Naufraghi e isole (felici)
di Magdolna Abdel-Rahman, Micaela Irene Bucciarelli, Sara Spini (Libera Scuola Rudolf Steiner, Via Pini, Milano)
“Vedere un mondo in un granello di sabbia e un cielo in un fiore selvatico,
tenere l’infinito nel cavo della mano e l’eternità in un’ora”
(William Blake, “Canti dell’innocenza e dell’esperienza”)
Da oltre un anno si ha la sensazione di essere in balia di qualcosa di più grande di noi, mai sperimentato finora. C’è chi ne attribuisce la responsabilità alla recente pandemia, chi si limita a definire il periodo come “il periodo dell’incertezza” e chi mette in guardia grandi e piccini sulle possibili, e infauste, conseguenze. L’immagine che ci viene incontro ci parla dell’isolamento, di isole lontane, quasi monadi, distanziate accuratamente per non permettere che la socialità sia contagiosa. Si può avere un’idea della portata di tutto ciò. Solitudine e malessere sono presenti, insieme ad angosce e paure più o meno recondite.
Ecco. Per chi lavora nella scuola questo non è sufficiente. Per i bambini questa lettura della realtà non basta. La vita va avanti, e ciò è ancor più vero per i bambini e per chi si misura e cresce ogni giorno con loro. Tutto ciò ci obbliga a metterci in gioco come educatori e come uomini, ad abbandonare vecchie strade rodate per nuovi lidi da esplorare. Se torniamo all’immagine di poco fa, potremmo far comparire alla mente dei naufraghi. Per definizione i naufraghi sono “chi ha fatto naufragio, riferito (nei momenti o nei giorni immediatamente successivi al naufragio stesso, o facendone la storia) sia a chi vi è perito, sia, più frequentemente, a chi è riuscito a scamparne” (Treccani). Le azioni che suscitano queste sciagurate persone sono soccorrere, raccogliere, trarre in salvo. Proprio con questa intenzione cercano di muoversi i maestri e i genitori. Nonostante tutte le difficoltà e le limitazioni vi è ancora una luce che ci può guidare in questa impresa. L’anelito è la salvezza, la gioia, la vita.
Dunque, cosa (si) ci salva?
Immaginate allora un grande vascello alla deriva, in procinto di affondare. Gli uomini in mare cercano di aggrapparsi a qualunque cosa possa tenerli a galla; e se per caso qualcuno riesce a trovare un’asse lunga più di quel che gli occorre? Non appena si sentirà più sicuro proverà a trarre in salvo la persona vicina. Poi un’altra e un’altra ancora. Così anche nei momenti bui della storia l’uomo dimostra di essere uomo, coltivando la relazione.
La scuola è fatta essenzialmente dalle relazioni che si intessono al suo interno. Dopotutto, la relazione è alla base dell’educazione. Certo, si potrebbe dire che non bastano pochi giorni di distanza a cancellare una relazione stabile. Questo è vero. Cionondimeno, se si pensa a tutte quelle piccole fragilità presenti in ognuno di noi, il rischio è che un contatto virtuale non sia abbastanza. La scuola è fatta per essere vissuta appieno, è il luogo dove ci si può sentir vivi nel movimento, nelle parole, nelle diverse attività. La scuola dovrebbe essere quello spazio-tempo in cui si sperimenta l’Arte, con la A maiuscola, come la possibilità di ritrovare ciò che ci congiunge alla bellezza e alla verità. In altre parole, l’arte dell’educazione.
Ci salva essere, tra colleghi, pilastri di uno stesso ponte, consapevoli di essere unite nell’attraversarlo; ci risana la relazione autentica che tra noi educatrici si crea, un cerchio i cui membri siano realmente interessati all’altro, che offrano supporto, ironia e la sicurezza dell’esserci.
In questi tempi ci è chiesto uno sforzo creativo, appunto, per far inverare la legge dell’inversione, la katastrophè, il capovolgimento che, come nella drammaturgia, è la parte finale e risolutiva della trama e delle vicende dei personaggi. La possibilità ci è stata data, ironia della sorte, proprio grazie al riconoscimento delle piccole-grandi fragilità dei bambini cui va la nostra attenzione, la nostra cura. E sono proprio attenzione e cura ciò cui non possiamo prescindere in questo tempo. Vi sono momenti che sembrano avere la qualità dell’eternità, che ci riportano in una dimensione universale, catalizzati da una luce salvifica, che come educatori dobbiamo perseguire e fare nostra. Dobbiamo diventare come un faro che evoca sicurezza nell’oscurità che, così come il faro è un punto di riferimento per vascelli smarriti, così l’educatore attraverso un processo di autoeducazione deve diventare luce-guida nel buio della paura del presente.
Non parliamo però di fari isolati, nel mezzo di un mare tempestoso, ma di un insieme di fari guida che collaborano con gioia ed entusiasmo in modo costruttivo e in aiuto reciproco cercando di vedere sempre il lato assolato anche nei momenti più tenebrosi. Possiamo superare le difficoltà quotidiane e scorgere i lati positivi di ogni situazione, ricordando l’esempio del Cristo, che vedendo la carcassa di un cane ha scorto la bellezza dei suoi denti (dai Vangeli Apocrifi), a simboleggiare come in ogni momento scuro si debba cogliere il piccolo spiraglio di luce, anche grazie all’aiuto e al supporto altrui, presupposto necessario per giungere alla piena luce che illumina i volti e scalda i cuori.
Come fare dunque per ritrovare l’entusiasmo quotidiano? Da dove si attingono le forze necessarie per questo compito?
Sempre loro: i bambini, quei vascelli smarriti senza i quali il faro non avrebbe senso di esistere. È in questo rapporto di reciprocità che l’educatore percepisce la bellezza del suo compito e si nutre di stupore ed entusiasmo che carburano il suo essere. Sono i loro sguardi, i sorrisi regalati, i piccoli gesti o le frasi dette mentre si è intenti a fare un disegno, tra la scelta di un colore e un altro. Questi piccoli, ma immensi rimandi, sono ciò che immediatamente ridona vitalità. In questo scambio reciproco di calore e cura che a loro è dovuta e a noi ritorna come dono, ci si accorge che i grandi maestri sono proprio loro: i bambini.
Così come il faro si attiva nella notte, è dalla notte e dal sonno che dovremmo attingere le giuste risposte alle domande che i bambini ci portano incontro, perché “L’uomo non è creato di bel nuovo ogni mattina” scriveva Rudolf Steiner, ma necessita di esercizio costante per essere “nuovo ogni giorno” al fine di mantenere la freschezza nel cuore e l’attenzione dello sguardo. Uno sguardo che come fascio di luce possa individuare anche le difficoltà meno evidenti.
Così che tutti i naufraghi possano essere visti.
Articolo apparso su pedagogiacurativa.it
https://www.pedagogiacurativa.it/2021/04/01/naufraghi-e-isole-felici/