I dodici sensi in relazione alla pedagogia

Pietro Archiati

Roma, 21 – 25 Giugno 1994

Cari amici, in questi giorni vogliamo approfondire alcuni aspetti della pedagogia, del modo in cui noi ci rapportiamo ai bambini piccoli, perché certamente ricordate che Steiner insiste sempre di nuovo sull’importanza dell’atteggiamento interiore dell’adulto, sia in quanto insegnante sia in quanto genitore. Se si leggono i volumi 293, 294 e 295 dell’Opera Omnia (Arte dell’educazione I: Antropologia; Arte dell’educazione II: Didattica; Arte dell’educazione III: Conversazioni di tirocinio e conferenze sul piano di studi), emerge chiarissimamente l’importanza della qualità interiore del maestro, della qualità interiore dell’adulto, e non insisteremo mai abbastanza sul fatto che, in effetti, noi comunichiamo al bambino piccolo molto di più quello che siamo che non quello che riusciamo a mettere in opera in fatto di strumenti, di espedienti didattici.

Quindi, il lavoro su se stessi è molto importante, ma c’è anche una parte ben specifica di metodologia didattica, ci sono delle cose da imparare per evitare di fare certi errori: per questo abbiamo l’Antropologia e la Didattica, sotto forma di due volumi, che raccolgono le conferenze che Steiner teneva, rispettivamente, nella prima e nella seconda parte della mattinata. Deve esserci un equilibrio fra questi due aspetti pedagogici, fra ciò che il maestro è dentro di sé, da un lato, e, dall’altro, ciò che il maestro deve imparare in fatto di cose concrete, di tecniche pedagogiche, se vogliamo, per evitare di fare certi errori specifici in campo di formazione, di educazione.

Se riflettiamo su questo equilibrio fra la qualità interiore del maestro, dell’adulto, e le capacità metodiche e tecniche che egli deve acquisire, ci rendiamo conto che proprio questo equilibrio è formativo, e proprio in questo equilibrio Steiner formava i formatori, perché dava loro i presupposti per evitare i due estremi: l’estremo di puntare unicamente sulla qualità interiore del maestro illudendosi che non c’è nulla da imparare a livello specificamente metodico-didattico, e l’estremo, che conosciamo bene in quanto nel nostro tempo di materialismo è dominante, di illudersi che la formazione sia questione di espedienti tecnici da imparare.

Steiner, in fondo, ci dice che maestri si nasce, e si diventa anche. Dire soltanto che artisti si nasce è, infatti, una grande unilateralità, perché si disattende tutto ciò che va imparato in chiave di tecnica, di rapporto specifico con gli strumenti dell’artista; se si è pittori, per esempio, si disattende tutto ciò che si deve imparare nel maneggiare i pennelli, i colori, i vari materiali di cui sono fatti i colori, a seconda che siano o meno colori vegetali. Se, al contrario, diciamo che pittori si diventa, trascuriamo la realtà profondissima, che per un’artista è ancora più fondamentale, di ciò che portiamo con noi dal mondo spirituale, come risultato della nostra evoluzione precedente. Questo ci fa capire sempre meglio che la pedagogia è un’arte, non una tecnica: è un’arte, e bisogna essere artisti. Si può dire che il maestro è l’artista per eccellenza, perché nell’educare c’è un concerto, una sinfonia di tutte le arti.

Nell’educare bisogna rapportarsi fisicamente a tutte le forme di arte, per dare al bambino la possibilità di rafforzare la propria umanità confrontandosi con esse. Tutto in chiave di arte: arte del parlare, arte della pittura, arte del calcolare, arte dello scrivere. L’educazione è tutta in chiave di arte, perché l’elemento artistico ci pone nel centro, ci pone il compito di ricostruire sempre l’equilibrio tra ciò che siamo già divenuti, ciò che portiamo con noi, e ciò che dobbiamo acquisire, ciò che dobbiamo imparare. Quindi maestri si nasce, ma si diventa anche.

Se diciamo che maestri si nasce, sorge allora la domanda: può essere che qualcuno non ha portato con sé, questa volta, valicando la soglia della nascita, i presupposti per essere un maestro? Ci sono persone che non sono in grado di essere maestri, nonostante che facciano di tutto per acquisire gli elementi didattici, gli elementi della tecnica ecc.? A me pare che la risposta sia affermativa, che l’arte del maestro non è per tutti. Infatti il karma ci dimostra che non è per tutti. Non è previsto che tutti siano maestri. Se lo fosse, ogni essere umano che entra nell’esistenza porterebbe con sé questa specifica capacità artistica di accompagnare altri esseri umani nel loro processo incarnatorio; perché l’educatore ha il compito di accompagnare gli esseri umani che si incarnano dopo di lui nel loro processo incarnatorio: questo è un compito ben specifico, e non è di tutti. Io penso che riflettendo sul fatto che questo compito non è di tutti e non è per tutti, il maestro si rende conto di avere a che fare con una missione particolare, che non è data a tutti e che è, come sapete, di immensa responsabilità morale, in quanto il bambino non ha ancora la possibilità di porsi con autonomia nei confronti dell’adulto, ma è costretto, soprattutto nei primi sette anni, dove vige il principio dell’imitazione, ad assumere dentro il proprio essere quello che gli sta intorno, quindi a strutturarsi ad immagine delle persone che lo circondano. Già da questo solo risulta una responsabilità morale indicibile.

L’imitazione, la dedizione assoluta del bambino all’ambiente che lo circonda e che lo forma dal di fuori, è l’elemento specificamente religioso dell’educazione. Una forma più attutita è, invece, il principio dell’autorità che, come sapete, vale dai sette ai quattordici anni, quando il bambino vive l’esperienza del maestro ed anche dei genitori come autorità che non si possono mettere in discussione, perché se si potessero mettere in discussione non sarebbero più delle autorità. Principio dell’autorità significa che ciò che è vero per il maestro lo è anche per il bambino, ciò che è bello per il maestro lo è anche per il bambino: il bambino lo sente come bello, non lo giudica bello con l’intelletto. E ciò che il maestro vive come buono, anche il bambino dai sette ai quattordici anni lo vive come buono, spontaneamente.

In questi giorni si tratterà di vedere un pochino quali sono i vostri desideri reali, a che punto siamo in fatto di pedagogia: forse la cosa migliore sarà che io, di volta in volta, introduca un argomento, proponga alcuni contenuti, soprattutto sulla falsariga delle conferenze che avete indicato.

Oggi partiamo dalla ottava conferenza di Antropologia, quella sui sensi, e poi vedremo… E’ importante che da tutti noi vengano gli spunti, magari le richieste di approfondimento: non dobbiamo aver paura di ripetere, perché la ripetizione fa parte del principio del ritmo, il problema c’è solo quando una ripetizione avviene esattamente come la prima volta. Se l’essere umano è in evoluzione, ripete, ma ad un altro gradino: i contenuti rimangono gli stessi, ma lui è in grado di vederli con occhi nuovi. Se io rileggo per la terza, quarta o quinta volta un libro di Steiner, il problema non è nel fatto che io rileggo le stesse cose, il problema è che io sia cambiato, perché se sono cambiato, le stesse cose mi parleranno in modo diverso. Quindi, un bravo maestro non ha mai paura della ripetizione, perché sa far scaturire dal proprio essere ed evocare nei bambini la capacità di rivivere le stesse cose in un modo sempre diverso. E per il bambino è una gioia poter vivere dentro questa grande polarità dell’esistenza, questa polarità fra il sempre nuovo, e il costante sempre diverso (il ritmo).

Per quanto riguarda i sensi, io ho pensato di proporvi un paio di pensieri. Parto da un’affermazione che forse vi sorprenderà, ed è che quando diciamo che un animale percepisce qualcosa, ad esempio quando diciamo che percepisce un colore o un tavolo, noi diciamo degli antropomorfismi: queste affermazioni sono sbagliate, perché l’animale non è capace di percezione, questa è l’affermazione che vorrei mettere alla base delle nostre riflessioni sui sensi, perché la realtà dei dodici sensi presuppone che noi ci facciamo un concetto di ciò che è la percezione. Ogni senso è una porta di percezione del mondo esterno. Poi li vedremo tutti e dodici. Adesso ritengo importante riflettere su cosa avviene quando percepiamo qualcosa, che poi percepiamo con l’occhio o con l’orecchio o con il naso, che sia una percezione uditiva, gustativa, olfattiva o visiva, queste sono variazioni importanti, ma perché le chiamiamo tutte percezioni sensibili o sensorie? E perché chiamiamo i dodici sensi tutti sensi? Perché hanno qualcosa in comune: hanno in comune la percezione sensibile o sensoria. Che cosa è specifico della percezione sensibile o sensoria? Il fatto che si tratta di un fenomeno specificamente umano, che non riguarda affatto gli animali. Quindi gli animali non sono in grado di percepire le cose, e dire che un gatto percepisce un colore è un grave errore di pensiero, è un’approssimazione alla quale ci siamo abituati, ma, in chiave di scienza dello spirito, è importante che noi correggiamo queste approssimazioni, che procediamo con maggiore rigore scientifico.

Vi ricorderete che Steiner, nel corso della conferenza, accenna al fatto che la scienza dello spirito è molto più rigorosa della scienza ufficiale, la quale, non avendo altri presupposti più specifici, fa delle grandi approssimazioni, spesso commettendo gravi errori.

Diciamo, quindi, che l’animale sente il colore, (fìg. 1 )

Prendiamo un gatto o un toro che guarda una superficie rossa. Questo sentire è il polo corrispondente all’operare (qui è un po’ difficile trovare le parole giuste, perché il linguaggio non è ancora arrivato al punto di distinguere con chiarezza questi fenomeni) (fig. 2)
Per l’animale, nel lato oggettivo, c’è l’operare delle cose dentro di lui e, nel lato soggettivo, c’è il sentire. L’animale è capace di sentire; quando la luce è troppo forte gli fa male, quando gli manca il cibo soffre. Il gradino successivo consiste nel fatto che ci deve essere una regione dentro di noi (a sinistra nella figura), dove le cose cessano di operare dentro di noi: e questa è la percezione. La percezione è la capacità di portare l’operatività delle cose dentro di noi al punto nullo. Quindi la percezione si può descrivere soltanto negativamente. Se qualcuno di voi ha studiato i testi di teoria della conoscenza di Steiner (La filosofia della libertà e anche gli scritti sulle opere di Goethe), si sarà reso conto che ogni volta Steiner tenta di rispondere alla domanda: che cos’è la percezione? Come possiamo arrivare alla percezione? Togliendo tutto ciò che noi siamo abituati ad aggiungere con il pensiero.

