diventare” esprime un’idea transitoria. Si diventa facendo quella cosa. Poi si diventa facendo quell’altra…. L’autore conclude affermando che a tutta prima è difficile aver fiducia in un popolo che “diventa” continuamente. Ma si può avvertire e riconoscere che si tratta di un popolo “in processo”, in divenire, che non ama irrigidirsi, cosa che invece esprime l’ausiliario “essere”. E’ perlomeno ciò che offre la sua lingua. Invece l’inglese desidera agire, fare, è pragmatico, così, grazie a questi giochi, canzoni, esercizi, testi, impariamo a tuffarci in un contesto animico totalmente diverso, in un altro universo, quello dell’anima di un altro popolo, di un altro “volksgeist”, come dicono i tedeschi:
Un linguista (Caliban) caratterizza questa situazione “(Bisogna) amare altre lingue per amore della propria lingua…
Non si imparano a fondo le lingue per tradurre: lo facciamo per conoscere l’intraducibile. Le lingue straniere colmano i vuoti della nostra propria lingua e ci arricchiscono di nuove possibilità di espressione”.
La definizione della parola “cosmopolita” ben riassume lo scopo dell’insegnamento delle lingue.
COSMOPOLITA : colui che guarda l’universo come sua patria, che ama vivere in paesi diversi.
Ogni popolo apporta qualcosa all’insieme “umanità”. Non è forse questa, per definizione e in realtà, “tutti i popoli insieme”?
Prendiamo ora in considerazione un esempio pratico : l’insegnamento della lingua francese in una scuola Waldorf tedesca, nelle prime classi.
Come abbiamo già detto in precedenza, in queste scuole le lingue vengono insegnate fin dalla prima classe cioè quando i bambini entrano nel settimo anno. La prima reazione di fronte a questa decisione profetica di Rudolf Steiner nel 1919 potè essere lo scetticismo. Non c’è forse in ciò un sovraccarico intellettuale? Due lingue straniere a questa età, più la propria! Come potrà il bambino ritenere tante parole straniere? Come potrà comprendere il significato di ciò che dice?
Questa obiezione non tiene conto di un fatto constatabile ad ogni momento : il bambino è un imitatore nato. La sua facoltà di imitazione è illimitata ed egli apprende una lingua straniera come la lingua materna: per imitazione. Ogni bambino ripete esattamente – senza errori di pronuncia – i suoni emessi dalla mamma o da chi lo circonda; comprende, senza spiegazioni, ciò che gli si dice. In tal modo bisogna creare nella classe questa atmosfera di vita. Non si insegna, nel senso stretto della parola, si trasporta la classe nel paese preso in considerazione con canti, fiabe, storie, leggende, giochini veloci, filastrocche, semplici indovinelli e soprattutto molta gestualità e movimento. Allora i suoni pronunciati, i gesti che li accompagnano, i disegni mostrati, gli oggetti introdotti in modo vivo, gli atti che i bambini compiono, tutto contribuisce a creare questa atmosfera. Il bambino “si immerge” nella lingua, e riceve fin nel suo corpo fisico gli impulsi nascosti nella lingua parlata davanti a lui e con lui. La laringe di un bambino è straordinariamente morbida. Più tardi si indurirà. La capacità di apprendere una lingua è stupefacente fino ai nove anni. Portate un bimbo piccolo in un paese qualunque, oppure guardate quelli che vi si sono recati da piccoli: vedrete come, senza difficoltà alcuna, essi hanno appreso le lingue ritenute più difficili. Invece un adulto, spesso, non ode neanche più certe sonorità di una lingua straniera. Quanto a riprodurle poi…
Alla base di questo dono si trovano due elementi. Il potere di imitazione, di cui abbiamo già parlato, permette al bambino di ri-fare, ripetere senza errore ciò che vede, ode, sente intorno a sé: questa capacità gli permette di riprodurre esattamente il movimento delle labbra del maestro che parla davanti a lui.
In secondo luogo egli accorda una fiducia infinita all’adulto, in questo caso all’insegnante che conduce il corso, specialmente se questi riesce a fargli amare la lingua che egli parla. Donde la richiesta di Rudolf Steiner di scegliere, se è possibile, come insegnante di lingua straniera un originario di quel paese. L’amore che egli nutre per la sua lingua passa ai bambini, trasferendo, per così dire, la corrente della lingua stessa. Per questo il bambino si trova in un’atmosfera di ricettività.