Quando noi togliamo tutto ciò che siamo abituati ad aggiungere tramite il pensare, che cosa resta? Nulla. In altre parole, non si può dire che cos’è la percezione, perché noi diciamo cos’è la percezione con il pensiero. Quando io dico: “Questa è una rosa”, ho già oltrepassato la percezione, sono già nel pensiero. Con il pensiero dico che questa cosa qui è una rosa. Che cosa avevo quando ero nella pura percezione? Niente! Quindi la percezione è un addormentarsi per l’essere umano in quanto essere pensante, e, d’altra parte, soltanto un essere pensante, capace di pensiero, è capace di addormentarsi nel pensiero.

Se vi sembra difficile capire quello che sto dicendo, trasponetevi in quel momento in cui noi guardiamo una cosa e ci chiediamo: “Che cos’è?” (fìg. 6).

Cosa avviene in quel momento? Vedo qualcosa di nero a distanza, poi, pian piano si avvicina e vedo che si tratta di uno sciame di mosche: quando vedo a distanza, e sto lì a scrutare, quella è la percezione. Quindi la pura percezione è assenza di pensiero. La percezione è provocazione a pensare, e solo l’essere umano è capace di percezione, perché solo l’essere umano è capace di pensare.

Partiamo dalla percezione dell’Io, dal senso dell’Io. Il senso dell’Io serve a percepire l’Io altrui. Il senso dell’Io non è il sentimento dell’Io. Con il sentimento dell’Io, io sento il mio Io, il senso dell’Io, invece, percepisce l’Io altrui. Il mio Io non lo posso percepire, lo posso solo vivere, quindi vedete che, in un certo senso, non possiamo mai avere, nei confronti del nostro Io, quella distanza assoluta che, ci consente la percezione. Non possiamo mai staccarci dal nostro Io, ecco perché non possiamo percepirlo. Ma l’Io di un altro lo posso percepire. Proprio perché non posso mai uscire da me stesso, il mio Io non può mai diventare percezione, perché nella percezione io devo perdere del tutto l’essere. La percezione è il punto in cui perdo del tutto l’essere, e perdo del tutto l’essere nella percezione affinché mi sia data la possibilità di riconquistarmi l’essere nel pensiero. Il mio Io non lo posso mai perdere, quindi non lo posso mai percepire. Il mio Io non lo posso mai pensare in senso stretto. Le cose si complicano se mettiamo in rapporto l’Io ordinario con l’Io superiore: siccome il mio Io ordinario non è il mio Io superiore, allora posso anche parlare di percezione dell’Io superiore, ma bisogna prima distinguere fra l’Io ordinario e l’Io superiore. In questo contesto, però, limitiamoci alla distinzione tra il nostro Io come lo viviamo normalmente, e l’Io dell’altro, così come lo percepiamo in base ad un senso ben specifico, che lavora come tutti gli altri sensi, il senso dell’Io appunto.

Nelle nuove edizioni di La filosofia della libertà, soprattutto nelle aggiunte del 1918, Steiner descrive che cosa avviene quando parliamo fra di noi, quando due persone, chiamiamole A e B, parlano insieme. Come fa A a capire quello che dice B, e come fa B a capire quello che dice A? Io non posso diventare l’altro: quindi non è un’enorme illusione, non è un’enorme presunzione quella di dire che ho capito l’altro? Lo è, perché io posso recepire dentro di me soltanto quello che è consono al mio essere; e se quello che è consono al mio essere non avesse nulla a che fare con quello che l’altro è? Come faccio a dire che l’ho capito? C’è comunicabilità fra gli esseri umani o no? Questa domanda è molto importante, ed ha svariati risvolti psicologici, pedagogici e filosofici. La risposta a questa domanda, in fondo, finora nell’umanità l’ha data soltanto la scienza dello spirito, perché soltanto la scienza dello spirito è in grado di analizzare il fenomeno della percezione. Nella misura in cui, invece, la scienza moderna ha paragonato, sempre di più, l’uomo all’animale, ha perso la possibilità di comprendere i fenomeni sia della percezione sia del pensare, e per essa rimane senza risposta la domanda su come avvenga l’interazione fra due esseri umani se nessuno dei due può uscire da se stesso. A resta in A e B resta in B, perché ognuno dei due si illude di aver capito l’altro, ma questa comprensione è soltanto un prolungare il proprio essere nell’altro, un attribuire ciò che si ha dentro di sé all’altro: questo non significa aver capito l’altro. Se noi facciamo con A e B lo stesso procedimento di prima ed attribuiamo ad entrambi, in quanto esseri umani, sia la capacità di percezione che di pensiero, che cosa avviene? Avviene che A ha la capacità di percepire B in base al senso dell’Io, e B, ugualmente, ha la capacità di percepire A in base al senso dell’Io. Ora analizziamo soltanto A. Cosa fa A quando ascolta B? Quando A ascolta B è nella percezione di B. Cosa significa che A percepisce B col senso dell’Io? Significa che A sospende per un momento il sentimento del proprio Io e si addormenta in B: velocemente, perché quando due persone si parlano ci si addormenta e ci si sveglia in un attimo. I fenomeni spirituali hanno una velocità che non è minimamente paragonabile con la lentezza, la pesantezza del mondo della gravita. Il mondo spirituale è il mondo della levità. L’uomo d’oggi, abituato a considerare reale solo il materiale, la pesantezza, la lentezza della materia, ha difficoltà ad immaginarsi un fenomeno come quello che si svolge spiritualmente fra due persone che parlano, dove, in un secondo, c’è la possibilità di addormentarsi cinque volte, e di risvegliarsi altrettanto alla svelta. Basta un pochino di ginnastica spirituale. Basta capire che nel mondo dello spirito i fenomeni non soggiacciono alla gravita, quindi possono essere molto veloci. Quando A percepisce B perché si può parlare di percezione? Perché la percezione è nulla, solo col concetto A o B dice: “Ah, qui ho a che fare con un Io umano”.

Quindi, quando A si risveglia nel pensiero e trova il concetto, che concetto trova? Il concetto dell’Io (fig. 7)

“Ho a che fare con un Io!”. Adesso dov’è A? Nel suo pensiero, e col suo pensiero dice: “io ho a che fare con un Io”. Prima di risvegliarsi nel suo pensiero, quale era la percezione? Quella di addormentarsi in un Io. Così come prima aveva, mettiamo, percepito una rosa, ora percepisce un Io, e si risveglia nella sua attività pensante col concetto di rosa e col concetto di lo. Mentre era nella percezione della rosa cosa era avvenuto? Un addormentarsi nella rosa. Quindi la percezione della rosa è un addormentarsi nella rosa: a che scopo? Affinché ci si risvegli al processo pensante col concetto di rosa. Quando io percepisco un altro io umano, mi addormento nell’altro io umano. A che scopo? Questo esercizio che l’altro mi faccia addormentare dentro il suo Io quando faccio l’esperienza della percezione dell’Io altrui, ha lo scopo di farmi risvegliare dentro al mio Io e di farmi dire: “E’ un Io!”. Come faccio a sapere che l’altro è un io? Perché mi rendo conto che l’elemento nel quale mi sono addormentato è della stessa natura dell’elemento nel quale mi sveglio, cioè il pensare. Infatti il senso dell’Io viene dopo il senso del pensiero, perché soltanto un essere capace di pensiero è un essere capace di Io, dell’esperienza dell’Io. Quindi la successione dei sensi è molto importante.

Al senso dell’Io segue il senso del pensiero, o della rappresentazione, un senso estremamente complesso. Dopo segue il senso del linguaggio, del suono articolato, quindi viene il senso dell’udito, del suono non linguistico, del suono, non del rumore, perché il senso dell’udito non è il senso del rumore. Il senso dell’udito è il senso del suono, e per avere la percezione di un suono in quanto suono, devo percepire attorno a questo suono tutti i suoni armonici che lo accompagnerebbero se di un suono facessimo una melodia o un’armonia. Se volete facciamo una scala dei sensi (fig. 8).

Nell’antropologia tradizionale, l’udito viene riferito sia al senso dell’udito sia a quello del linguaggio, mentre qui si distingue tra un senso che percepisce la parola e un senso che percepisce il suono, il suono non prodotto dall’essere umano che parla. Poi vengono il senso del calore, il senso del colore o vista, il senso del gusto, il senso dell’olfatto. Quindi abbiamo il quaternario dei sensi attraverso i quali noi percepiamo la nostra interiorità: il senso dell’equilibrio, attraverso il quale noi percepiamo lo stato di equilibrio o di squilibrio del nostro organismo, quindi il senso del movimento, del movimento interno dell’organismo, per esempio quando parliamo con qualcuno possiamo avere la percezione dei movimenti della laringe o degli umori dentro di noi. Abbiamo quindi il senso della vita, cioè la percezione del benessere e del malessere dell’insieme della nostra corporeità: per esempio se ci si sente stanchi, in che modo si percepisce il senso della stanchezza? Attraverso il senso della vita. Oppure come si percepisce la forza, la vitalità quando ci si sveglia al mattino dopo un buon sonno? Se non ci fosse il senso della vita, non potremmo sentirci così pieni di energia. L’ultimo è il senso del tatto.

I quattro sensi dell’Io, del pensiero, della parola e del suono, ci permettono di percepire l’interiorità di altri esseri, soprattutto di esseri umani. Il calore, la vista, il gusto e l’olfatto, servono a percepire il mondo circostante. Quindi abbiamo un modo quadruplice in cui l’essere umano percepisce un altro essere umano, un modo quadruplice in cui l’essere umano percepisce il mondo e, infine, un modo quadruplice in cui l’essere umano percepisce se stesso attraverso il senso dell’equilibrio, del movimento, della vita e del tatto. Però vedete che dove io divento percezione per me stesso, non percepisco il mio Io, non percepisco i miei pensieri, perché i miei pensieri li devo pensare, non percepire, mentre posso percepire i pensieri di un altro essere umano. Quali sono gli aspetti di me che io percepisco? Quelli corporei. Riguardo a me stesso dov’è che mi divento percepibile? Nella mia realtà corporea. Invece dove si tratta di condurre pensieri, dove si tratta di architettare le parole e dove si tratta di far prorompere dei suoni da strumenti musicali, tutta questa realtà che deve promanare da me non la posso percepire, posso solo attivamente produrla. Devo creare l’Io, perché il mio Io non mi viene mai dato con la percezione, lo devo sempre creare, devo creare pensieri, perché se non li penso non li posso percepire, non ci sono.

Soffermiamoci con Steiner sul mistero dell’Io, e prendiamo, da questa ottava conferenza, l’affermazione che dice che dove io vivo il mio Io si tratta di un processo di volontà, mentre la percezione dell’io altrui è un processo di conoscenza. Cosa significa che io sperimento l’Io altrui in chiave di conoscenza, e che sperimento il mio Io in chiave di volontà? Che tipo di polarità è questa fra conoscenza e volontà? La polarità conoscenza-volontà è sottesa a tutte queste conferenze (fig. 9)

Che tipo di polarità è? Nella conoscenza io ho la possibilità di star fuori dalle cose. Come mi tiro fuori dalle cose? Mi tiro fuori dalle cose se lascio dentro di me soltanto un’immagine di specchio. Nella conoscenza noi perdiamo la realtà in quanto operante e tratteniamo della realtà solo un’immagine speculare. Nella volontà, invece, ci inseriamo nella realtà attraverso il nostro operare vivente. Se ora ci chiediamo a che serve questa capacità che noi chiamiamo il pensiero, la conoscenza, la capacità di esperire il mondo in chiave conoscitiva, se ci chiediamo a che serve avere dentro di noi soltanto le immagini delle cose, la risposta è: serve alla libertà.

La possibilità che noi abbiamo di ridurre le cose, che fuori di noi sono reali, alla loro immagine morta, speculare, fa sì che queste cose non ci costringano in nessun modo, non ci determinino. Quindi la conoscenza ordinaria, che è una conoscenza di immagine speculare, è il presupposto necessario della libertà. Questa conoscenza è l’altro lato della percezione. Che cosa ho nella percezione? Il nulla della cosa! E nel pensiero ordinario che cosa ho della cosa? Solo un’immagine. Ed entrambi a cosa servono? Alla libertà.

Quindi, la percezione ci rende possibile la rappresentazione, il pensiero e il concetto. Il concetto ci rende liberi.

In altre parole, nel polo della conoscenza l’essere umano si tira fuori dalla realtà e si rende libero. Il polo della conoscenza è il polo di individuazione, di separazione dal reale. Perciò bisogna stare attenti con il bambino a non diventare unilaterali nella conoscenza, perché lo si tirerebbe fuori dal reale, mentre il bambino vive una fase in cui è dentro al reale, e si può cominciare a tirarlo fuori soltanto intorno al quattordicesimo anno, quando il ragazzo comincia ad essere capace di concetti veri e propri, grazie ai quali si pone oggettivamente di fronte al reale.

Quindi, in che modo ho l’Io altrui? Ce l’ho in chiave di percezione e in chiave di rappresentazione concettuale. In altre parole, che cosa ho io dell’altro? Niente, ho dell’altro ciò che mi lascia libero, e perciò è un altro e non io. Invece il mio Io lo devo esperire in chiave volitiva, perché il mio Io è una realtà; non posso avere del mio Io soltanto l’immagine speculare, perché sono io. Riassumendo: dove sono in chiave di conoscenza mi tiro fuori dalla realtà, quindi la conoscenza è un processo di individuazione, d’indipendenza, di rendersi autonomi, perché lì lascio le cose, le lascio totalmente nella percezione. Invece nel polo della volontà sono dentro alle cose, lì agisco, lì si tratta di un dinamismo dove gli esseri sono gli uni dentro agli altri. E, in fondo, tutta l’arte educativa è un’arte di sano ritmo, di sana alternanza tra questi due poli.

Prendiamo un esempio, l’esempio del linguaggio, in quanto il linguaggio presenta entrambi i fenomeni, sia quelli conoscitivi che quelli volitivi. A livello grammaticale (il bambino non lo deve sapere, ma il maestro deve sapere in che modo il bambino vive l’elemento grammaticale della conoscenza e l’elemento grammaticale della volontà) qual è l’elemento specifico della conoscenza? Il sostantivo. E qual è l’elemento grammaticale specifico della volontà? Il verbo (fìg. 10)

Ogni volta che il maestro pronuncia un verbo, il bambino vive nella realtà dell’inserirsi nell’azione, perché ogni verbo è un fare, è un operare. Nell’operare io sono in interazione con il cosmo; quando invece ho un concetto, che si esprime nel sostantivo, sto contemplando il cosmo. Si potrebbero fare esercizi per vedere che differenza c’è tra il raccontare una fiaba in chiave di sostantivo e il raccontare una fiaba in chiave di verbo. Gli aggettivi sono elementi del sentimento, i sostantivi sono elementi del pensiero e i verbi sono elementi della volontà.

Quali bambini vivono, grazie al loro temperamento, nell’elemento del verbo? I collerici.

Quale temperamento vive di più nell’elemento del sostantivo? Il malinconico, che si tira fuori del mondo, osserva il mondo in modo contemplativo (fig. 11).

E quale temperamento vive di più nell’elemento dell’aggettivo? Sono due, uno che tende più verso il sostantivo e un altro che tende di più verso il verbo: flemmatico e sanguinico.

Nella misura in cui il maestro ha questa consapevolezza, diventa veramente un’artista. In chiave di letteratura, ad esempio, cosa abbiamo nel verbo? L’elemento drammatico. Nel sostantivo abbiamo l’epica, e nell’aggettivo abbiamo l’elemento lirico.

SOSTANTIVO EPICA PENSARE

AGGETTIVO LIRICA SENTIRE

VERBO DRAMMATICA VOLERE

Sono tre sfumature completamente diverse: quando io declamo qualcosa in chiave di epica, devo mettere l’accento sui sostantivi; se, invece, presento qualcosa in chiave drammatica, devo stare attento ai verbi. E quando recito in chiave lirica, l’elemento importante sono gli aggettivi. Se prendiamo i vangeli per esempio, il Vangelo di Marco è il vangelo della volontà, e perciò è più breve, perché a Marco non interessa tutto quello che il Cristo ha spiegato, gli interessa ciò che il Cristo ha fatto. Il Vangelo di Giovanni è il vangelo dei sostantivi, è il vangelo del pensiero. Il Vangelo di Luca, il vangelo del cuore, il vangelo delle sfumature, è veramente il vangelo del sentimento, dove l’elemento portante sono gli aggettivi, le qualità animiche che essi esprimono.

Prendiamo adesso la fiaba di BIANCANEVE E ROSAROSSA: leggerò la fiaba in chiave di verbi, sottolineandoli e, poi, in chiave di aggettivi.

LETTURA FABIA (riportata in Appendice)

Se si è attenti si sentono anche le mancanze che spesso si trovano nelle traduzioni. Facendo un confronto con il testo originario, in tedesco, si scopre una cosa molto interessante, e cioè che il sostantivo e il verbo hanno, nell’insieme della lingua tedesca, un ruolo molto più importante che non nella lingua italiana, dove prevalgono gli aggettivi. Nel testo italiano è evidente la diluizione del verbo. Il testo italiano, per esempio dice: “Erano così buone che al mondo non se n’è mai viste…” mentre il testo tedesco dice: “…che al mondo non ne erano mai sorte”. Vedete la differenza? In italiano il verbo è meno forte. Nel tedesco, quindi, il bambino acquisisce un rapporto molto più intenso con il verbo, con l’azione. L’elemento volitivo, del resto, è quello nel quale il bambino vive già in partenza, mentre con il passare del tempo l’accento si sposta sull’altro polo, quello del sentire e, più tardi ancora, su quello della conoscenza. Ancora, il testo italiano dice: “cogliere farfalle”. Vi sembra giusta questa espressione? Le farfalle si colgono o si prendono? I fiori si colgono, le farfalle si prendono! I verbi non si possono mettere a caso. Vedete come è importante trovare una forma, una chiave di lettura per una fiaba, perché il bambino vive nell’oggettività del linguaggio, vive nell’oggettività di ciò che un verbo suscita dentro di lui come esperienza operante. Se dico “prendere fiori e cogliere farfalle”, non va bene. Il bambino deve sentire: “cogliere fiori e prendere farfalle”.

Continuiamo la lettura… adesso troviamo nel testo italiano: “Biancaneve se ne stava con la mamma…” Non sarebbe meglio stava ? Con quel “se ne” il verbo non risulta un po’ annacquato?

Adesso poniamo un altro problema: Biancaneve chi è? E Rosarossa chi è? Biancaneve è il bianco-niveo della conoscenza (la neve è la realtà del bianco in forma pura), Rosarossa è il rosso-roseo degli impulsi volitivi (la rosa è la realtà del rosso in forma pura): in questa fiaba abbiamo a che fare con queste polarità dell’essere umano, quindi tutto ciò che è in chiave conoscitiva lo deve compiere Biancaneve, e tutto ciò che è in chiave volitiva lo deve compiere Rosarossa. Si può anche leggere il titolo italiano sottolineando di più neve in Biancaneve e rossa in Rosarossa: infatti, nella conoscenza viene prima il sostantivo e poi l’aggettivo, nella volontà viene prima l’aggettivo e poi il sostantivo: Nevebianca e Rossarosa.

Intervento: E nella lingua inglese, dove l’aggettivo viene sempre prima del sostantivo?

Archiati: il rapporto tra aggettivo e sostantivo è molto importante. In italiano si possono avere tutte e due le possibilità, però un buon ragazzo non è un ragazzo buono, un buon uomo non è un uomo buono: buoni uomini ce ne sono tanti, uomini buoni molto meno. Gli inglesi non hanno questa possibilità di invertire l’aggettivo e il sostantivo che noi abbiamo e che, tra l’altro, usiamo troppo poco perché stiamo impoverendo il linguaggio in modo pauroso. Questa possibilità di invertire l’aggettivo e il sostantivo, ci permette di esprimere le sfumature: una piccola cosa non è una cosa piccola. Non so se sapete che in tedesco c’è un solo elemento grammaticale che viene scritto sempre in maiuscolo, ed è il sostantivo. Cosa vuol dire questo? Questo fatto indica il pericolo di una grossa unilateralità, il pericolo di intellettualizzare, di arroccarsi troppo sul lato del pensiero. Però, bisogna aggiungere a questa un’altra osservazione, e cioè che quando un polo viene esasperato, l’altro reagisce a sua volta, e qual è l’altro? Quello della volontà.