Quali sono i mezzi di cui dispone l’insegnante per creare nella classe questo ambiente, senza il quale ben pochi alunni presterebbero attenzione? Due idee possono aiutarci in questo compito:
Una lingua si impara in una atmosfera di sogno, vale a dire quando viene toccato il sentimento, quando le forze intellettuali non si interpongono tra il suono della lingua parlata – e da imparare – e il contenuto che questi suoni portano. Si tratta non tanto di “capire” quanto piuttosto di vivere, di sentire. Un adulto può farne l’esperienza in un paese di cui egli non parla la lingua.
L’insegnamento di una lingua deve essere vivente, impregnarsi di elementi che caratterizzano la vita.
Riprendiamo queste due idee e tentiamo di scoprire che cosa nascondono. Come creare questa atmosfera di sogno? Sappiamo che il sogno è uno stato in cui non siamo completamente coscienti del contenuto logico di ciò che succede. Se nella classe l’insegnante evita di tradurre per i piccoli le poesie recitate, le canzoni, i giochi, ma fa in modo che gli allievi indovinino di che cosa si tratta, grazie a qualche parola ben scelta, a qualche indicazione gestuale, egli avrà creato questa atmosfera.
Sarebbe possibile presentare tutta una serie di esempi tratti dall’insegnamento del francese nelle prime tre classi e che dimostrerebbero come il bambino impara molto meglio ed ha molta più gioia nell’indovinare, nello scoprire egli stesso che cosa accade. Che piacere prova quando comprende subito il contenuto della poesia recitata, e ciò grazie al modo con cui viene presentata e recitata! Se gli diamo noi la traduzione, egli attende senza impegno, e con ragione, che gli offriamo il significato del vocabolo nella lingua materna. In seguito bisogna distogliere l’attenzione dell’allievo e fargli dimenticare che sta imparando una lingua straniera; bisogna fargli vivere questa lingua, vivere in questa lingua; che egli non dica più “io parlo francese o inglese…” ma che lo parli con naturalezza. Certamente è un ideale, ma un ideale accessibile e che corrisponde ad una realtà.
Ricordiamo che Rudolf Steiner consigliò a questo proposito “Noi dobbiamo raggiungere il bambino attraverso le percezioni sensibili”. “Non allacciamo la lingua ai vocaboli di un’altra lingua, ma direttamente all’oggetto”.”Il bambino impara con naturalezza a parlare in una lingua riferendosi agli oggetti”.” E’ importante, dunque, che voi dialoghiate nella lingua che insegnate”.
Grazie a scene dialogate, ad oggetti che gli mostriamo mentre parliamo -possiamo usare anche disegni, immagini, altre illustrazionic- il bambino dimentica, almeno per un istante, di trovarsi in un corso di lingua, ed afferra immediatamente vocaboli e significati, li collega direttamente ad una situazione. Ciò richiede naturalmente una preparazione impegnata dell’insegnante, ma il gioco vale la candela, perché i risultati sono stupefacenti.
Veniamo ora al secondo punto: rendere il corso “vivente”. La sua struttura deve essere tale da toccare le tre forze dell’anima del bambino: volontà, sentimento e pensiero. Agire, sentire e in seguito, progressivamente comprendere quello che si canta o si recita. Se io presento degli oggetti, degli esseri viventi rappresentati con oggetti, piante, animali, uomini, lo devo fare in modo tale che, durante la storia da me raccontata – e questo durerà parecchie lezioni – il nuovo si inserisca costantemente nel vecchio, e che il tutto si trasformi lentamente, progressivamente a piccoli passi. La ripetizione, così necessaria, non deve mai essere ripetizione morta, immobile. Bisogna che ci sia ogni volta un po’ di nuovo
ESEMPIO DI UNA STORIA SEMPLICE
Ai piccoli di una seconda classe (otto anni circa) racconto la nota favola della volpe e del corvo.
“Maitre Corbeau sur un arbre perché tenait en son bec un fromage…”
Sulla cattedra, sufficientemente in alto per poter esser visti da tutti, ho disposto un albero e sull’albero un corvo ; poi ecco che arriva la Signora volpe. Gira intorno all’albero, poi alza la testa e vede il corvo appollaiato su un ramo dell’albero.
Volpe : « Eh, bonjour Monsieur. Qui etes-vous ? Ah, oui ! Je vois : vous etes le Corbeau. Bonjour, Monsieur le Corbeau ! » Gli scolari ripetono ogni frase e, siccome io pronuncio ogni frase con voce forte e chiara, presi dalla storia, lo fanno senza difficoltà.
Un importante mezzo pedagogico, sono le variazioni: hanno lo scopo di mantenere l’interesse e di toccare il sentimento.
Prima variazione: l’indomani, o due giorni dopo, arriva la volpe, gira intorno all’albero, alza la testa…ah.