Oggi prendiamo la settima conferenza di Arte dell’educazione II: Didattica. Ci interessa in particolare il modo in cui Steiner descrive il famoso “Rubicone”, cioè la difficile soglia dei nove anni: si tratta di una soglia perché fino ai nove anni il bambino non si percepisce, non si esperisce come diverso dal mondo, e, per questo, prima dei nove anni, ogni storia, ogni fiaba, dovrebbe dargli il senso della propria distinzione dal mondo, perché il bambino non ce l’ha, il bambino è una cosa sola con il mondo. Intorno al nono anno, nel giro di poche settimane, di cinque o sei settimane al massimo, il bambino comincia ad avere un primo, chiaro sentimento del proprio Io, comincia a percepire la dualità fra sé e il mondo, e Steiner dice che un bravo maestro dovrebbe avere l’occhio per accorgersi che il bambino sta vivendo questo fenomeno.

La parola “Io” il bambino la comincia a dire verso i tre, quattro anni, ma si tratta solo della parola; ora, verso il nono anno, il bambino comincia ad osservare il mondo, e un aspetto importantissimo di questo mondo è proprio il suo maestro, mentre fino a questo momento il bambino non era capace di prendere posizione interiore di fronte al maestro, che era per lui un’autorità indiscutibile. In queste settimane sorge, non a livello conscio ma a livello di sentimento, la domanda: “Ma il maestro dove le prende tutte queste cose?”. Quindi non è ancora un mettere in discussione, bensì un porre una domanda e un vivere in una lotta interiore per poter risolvere questa domanda, che non viene formulata in maniera cosciente. E Steiner dice che, dal punto di vista pedagogico, è estremamente importante che il maestro trovi, in questi giorni, tempo per il bambino che sta vivendo questo momento, e che possa parlare il più possibile con lui, in modo che, da un rapporto più personale e stretto con il maestro, il bambino arrivi a convincersi che la fiducia che, finora aveva riposto in lui era ben fondata. Al contrario, se questa soglia non viene superata in modo positivo, si crea un abisso tra l’anima del bambino e il maestro. Infatti, se non c’è più la fiducia verso il maestro, e questi cessa di essere un’autorità, cessa anche di essere la forza che sostiene il bambino. Un altro aspetto di questa presa di posizione di fronte al mondo, di questo primo inizio di scissione tra l’Io e il mondo, è il fatto che il bambino comincia a porsi la domanda: “Chi sono io?”, naturalmente senza poterla formulare in modo cosciente.

Un aiuto per il maestro, in questo momento, è l’inizio delle lezioni sulle scienze naturali: grazie alla descrizione del mondo che esse consentono, il bambino, per la prima volta, prende posizione nei confronti del mondo, prende coscienza di esso, non a livello concettuale, ma vivendolo.

E Steiner ci dice che sarebbe un errore cominciare dai minerali o dalle piante, perché l’elemento più vicino all’essere umano è l’animale, ed ogni cosa che noi portiamo al bambino deve essere sempre posta in rapporto con l’essere umano, sia il topo che la seppia che il cavallo, e non in modo astratto. In altre parole, il bambino può capire il mondo soltanto attraverso se stesso, e può capire se stesso soltanto attraverso il mondo. Perciò: conoscenza del mondo è conoscenza di sé, e conoscenza di sé è conoscenza del mondo.

E’ molto importante che il maestro abbia chiara dentro di sé la differenza abissale che c’è tra il parlare di una pianta a scuola e il trovarsi nella natura vivendo questa pianta. Secondo Steiner bisogna dare le spiegazioni in classe e non quando si è fuori, nella natura, perché se si porta la spiegazione sulla pianta là dove il bambino è esposto alla pianta reale, si perde di vista la differenza abissale tra conoscere e vivere qualcosa. Per il bambino questi due campi sono opposti: l’uno è il polo della conoscenza e l’altro è quello della volontà, e quando è nella natura la esperisce in chiave volitiva; sarebbe, perciò, assurdo fargli prendere l’atteggiamento di tirarsi fuori dalla natura per contemplarla, perché lo educheremmo ad essere un individuo astratto, togliendogli le forze per vivere realmente, con tutto il suo essere, dentro la realtà.

Oggi siamo diventati tutti astratti e abbiamo perso la capacità di vivere con le cose: quanti di noi esperiscono la rosa, quando è nel vaso, in tutt’altro modo che quando è nella terra? Non riusciamo più a cogliere la differenza, perché abbiamo con la rosa un rapporto puramente concettuale. Oggi si vive unicamente nei concetti astratti, e se si vive nello stesso modo con il bambino, si uccide in lui la capacità, che egli porta dai mondi spirituali, di vivere nella realtà concreta della natura. Perciò bisogna creare in noi il senso profondo di questa polarità fra il parlare conoscitivamente delle cose e il viverci dentro con tutti gli impulsi astrali, con tutti gli impulsi eterici e volitivi.

Fatte queste premesse, sorge ora il quesito: come si può presentare al bambino il mondo degli animali?

Vi ricorderete che Steiner ne parla molto minuziosamente, e porta l’esempio della seppia, del topo, dell’agnello e del cavallo. Si parte dagli animali inferiori e si arriva, alla fine, ai cosiddetti animali superiori. Perché si deve fare così? Perché non si può fare l’opposto?

Intervento: Perché la seppia rappresenta la sfera del pensare.

Archiati: E perché la seppia è la sfera del pensare?

Intervento: Perché è solo testa e mancano il tronco e gli arti.

Archiati: Stai cercando di ricordare la settima conferenza di Antropologia, ma manca ancora un punto fondamentale. Noi nella testa abbiamo il massimo degli organi di percezione, perciò la testa è un grande osservatore, ed è anche molto pigra, Steiner dice che si fa portare in carrozza dal resto del corpo. Anche la seppia è molto sensibile, ricettiva a tutto ciò che accade intorno a lei, alle pressioni dell’acqua, alle variazioni della luce, ai sapori ecc., e al minimo movimento butta fuori l’inchiostro. Si parte dagli animali inferiori perché essi hanno principalmente sviluppato il sistema neuro-sensoriale, e al minimo gli altri due sistemi, quello ritmico-metabolico e quello degli arti.

Man mano che andiamo avanti (topo, agnello, cavallo), vediamo prevalere sempre di più l’elemento del tronco. Nell’agnello, per esempio, la parte più importante è il tronco, mentre la testa è solo un’appendice che serve per nutrire il tronco, e le zampe servono a sostenere il tronco. Nel tronco troviamo tutta la digestione, che ancora non è metabolismo vero e proprio, diventa metabolismo dove subentra l’elemento dell’azione, quindi senza una vera funzione degli arti la digestione rimane dentro al sistema del tronco. Dove noi vediamo che il tronco comincia a non avere più tanta importanza? Là dove dei quattro arti due vengono liberati dal servizio del tronco, e questo avviene soltanto nell’uomo. C’è il problema della scimmia: la scimmia ha morfologicamente quattro arti, ed è un grave errore distinguerli in due inferiori e in due superiori. Qual è, infatti, la funzione biologica degli arti superiori, delle cosiddette “mani” della scimmia? E’ una funzione al cento per cento al servizio del tronco. Qui non troviamo un termine di paragone con le mani umane. Le mani umane non sono al servizio del tronco, ma mettono l’uomo in rapporto con il mondo tramite il lavoro.

Intervento: Perché la scimmia può anche prendere degli oggetti?

Archiati: E allora l’uccello che può costruire un utensile così complesso come un nido? E’ una questione di pensiero, e dobbiamo essere cauti nel formulare delle conclusioni. E’ chiaro che si possono dire tante cose dell’essere umano paragonandolo con gli animali, e viceversa. Però la domanda è: che cosa conosco dell’essere umano quando trovo ciò che l’essere umano ha in comune con la scimmia? L’animalità e non l’umanità!

Prendiamo l’altro esempio portato da Steiner, l’esempio della sensitività. Gli animali sono sensibili, hanno dolori, bruciori ecc. Le piante, invece, reagiscono ad uno stimolo esterno. Che differenza c’è fra il reagire ad uno stimolo esterno e l’avere una sensazione? Se la sensazione la riduciamo al fatto di reagire ad uno stimolo esterno, allora ce l’ha anche la pianta. Torniamo alle “mani” della scimmia e alle mani dell’uomo: se le guardiamo esteriormente sembrano uguali, la scimmia con queste “mani” fa qualcosa, l’uomo con queste mani fa qualcosa. Ma questo solo in apparenza. E’ come voler paragonare l’animale che reagisce ad uno stimolo esterno con la trappola, che pure reagisce ad uno stimolo esterno: ma che cosa prendo per paragonare i due fenomeni? Solo l’esteriorità di essi. Quindi non stiamo negando che il “fenomeno mano della scimmia” ed il “fenomeno mano dell’uomo” abbiano degli elementi esteriori superficiali in comune, ci sono, ma sono elementi superficiali. Nell’essenza i due fenomeni sono del tutto diversi, perché la cosiddetta “mano” della scimmia è essenzialmente in funzione di ciò che deve avvenire dentro al tronco; la mano dell’uomo, invece, è essenzialmente in funzione del rapporto tra l’uomo e il mondo, di ciò che l’uomo deve compiere nel mondo esterno, di ciò che da dentro, dall’interno dell’essere umano, promana verso l’esterno. Perciò soltanto l’essere umano ha la posizione eretta: acquisire la posizione eretta significa che dei quattro arti, che in tutti gli altri animali, inclusa la scimmia, sono al servizio del tronco, due, grazie appunto alla posizione eretta, vengono liberati dal dover essere al servizio del tronco. I piedi portano il tronco dove il karma ci chiama, le mani servono all’essere umano per compiere la sua missione cosmica. Quindi, specificamente umana non è la testa, che l’uomo ha in comune con tutti gli altri animali, e nemmeno il tronco: specificamente umani sono gli arti. Gli arti esprimono l’elemento volitivo, l’elemento morale, l’elemento di responsabilità karmica, l’elemento di missione da compiere. Da un punto di vista morfologico la testa è ciò che di più animale c’è nell’essere umano, il tronco è metà animale e metà umano, gli arti sono specificamente, interamente umani.

Intervento: Su cosa possiamo fondare l’affermazione della scienza dello spirito che la pianta non ha sensibilità?

Archiati: Sul fatto che non è in grado di esprimerla. Se rimaniamo ai fenomeni che si possono osservare, noi non osserviamo la sensazione della pianta. L’animale ha un corpo astrale, la pianta non ha niente di astrale. La sensazione è un fenomeno astrale, quindi si può trovare soltanto dove c’è un corpo astrale.

Intervento: E le piante velenose?

Archiati: La pianta velenosa è l’elemento di eccezione che conferma la regola, dove l’astralità, che normalmente aleggia intorno alla pianta, entra dentro la pianta. L’animale ha il corpo astrale dentro, la pianta ha al suo interno le correnti eteriche e l’astralità intorno. Il fenomeno del fiore in che cosa consiste? La pianta perde il colore verde e diventa colorata nella corolla e nel frutto, dove l’etericità si incontra con l’astralità che è fuori: ma dove l’astralità comincia a compenetrare l’etericità fin nell’interno (cfr. la Belladonna il cui frutto ha l’aspetto di una ciliegia nascosta, però, nel calice è spinta verso il basso), l’elemento fisico diventa velenoso per l’essere umano. Senza la scienza dello spirito non possiamo spiegarci i fenomeni in modo giusto. Noi abbiamo una scienza ufficiale che descrive, ma non spiega, e perciò ci siamo abituati a non chiederci più il perché dei fenomeni.

Intervento: Quando abbiamo una terra secca e piove, ci si sente sollevati per questa pioggia, come se respirassimo insieme al terreno. E’ un’impressione solo soggettiva o la terra realmente respira?

Archiati: L’essere umano deve stare molto attento rispetto ai suoi sentimenti. Perché non possiamo fidarci al cento per cento dei sentimenti? Per il fenomeno evolutivo macrocosmico dell’egoismo. Tutti i nostri sentimenti sono in chiave egoistica. L’essere umano si è innamorato del fisico distanziandosi dallo spirituale, e vorrebbe che tutto ciò che è fisico si perpetuasse. La scienza dello spirito, invece, ci dice che la terra è in fase di disgregazione, e l’augurio che noi possiamo fare alla terra è quello di polverizzarsi. Questo significa che dobbiamo capire che tutte le cose buone, positive, che ci sono a livello fisico-percettivo, spariranno. Se noi avremo sempre più esseri umani che, in chiave di pensiero, arriveranno a pensare la realtà sovrasensibile della rosa, avremo sempre più esseri umani che renderanno superfluo alla rosa questo sacrificio immenso di esistere a livello fisico, dove la rosa perde il suo essere, perché il suo essere è nel mondo eterico: a livello fisico deve accettare tali e tanti compromessi, a seconda che la luce sia di un certo tipo, l’acqua, il terreno, i sali ecc. Quindi la rosa, nella sua natura, nella sua legge immanente pura, io non ce l’ho mai a livello fisico-sensibile: il livello fisico-sensibile esiste come provocazione al pensiero in modo che io, nel pensiero, produca la rosa vera, quella eterica. Nella misura in cui l’umanità fa questo, la rosa finisce di essere costretta a questo incantesimo, fra l’altro la maggior parte delle fiabe è incentrata sull’incantesimo, e come si risolve la fiaba? Con il risolvere l’incantesimo. Anche in Biancaneve e Rosarossa troviamo l’orso, e dietro l’orso c’è il mistero dell’oro. Chi è la prima ad accorgersene? Biancaneve, la conoscenza.

Tutto ciò che è sensibile è destinato a morire. Un sentimento umano che desidera l’eternità del visibile è un risultato del peccato originale. Questo sentimento non corrisponde alle leggi evolutive. La redenzione della natura è l’evoluzione del pensiero, e l’aspirazione della rosa è di umanizzarsi dentro all’essere umano; in quanto è stato l’essere umano ad espellere da sé la rosa, la rosa è una dimensione dell’essere umano, e l’essere umano la riassume dentro di sé se la redime attraverso il pensiero.

Steiner dice che un maestro che non ha la consapevolezza del fatto che la responsabilità morale è l’essenziale dell’essere umano e che è convinto che ciò che è più bello, più umano nell’essere umano è la testa, farà dei suoi alunni, per tutta la vita, dei fannulloni e dei parassiti, perché la testa è un parassita.

Intervento: La nostra aspirazione, dunque, dovrebbe essere che la rosa fisica scompaia?

Archiati: Non che scompaia, ma che risorga nel pensiero. Nella religione si parla di “resurrezione della carne”.

Ritornando alla conferenza, Steiner ci dice che occorre destare nel bambino il sentimento di ciò che fa dell’uomo un essere più perfetto nella forma esteriore, rispetto alla seppia, al topo, al cavallo, alla scimmia ecc. In questi animali gli arti anteriori non sono molto differenziati rispetto a quelli posteriori. La differenziazione degli arti appare soltanto nell’uomo. Perciò il maestro si deve soffermare sulla descrizione delle braccia e delle mani, deve descrivere come le mani afferrano gli oggetti per eseguire un lavoro, come possono prendere il gesso per scrivere, come possono unirsi in un gesto di preghiera ecc. L’uomo può anche non usare le braccia e le mani, l’animale no, l’animale non può essere pigro, perché le sue “mani” non sono in funzione del lavoro.

Anche il linguaggio esprime questa verità quando diciamo “rimboccarsi le maniche”. Le mani, dice Steiner, sono il simbolo più bello della libertà umana: questo deve essere fatto sentire al bambino. Se, al contrario, si comunica al bambino l’idea che l’essere umano è più perfetto degli animali in base alla testa, gli si fa credere che l’essere umano è più perfetto perché è pigro, e questo convincimento è già prevalso nella società, che crede che il mondo sia dei “furbi”. Il furbo non è l’essere umano che si chiede che cosa può fare per l’umanità grazie alle sue mani e alle sue braccia; il furbo è la testa astuta, sagace, che si chiede come può sfruttare gli altri. Il bambino sa che la testa è pigra, ed è molto felice quando può fare qualcosa, perché sente che è venuto al mondo per fare qualcosa.

Potremmo riassumere tutto questo dicendo che l’essere umano viene al mondo per compiere una missione, e la sua missione non si esaurisce nel dato biologico, il dato biologico è solo il sostrato. In che cosa consiste questa missione? Non è una missione verso gli altri, lo è soltanto indirettamente, perché se diciamo che l’essere umano viene sulla terra per fare qualcosa per gli altri, in fondo siamo ancora in chiave di moralismo; per convincere qualcuno a compiere questa missione verso gli altri, dobbiamo dirgli che deve farlo, ma se lui non vuole, non siamo ancora in chiave di libertà. In che modo gli mostriamo che viene a fare qualcosa che vuole lui stesso? Se lo riferiamo non agli altri ma al suo essere. In altre parole, ognuno di noi scende sulla terra con l’intento di fare un grosso passo avanti nella propria evoluzione e tutto il resto è strumento per questo.

Ognuno di noi si incarna con l’intento specificamente umano, che poi è la quintessenza della libertà, di acquisire, in chiave prioritaria, una dimensione specifica dell’essere umano, perché ha capito che gli manca ancora, che non l’ha ancora coltivata in modo così deciso, al punto da metterla al centro della vita: questa è l’essenza della libertà. Invece, oggi, abbiamo un mondo pieno di persone che, in fondo, non sanno cosa vogliono, questo è il grande problema anche del vivere insieme, magari sanno cosa devono, sanno cosa dicono i comandamenti, sanno quali sono le aspettative della società, le aspettative del maestro, ma si diventa liberi soltanto nella misura in cui si sa ciò che si vuole. Non dico ciò che si desidera, non parlo dei desideri, delle brame, ma parlo della volontà, della volontà pura dell’Io superiore, e scoprire ciò che l’Io superiore vuole non è così semplice, perché bisogna acquisire una certa misura di pacatezza nei confronti delle proprie aspirazioni e delle pretese che ci vengono incontro dal mondo circostante, dalla famiglia, dal lavoro ecc. Quindi, prima di tutto, bisogna comprendere che le pretese del mondo che ci circonda non sono ancora la volontà dell’Io superiore.

Poi, un altro travaglio è quello con se stessi, cioè con il proprio io inferiore, con una serie di voglie, di istinti; pensate alla quarta conferenza di Antropologia, dove ci sono questi nove gradini:

Uomo-spirito risoluzione

Spirito vitale proposito

Sé spirituale anelito

Anima cosciente

Anima razionale anelito

Anima senziente

Corpo senziente brama

Corpo eterico inclinazione

Corpo fisico istinto

Questi gradini sono sostrati, dimensioni dell’essere, dove si tratta, per ciascuno, di vedere fino a che punto ciò che si desidera, ciò che si brama, sono le voglie dell’Io inferiore o, invece, ciò che l’Io superiore veramente vuole. Io direi che l’intento che portiamo dentro di noi è quello di scoprire, in fondo, ciò che il nostro Io superiore veramente vuole, e quando qualcuno trova ciò che vuole, le cose cambiano, perché dietro alla volontà dell’Io superiore, c’è una forza armonica, una forza che scende dai mondi spirituali e si impone, perché è la volontà pura dell’Io superiore, la forza stessa della libertà, per cui anche le persone circostanti, prima o poi, sono costrette a dire: “Sì, questo corrisponde al suo essere, si vede che è venuto sulla terra proprio per compiere questa missione, per essere un pittore di questo tipo, per essere un maestro geniale di questo tipo, per essere un lavoratore di questo tipo, è proprio nel suo elemento, si vede!”. E quando noi abbiamo la percezione che un essere umano è nel suo elemento, non ci sono più problemi.