“Où est le Corbeau” ?
(Queste frasi sono pronunciate ad alta voce dall’insegnante, beninteso). Questa volta, effettivamente il corvo “n’est pas sur l’arbre.”
Riflettiamo, tra l’altro, su un principio molto importante, da sapersi in questo caso : un oggetto non agisce soltanto con la sua presenza, ma almeno altrettanto con la sua assenza. Gli allievi fanno allora uno sforzo di immaginazione per vedere interiormente l’oggetto mancante: in questo caso il corvo. La forza del ricordo viene in aiuto e ciò è di primaria importanza. Le possibilità di variazione si basano su questo.
Altra variazione: la cattedra è completamente vuota, né albero, né corvo, né volpe: nulla. Poi arriva il corvo.
Grida dei bambini :”Voilà le corbeau!”
Vola al di sopra della tavola, gracida (l’insegnante sa imitare il verso dei vari animali) vuole posarsi. Ma … non c’è più l’albero!
« Où est l’arbre? »
Il corvo si posa a terra, arriva la volpe, ecc…..
Nuova variante: sulla tavola l’albero e il corvo appollaiato su un ramo con un formaggio nel becco. Improvvisamente… arriva, viene, s’accosta, accorre….le renard? Non!…le loup (è importante che l’insegnante dica : le renard ! E i bambini :”non! C’est le loup – beninteso che il lupo era già stato introdotto in altre circostanze.
(Ecco eventualmente l’introduzione della forma negativa).
L’immaginazione del maestro moltiplica le variazioni e un tesoro di vocaboli viene assimilato dagli allievi: le renard arrive, le corbeau vole, le fromage tombe, le loup arrive, le corbeau accort, ecc… tanti verbi che i bimbi imparano a poco a poco e che, dopo alcune lezioni, posseggono sulla punta della lingua. Arte molto sottile questo dosaggio di vecchio e nuovo, utile base per le metamorfosi. Bisogna legare il nuovo al vecchio in modo tale che sia sempre compreso dai bambini, in modo che essi non corrano il rischio di perdere il passo. Così non è necessario tradurre. Se l’allievo comprende in questo modo il contenuto del corso, lo riceve attraverso una via che lo lascia libero. Possiamo così comprendere perché Rudolf Steiner ha consigliato “di evitare di cercare il vocabolo o la forma corrispondente (nella lingua materna) per una parola od espressione che i bambini devono acquisire, ma di fare in modo che il bambino colleghi immediatamente all’oggetto il vocabolo o la forma: di qui si deve partire.
Ed aggiunge “Dunque, è chiaro, non si deve riferire un vocabolo straniero al corrispondente nella lingua materna, ma all’oggetto e restare nella lingua straniera insegnata”.
Ci siamo limitati ad esempi presi dalle prime classi. Ma ci siamo accostati ad una realtà pedagogica fondamentale: solo basandoci su ciò che il bambino “è” in questa o quell’età si sviluppa il metodo; in questo caso sulla capacità di imitazione e di fiducia naturale.
Più avanti introdurremo la scrittura, la lettura della lingua straniera, poi la grammatica, ecc… Questa dovrà essere una presa di coscienza di strutture già conosciute. Questo implica che già nelle prime classi il tesoro accumulato di forme e di espressioni sia condotto in modo da presentare una base per la grammatica:
Ma lo scopo finale dell’insegnamento delle lingue straniere non deve mai essere perso di vista: preparare l’uomo alla futura missione dell’umanità, abbattendo le frontiere dell’incomprensione, condurre gli allievi ad amare un’altra lingua, a prendere progressivamente coscienza che il Verbo creatore ha assunto forme diverse, che egli brilla e risuona in modi diversi nella bocca degli uomini, ma che è portatore di una sostanza eterna, la sostanza del pensiero creatore:
A chi comprende il senso della lingua
il mondo si svela in immagine;
a chi sente l’anima della lingua
il mondo s’apre in quanto essere;
a chi vive lo spirito della lingua
il mondo dona forza di saggezza;
a chi sa amare la lingua
essa stessa conferisce la sua potenza;
così io voglio volgere cuore e pensiero
verso lo spirito e l’anima del Verbo.
E nell’amor per lui
Infine totalmente risentir me stesso.
Rudolf Steiner, Parole di verità
riusciamo a far sentire agli allievi, anche solo a sprazzi, che la lingua straniera che essi imparano non è che l’abito di cui si veste il Verbo per sviluppare in un altro popolo facoltà diverse da quelle del nostro, ci saremo accostati a ciò che una pedagogia viva delle lingue si sforzerà sempre più di realizzare