Perciò si tratta, in fondo, di costruire questa fiducia assoluta nell’Io umano, con la convinzione che ogni essere umano è un Io: lo è, non è che lo deve diventare. E non è soltanto un Io, ma un Io con la forza primigenia della libertà, che è sceso sulla terra con uno scopo, con degli intenti ben precisi. La parola stessa e-ducazione da e-ducere, condurre fuori, dice di che cosa si tratta: se non ci fosse niente dentro, non si potrebbe tirarlo fuori. Si tratta di fare come il giardiniere. Abbiamo un piccolo seme di rosa: o c’è, in questo piccolo seme, tutta la forza eterica per far saltar fuori una rosa, o non c’è; il giardiniere non può cambiare niente di questa realtà. Lo stesso vale per il bambino: qui, anche se a livello fisico è piccolo, come il seme è piccolo, spiritualmente, sovrasensibilmente, ci sono tutte le forze, le potenzialità di un’individualità che sa quello che vuole, e porta giù dai mondi spirituali tutti i presupposti per esprimersi interamente. La scienza dello spirito ci dice che è proprio così, è così per ogni essere umano, non per uno al cento per cento e per un altro solo al novanta per cento, ma per tutti al cento per cento. Abbiamo sempre a che fare con l’Io che viene sulla terra con un intento ben preciso.

Un altro compito è quello del giardiniere: se il giardiniere fa mancare l’acqua, la terra, la temperatura giusta ecc., cambia la natura del seme di rosa? No, non cambia la sua natura, però non gli si da la possibilità di acquisire la dimensione della manifestazione fisica, non si permette alla rosa soprasensibile di manifestarsi fisicamente. Il paragone calza fino in fondo: Steiner lo ha usato spesso per farci capire qual è il modo migliore di agire con il bambino, ma anche gli uni con gli altri, perché tutto questo vale anche nel rapporto tra grandi. E’ molto importante portare in sé la convinzione che ogni essere umano, soprattutto l’essere umano che si sta incarnando, soprasensibilmente non è incipiente, ma è già compiuto, e il processo non è quello di far venire all’essere, ma quello di far incarnare: è un processo di incarnazione. Il nostro compito è quello di creare le condizioni, l’ambiente che favorisca il più possibile il manifestarsi di quello che c’è e che non decidiamo noi, così come il giardiniere non decide lui se da questo seme verrà fuori una rosa, da quest’altro un giacinto e da quest’altro ancora un tulipano. Il giardiniere conosce la legge immanente che costruisce le foglie di tulipano? Neanche per sogno. La legge immanente che costruisce delle foglie di rosa del tutto diverse da quelle del tulipano, è una cosa che gestisce il giardiniere? Neanche minimamente. Così, il maestro non decide ciò che questo bambino diventerà, questo lo deve sapere il bambino, anzi lo sa, però, stando al paragone, il suolo che gli si mette a disposizione, l’aria, l’acqua che sono di enorme importanza, perché se mancano le condizioni ciò che potrebbe avvenire, non avviene.

Rifacciamo la distinzione fra la condizione e la causa. Supponiamo che le condizioni ci siano tutte, l’acqua c’è, il suolo va benissimo, il calore è quello giusto ecc., ma se manca il seme? Non succede nulla. Quindi le condizioni da sole non producono nulla. L’Io superiore viene giù con la volontà di compiere una missione, ma se l’Io inferiore non mette a disposizione le condizioni necessarie, non può venir fuori nulla. Adesso supponiamo che ci siano tutte le condizioni necessarie, però manchi l’Io superiore con la sua volontà: cosa avviene? Niente. Ecco perché è importante capire il rapporto tra condizioni necessarie e cause. La causa è sempre l’Io superiore.

Intervento: Si può dire che gli arti sono le condizioni e la testa è la causa?

Archiati: No, non la testa, l’Io. Anche la testa è condizione.

Intervento: Abbiamo detto che il giardiniere è una delle condizioni per far fiorire la rosa, però se non c’è il giardiniere la rosa può fiorire ugualmente.

Archiati: Noi non abbiamo ancora deciso se il giardiniere è una conditio sine qua non, perché bisognerebbe procedere ancora più minutamente, con ulteriori distinzioni, per sapere quali condizioni sono necessarie e quali condizioni sono non-necessarie. Diciamo che il suolo è necessario, perché la pianta non può crescere senza il suolo. Il giardiniere è una condizione non-necessaria, accessoria, però può anche darsi che il giardiniere, in un certo senso, sia colui che pone le condizioni necessarie.

Riassumiamo, adesso, tutto il discorso: il bambino, che sta crescendo, vive nell’elemento volitivo e nell’elemento del sentimento, non è ancora capace di vivere direttamente nella testa. Steiner ci ha detto ieri che se noi, verso i nove, dieci anni, quando cominciamo a dare al bambino i primi elementi di scienza naturale, descrivendo l’essere umano, mettiamo al primo posto la testa, psicologicamente portiamo il bambino ad avere un rapporto con i suoi arti tale da non apprezzarli, ed avremo, nel giro di pochi mesi, un bambino a cui abbiamo tolto la gioia di usare le proprie mani e i propri piedi. Daremmo, cioè, un grosso impulso per far saltar fuori una persona intellettuale, una persona che tenta di contemplare il mondo, a cui manca il dinamismo che vuole trasformare il mondo, mentre l’Io si realizza trasformando il mondo, non si realizza per aria, perché se l’Io potesse realizzarsi senza incarnarsi, si realizzerebbe nei mondi spirituali.

Perché scende sulla terra? Scende sulla terra perché sa che può fare un enorme passo avanti nella propria evoluzione unicamente nell’interazione con l’elemento della terra, nell’inter-azione, quindi usando gli arti, le braccia soprattutto: i piedi lo portano dove deve lavorare, e le braccia e le mani gli servono per lavorare.

Nell’Apocalisse, che conoscete forse quasi tutti, c’è un’immagine, che nell’umanità è sorta sempre di nuovo, che presenta un elemento femminile solare, la donna vestita di sole, con in grembo un bambino, il figlio dell’uomo, cioè ciò che il cammino della libertà umana genera. In questa immagine un elemento importantissimo è il fatto che la donna ha la luna sotto i piedi: ciò indica che l’interazione con l’elemento terrestre, con l’elemento della materia, diciamo con l’elemento delle pietre, delle piante e degli animali, è essenziale al cammino di generazione dell’Io. Due settimane fa ero a Chartres, e dicevo ai partecipanti al seminario che, in fondo, abbiamo tante bellissime raffigurazioni della madonna con il bambino, quindi di questo essere solare ammantato di sole col bimbo in grembo, nelle quali manca, però, la luna sotto i piedi. E io ponevo la domanda: “Come mai la luna sotto i piedi non c’è più?”. In tutte le raffigurazioni c’è sempre la madonna con il bambino, magari ci sono i dodici impulsi dei segni zodiacali, ma manca la luna sotto i piedi: i piedi sono gli arti, quindi manca l’interazione operativa con il mondo circostante, l’interazione tra l’essere umano e il sostrato di natura. La luna che è l’elemento morto, minerale nel cosmo, rappresenta il sostrato di natura.

Perché è sparita la luna sotto i piedi? Perché abbiamo un cristianesimo che non ha nessun problema a raffigurare questa immaginazione primigenia degli iniziati (anche gli egizi hanno Iside con il figlioletto Horus) senza la luna sotto i piedi? Perché? Perché il cristianesimo ha perso la dimensione della reincarnazione, nel cristianesimo è sorta, come tappa evolutiva necessaria dell’umanità, una mentalità che ha perso la prospettiva della reincarnazione. L’umanità occidentale ha cominciato a pensare che si vive una volta sola e poi, per fortuna, si entra in paradiso, cioè si è cominciato a pensare che l’evoluzione eterna dell’essere umano è in cielo, è nel mondo spirituale, lasciando indietro la terra. L’immaginazione di Giovanni dell’Apocalisse, invece, ci presenta questa donna che non scappa via, che non si tira fuori dal mondo dell’incarnazione, ma, al contrario, “poggia” sulla luna, cioè ci dice che il fondamento dell’evoluzione dell’Io sono gli arti, che l’evoluzione dell’Io si può compiere non lasciando indietro l’interazione con il mondo della natura, bensì vivendoci dentro, quindi ritornando sempre di nuovo sulla terra.

Il bambino al quale si comunica l’entusiasmo per questo elemento specifico dell’essere umano che sono gli arti, comincia a sentire dentro di sé il dinamismo operativo dell’Io superiore, che è venuto sulla terra proprio per acquisire gli arti; il bambino sa, nel suo profondo, che non è venuto giù sulla terra per cercarsi una testa che pensa, perché nel mondo spirituale pensava molto meglio di adesso, nel mondo spirituale gli mancavano gli arti, soprattutto le mani, per imprimere nel cosmo visibile questi bellissimi pensieri che lui ha già pensato, per conseguire quei passi evolutivi, che si possono conseguire unicamente compiendo questi gesti di trasformazione dell’elemento terrestre. Quando diventerà più grande, capirà che questi arti, questi piedi e queste braccia, si possono muovere nel mondo umano solo nella misura in cui c’è una testa che li conduce, però l’essenziale è che si muovano, perché se si fosse venuti sulla terra soltanto per pensare e non combinare mai nulla, sarebbe stato meglio rimanere nel mondo spirituale! Ecco perché Steiner ci conduce ad apprezzare l’elemento della volontà, l’elemento della responsabilità morale nei confronti della propria evoluzione e, indirettamente, nei confronti dell’evoluzione del cosmo.

Quindi, l’intenzione incarnatoria è l’intenzione di darsi strumenti di esecuzione dell’impulso volitivo, perché gli impulsi volitivi ci sono già, i pensieri anche, in un certo senso si può anche dire che nella testa di un essere umano, nello stato di veglia, avvengono di per sé tantissime cose, tantissimi pensieri: il pensiero ordinario è automatico. Ciò che non è automatico è la volontà, ecco perché la volontà è l’elemento della libertà. In altre parole, nessuno di noi può essere libero al livello del pensiero ordinario; invece esercitiamo la nostra libertà nel far scendere impulsi di conquista, in chiave di evoluzione, dentro agli arti, in modo che “compiamo” qualcosa, e, infatti, ci sentiamo poveri, sentiamo una diminuzione del nostro essere quando ci rendiamo conto che vorremmo fare tante cose, però questa volontà non arriva agli arti, non arriva fino alle mani. E’ qui che l’essere umano fa maggiormente l’esperienza della vanificazione del proprio essere, della povertà della propria vita, perché, in fondo, avverte che se tutto avviene soltanto nella sua testa, non ha nessun merito, perché avviene da sé. In altre parole, noi non abbiamo nel pensare ordinario la libertà, la libertà l’abbiamo là dove qualcosa non avviene se io, positivamente, di volta in volta, non decido che ci sia. Poniamoci la domanda: allora perché La filosofia della libertà fa consistere l’essenza dell’esperienza della libertà nel pensiero? E’ semplicissimo: noi cominciamo a diventare liberi nel pensiero quando cominciamo a mettere nel pensiero la volontà; finché nel pensiero c’è l’automatismo dove io non ci metto la volontà precisa del mio Io, il mio pensare avviene da sé, senza che sia io a volere ciò che avviene nel mio pensiero, saltano fuori i pensieri da soli, automaticamente, cioè non c’è dentro la mia volontà. Io comincio ad essere libero nel pensare nella misura in cui mi esercito ad immettere in questa corrente del mio pensiero la mia stessa volontà, dove sono io a decidere volitivamente quali pensieri vengono pensati, con quale lunghezza, con quale variazione ecc. ecc. Quindi, il pensare diventa libero nella misura in cui diventa un volere, nella misura in cui io faccio rifluire dentro al pensare l’impulso degli arti, l’impulso della volontà, quindi della libertà. E’ molto importante farlo comprendere al bambino, anzi non è che dobbiamo farglielo comprendere, perché lui lo sa, dobbiamo solo confermargli che il mistero della libertà è quello della volontà, non del pensiero, che si è liberi nel pensiero nella misura in cui nel pensiero c’è la volontà.

Perché il bambino lo sa? Perché sa che quando è lui a prendere in mano il gesso e a scrivere alla lavagna, quella parola che lui ha scritto non ci sarebbe senza di lui. E’ chiarissimo che il bambino esperisce il mistero della libertà dal lato del volere, della volontà. Il bambino avverte in modo armonioso il fatto che gli facciamo vedere che tutti gli animali, i più perfetti, hanno tutti e quattro gli arti al servizio del tronco, e non hanno nessun arto al servizio della volontà libera, mentre a lui, che è un essere umano, per trasportare tutto il tronco bastano un paio di arti, e con l’altro paio può scrivere, può dipingere ecc. Ecco il mistero della libertà negli arti, nella volontà. Naturalmente è importante che, dietro le azioni, ci sia la testa, ma questo il bambino lo capirà più tardi, adesso si tratta di confermare nel modo più profondo il dinamismo che il bambino sente dentro di sé, perché egli non è ancora in grado di fare tanti bei pensieri, ma è in grado di muovere le gambe e i piedi. Se noi non confermiamo la gioia che lui prova nel muovere le mani e i piedi e gli diciamo, da adulti, che la testa è più importante, lo scoraggiamo, perché lui la testa non sa ancora usarla, mentre la sua manina la sa usare, lì sente questa forza prorompente dell’Io, ed è su questo elemento che va fondata la consapevolezza che l’essere umano è diverso da tutti gli altri animali in base agli arti, in base agli strumenti della volontà, in base a questa capacità di operare liberamente nel cosmo.

Supponiamo che stiamo facendo plasmare a un bambino un pezzo di creta: attraverso le mani lui fa l’esperienza plasmante della libertà, dell’individualità, perché sicuramente il lavoro di un bambino non sarà uguale a quello di un altro, e saltano fuori lavori tutti diversi, perché le individualità sono diverse. Se il maestro, cosa terribile, comincia a dire che un bambino ha fatto meglio di un altro, si uccide l’esperienza dell’individualità, e sorge il pensiero astratto di una statuina, di una statua perfetta, e di un essere umano che è in funzione della statua, anziché essere la statua in funzione dell’essere umano. Esiste un Io ideale? Non esiste un Io ideale. Sorge, perciò, il problema dei santi, perché i santi non vanno imitati. Nella storia ci sono fenomeni che vanno superati, perché dietro al mito dei santi, che poi è un mito cattolico, che cosa c’è? C’è uno stadio evolutivo che non ha ancora sufficiente consapevolezza dell’individualità irripetibile dell’essere umano, ed ho già espresso più volte il pensiero che se oggi avessimo delle persone che trovano Francesco d’Assisi tanto meraviglioso da volerlo imitare, si porrebbero proprio in antitesi alla caratteristica fondamentale di Francesco d’Assisi, perché quale era la caratteristica fondamentale di Francesco d’Assisi? Che non ha imitato nessuno, che era originale. Era originale, e lo si desume dalla storia, i suoi frati erano disperati perché aveva l’estro dell’amore e non era prevedibile: con qualcuno era tutto buono e con qualcun altro no, non seguiva regole. La caratteristica fondamentale di Francesco d’Assisi era l’originalità: si può imitarlo soltanto non imitandolo. Ecco il paradosso.

Intervento: Cristo può essere considerato un Io ideale?

Archiati: No, perché Cristo è l’insieme di tutti gli Io umani, non è un Io singolo accanto ad altri Io. L’Io scende sulla terra in chiave incarnatoria per compiere sulla terra qualcosa che soltanto lui può compiervi, non scende sulla terra per imitare, scende sulla terra in chiave di irripetibilità, di originalità. In fondo, quando noi ci paragoniamo agli altri siamo nella non-libertà, perché una caratteristica fondamentale dell’Io è di non essere paragonabile, se io prendo come metro di misura per questo Io un altro Io che cosa combino? Voglio dire ciò che è in base a ciò che non è. L’Io umano non è paragonabile, non posso mai prendere un Io umano come metro di paragone per un altro Io umano, e, nella misura in cui noi viviamo in questa paragonabilità, siamo ancora non-liberi, non abbiamo il coraggio, non abbiamo la forza interiore di porre nel mondo qualcosa che soltanto noi siamo chiamati a porvi, e che non possiamo pretendere da nessun altro, anzi non si riesce più a sopportare che ci sia qualcun altro uguale a noi, perché è una cosa terribile, vuol dire che non si è ancora divenuti se stessi, o l’altro non è divenuto se stesso, o tutti e due. E non si concede a nessun altro il diritto di giudicarci in chiave di paragone, perché tutti gli altri esseri umani sono in grado di dire chi sono loro, ma nessun altro è in grado di dire chi sono io, questo possiamo dirlo soltanto noi. C’è qualche argomentazione contraria a tutto questo?

Intervento: C’è anche l’universale umano, ci sono delle qualità che ci accomunano, quella di pensare per esempio…

Archiati: Diciamo che le cosiddette “qualità comuni” sono le “condizioni”, le condizioni sono comuni. Il linguaggio, per esempio, è una condizione comune, ma non è una qualità, è una condizione tramite la quale ogni essere umano realizza qualcosa di assolutamente individuale. Le condizioni sono strumenti comuni, ma ciò che ognuno ne fa è del tutto individuale. Certo, finora nell’umanità c’è stata molto maggiore consapevolezza degli strumenti comuni, perché sono automatici, ci sono di per sé, e molta meno consapevolezza di ciò che non è automatico. Che cosa non è automatico? La realizzazione dell’Io unico. Perché non è automatico? Perché è il mistero della libertà, può esserci o può venir omessa. Proprio perché la comunanza, l’universale, c’è di per sé, l’umanità tende a metterlo in primo piano al punto che dimentica ciò che può anche non esserci; siccome l’elemento universale (ereditarietà, il linguaggio, il respirare ecc.) non è libero, si tende a sopravvalutarlo, nel senso che c’è sempre la possibilità di disattendere o di ignorare ciò che, invece, può anche venir omesso, che è la realizzazione della libertà individuale, cioè la realizzazione dell’individualità. In altre parole, se l’essere umano omette la realizzazione dell’individualità, cosa resta di lui? Resta ciò che è comune, pensa con i pensieri del linguaggio, anziché generare dei pensieri per forza volitiva individuale, abbandonandosi ad automatismi di linguaggio. Spesso Steiner ha detto che sono pochissimi gli esseri umani che hanno pensieri, la maggior parte degli esseri umani ha delle rappresentazioni che sorgono automaticamente, grazie all’automatismo del linguaggio: si sente una parola, segue un certo pensiero.

Quindi, nell’essere umano ci sono due dimensioni fondamentali: 1) ciò che è universale e 2) ciò che è individuale. Le cose, poi, si complicano perché c’è un fenomeno mediano tra l’individuale e l’universale, e cioè il gruppo, che è comune a diversi, ma non a tutti. Per esempio, il linguaggio era un fenomeno universale, ai primordi dell’evoluzione, quando esisteva un unico linguaggio nell’umanità; ma al nostro stadio evolutivo, il linguaggio non è più un fenomeno universale, bensì di gruppo, comune, cioè, a tante persone, ma non a tutti. Adesso, per facilitare le cose, prendiamo uno schema (fìg. 12)

Prendiamo A e B come fenomeni di comunanza e C come fenomeno di individualità; A come comunanza assoluta e B come comunanza limitata, a livello di gruppo. La mia affermazione fondamentale è che ciò che è universale, non è conquista di libertà individuale, ma è un dato di natura, quindi è automatico, rappresenta le condizioni che vengono date per sviluppare ciò che è individuale, quindi è la base, ma la differenza abissale fra la base di natura e ciò che io sviluppo individualmente, sta nel fatto che la base di natura non è libera, è automatica e, quindi, non può mancare, mentre ciò che è individuale può venire omesso se io non lavoro decisamente e coscientemente a costruirlo. L’altra riflessione è che l’umanità ha marcato, ha sottolineato, molto di più questa sfera a sinistra che non questa a destra, per due ragioni: una ragione è che questa sfera a sinistra c’è mentre questa a destra bisogna crearla, e l’altra è la paura della libertà, nel senso che finché c’è soltanto questa dimensione qui a sinistra le cose vanno bene, vanno secondo il gruppo, è il fenomeno del gregge, quando, invece, una delle cento pecorelle si stacca dalle altre novantanove, le cose non sono più così semplici, così facili.

Intervento: Ci può essere un gruppo in cui le persone sono individui?

Archiati: Io non sto dicendo che quando sorge questa dimensione qui a destra, quella a sinistra sparisce, no, perché questa a sinistra è la condizione, il fondamento; in altre parole, C non ci può essere senza A, mentre A può esistere senza C, questa è la grande differenza. Ed è chiaro che chi vuole avere l’umanità sotto controllo, vuole A senza C, perché quando salta fuori C, allora il controllare non è più così semplice. Questo processo rientra, naturalmente, nelle leggi evolutive dell’umanità, perché il senso globale dell’evoluzione è l’individuazione: all’inizio c’era una universalità così assoluta che non c’era nessuna distinzione ne in gruppi ne in popoli. La parola ADAM in ebraico significa “Adamo”, ma indica tutta l’umanità, una sostanza animica di gruppo, unitaria, dove non c’era nessuna distinzione, la distinzione cominciò più tardi, la prima grande distinzione fu la separazione dei sessi, si ebbero i primi due grandi gruppi, i maschi e le femmine.

La libertà è sempre liberazione, quindi se ci viene a mancare il gruppo da cui ci si libera, si termina di potersi liberare, non c’è più libertà. La libertà non è qualcosa di astratto, è sempre un liberarsi da meccanismi automatici. Perciò l’espressione dell’individualità è possibile unicamente nel contesto del gruppo, perché senza il gruppo non siamo individualità, siamo nulla, soltanto nel paragone siamo individualità. Se si perde il paragone con gli altri esseri umani in quanto altri, non si può esperire la propria alterità rispetto agli altri e, quindi, la propria unicità. Come si fa ad essere unici se non c’è nessun altro? A può avere due funzioni: quando A subissa C e lo rende impossibile, allora A ha un certo tipo di carattere, quando invece A diventa lo strumento di C per l’individuazione, la natura di A cambia profondamente, cioè il sostrato di natura viene trasformato, è la resurrezione della carne. Quando il sostrato di natura diventa corporeità di libertà individuale, ha un carattere di resurrezione che gli conferisce una qualità del tutto diversa, è una trasformazione reale del sostrato di natura. Perciò io ho parlato dell’evoluzione reale della rosa, perché la rosa, rappresentante del sostrato di natura, non resta tale e quale col sorgere di questa seconda dimensione, il sorgere di questa seconda dimensione consiste nella trasformazione del sostrato di natura, che prima impediva il sorgere di questa nuova dimensione ed ora, invece, ne è lo strumento.

Intervento: Noi abbiamo parlato del gruppo come di qualcosa che si oppone all’individualità libera, però può esserci un gruppo, come la Società Antroposofica, che viene scelto liberamente dall’individuo.

Archiati: Il problema sta nel fatto che noi usiamo la stessa parola per indicare due cose opposte: usiamo la parola “gruppo” dove il gruppo impedisce il sorgere dell’individualità libera, e usiamo la parola “gruppo” dove ogni persona di questo gruppo non soltanto l’ha scelto liberamente, ma concede anche, dona libertà sempre maggiore a ciascuno, e dovremmo usare un’altra parola, altrimenti il linguaggio diventa talmente astratto che non ci capiamo più. Questo è il problema.

Intervento: Potremmo usare la parola “comunità”?

Archiati: “Comunità” non è una parola meno problematica di “gruppo”. Io direi che la parola non esiste ancora, ecco perché è importante disabituarsi dall’usare concetti e definizioni, al posto di descrizioni reali dei fenomeni: nella nona conferenza di Antropologia, per due o tre pagine, Steiner descrive la differenza tra “caratterizzare” qualcosa e metterci sopra una parola, un concetto. Se qualcuno mi da il concetto di gruppo non mi serve a niente, perché il concetto di gruppo può significare mille cose diverse, tra l’altro anche opposte; se invece, descriviamo la dinamica di ciò che avviene, allora scopriamo che in un cosiddetto “gruppo”, dove ci si nega a vicenda la libertà individuale, i fenomeni che avvengono, la dinamica di interazione è di tutt’altra natura rispetto al tipo di rapporto che si instaura nel cosiddetto “gruppo” -di nuovo, se non troviamo un’altra parola-, dove avviene il contrario. Ecco la differenza tra il definire e il caratterizzare, il descrivere. Alla fine della nona conferenza, Steiner parla di “concetti viventi”: “concetti viventi” nel senso che anche se noi usiamo la parola “gruppo”, questa parola non viene mai dogmatizzata, ma viene usata vivacemente, dinamicamente in contesti sempre diversi, in modo che il bambino cresce col senso di poter descrivere i fenomeni. Quando immettiamo nel bambino dei concetti morti? Ogni volta che gli diamo delle definizioni, come, per esempio, “gruppo significa…”, gruppo non significa niente, gruppo significa mille cose. O “un leone è…”, e glielo si fa imparare a memoria sperando che questo bambino quando sarà un uomo di trent’anni, sarà in grado di ripetere esattamente la stessa definizione che gli abbiamo dato noi: così il mondo non va avanti.

Gli aspetti di ogni fenomeno sono molto diversi, per cui per una persona il gruppo sarà una cosa, per un’altra magari tutto l’opposto, e poi si entra anche nel dialogo, per cui nessuno può dire: “Gente, le cose qui stanno così!”. Ecco perché Steiner dice che, in chiave di pedagogia, bisogna sempre partire da ciò che è un’unità organica e solo dopo andare a vedere gli aspetti particolari.

Intervento: Nell’adolescenza c’è un grande bisogno di essere riconosciuti dal gruppo.

Archiati: Se noi riprendiamo lo schema, possiamo distinguere, grosso modo, in chiave evolutiva tre stadi, A, B e C, che possiamo paragonare all’evoluzione dell’arco di una vita, allora dobbiamo dire: A è lo stadio dell’infanzia, B è lo stadio dell’adolescenza e C è lo stadio della maturità. In altre parole, un essere umano è maturo nella misura in cui è individuale e libero; finché non è individuale e non è libero, non è cresciuto per niente, cioè trova la sua identità non nell’individualità ma nel gruppo. Però gli schemi non sono fatti per sostituire il nostro pensiero, sono solo indicazioni di pensieri infiniti da fare.

Il bambino piccolo è soltanto un fenomeno di gruppo? No, è un fenomeno universalmente umano, ci sono tutti gli elementi universalmente umani, tanto è vero che il primo fenomeno di gruppo fondamentale che è il linguaggio, non c’è ancora. Però, si potrebbe dire che è già un fenomeno di gruppo nel senso in cui ci sono le razze, quindi come biologia, come realtà corporea, non è universalmente umano, ma ha già un carattere di gruppo. Tuttavia il fenomeno vero di gruppo salta fuori dopo, il bambino appena nato non è capace di gruppo, mentre il ragazzo di quattordici anni vive pienamente nell’elemento del gruppo, e a trent’anni si spera che cominci ad apprezzare l’elemento individuale, dove non ha più bisogno che gli altri gli diano ragione, che facciano come lui ecc.

Intervento: Quindi un ragazzo che non riesce ad inserirsi nel gruppo è già maturo?

Archiati: Oppure è ancora nello stadio infantile. Bisogna osservare i fenomeni, le definizioni non vanno bene: per un quattordicenne può trattarsi di un ritardo nell’evoluzione, per cui non è ancora capace di gruppo, per un altro può trattarsi di una precoce evoluzione, per cui è già molto più capace di individualità che non gli altri coetanei. E’ molto importante per l’insegnante osservare i fenomeni, perché, pedagogicamente, con il primo ragazzo bisognerà agire in tutt’altro modo che con il secondo, però il secondo non è incapace di inserirsi nel gruppo, perché noi abbiamo detto che dove c’è C c’è anche A, quindi se non è capace di inserirsi nel gruppo vuol dire che C non c’è ancora. In altre parole, una persona che è veramente capace di individualità, sa apprezzare pienamente ciò che è elemento di gruppo, perché ciò che è elemento di gruppo va vissuto come elemento di gruppo. Se io adesso volessi mettermi in testa che, siccome voglio essere un’individualità, voglio fare un linguaggio mio, va bene? No, il linguaggio è un fenomeno comune, quindi se non sono capace di vivere il fenomeno di gruppo dimostro che questa dimensione universale ancora non c’è in me.

Prendendo il fenomeno da un altro lato, possiamo dire che il dato di natura è la realtà corporea, il gruppo è la realtà animica e l’individualità è la realtà spirituale, ma nell’individualità libera ci sono tutti e tre gli elementi.

Affrontiamo adesso il problema degli errori pedagogici, perché Steiner ci mette in guardia rispetto al credere che si possa riparare tutto. Se il maestro, ad esempio, ha fatto sentire al bambino che certi colori insieme sono più armonici di altri, lo sono per natura, oggettivamente, che il giallo accanto al blu è “più bello” che non il giallo accanto al verde, il bambino impara per tutta la vita che il giallo accanto al blu è più bello, impara, non a livello di testa ma a livello di sentimento, che un certo modo di comporre i colori è più bello, e un altro meno bello. Inoltre il bambino, che non ha ancora capacità di sintesi, vive meglio la bellezza dei colori fondamentali, semplici, giallo, blu e rosso, che non i colori composti, verde, arancio e viola. Il problema sorge quando un bambino ci dice che è bello quello che non lo è, allora ci troviamo di fronte ad un enorme errore pedagogico: e a quel punto lì non crediate che tutto si possa riparare. Può capitare che come maestri ci si trovi di fronte ad una tragedia, rispetto alla quale si può riparare soltanto in modo limitato, perché un bambino, di un disegno oggettivamente brutto, mi sta dicendo che è bello: questa è una tragedia, tanto più profonda in quanto riguarda il livello del sentimento e non del pensiero, perché il senso del bello gli è stato distrutto.

Intervento: Nella natura, invece, si trova benissimo il giallo accanto al verde, e addirittura accanto al rosso, basta pensare ad un prato di margherite!

Archiati: Questo ci dimostra quanto siamo diventati astratti, perché un prato di margherite non è il verde accanto al giallo, ma è il giallo dentro al verde. Sono due fenomeni del tutto diversi. E, comunque, Steiner non dice che il giallo accanto al verde è brutto, dice che il giallo accanto al blu è “più bello”, ma è chiaro che tutti i colori sono belli, così come nella musica non ci sono solo le consonanze, ma anche le dissonanze, e senza le dissonanze non si potrebbero apprezzare le consonanze. Però un conto è, musicalmente, avere la capacità di vivere artisticamente la dissonanza, e un altro è vivere la dissonanza come consonanza, perché se si vive una settima allo stesso modo in cui si vive una terzina, si finisce di vivere la musica.

In questa ora e un quarto vorrei fare ancora alcune considerazioni di carattere generale sui sensi, in modo che potrete rendervi conto di come il capitolo sui sensi sia uno dei più complessi della scienza dello spirito, che richiederebbe uno studio approfondito, altrimenti si entra nell’astratto.

Rifacciamo la gamma dei dodici sensi (fig. 13).

Partiamo da qui, da questa cesura fra il tatto e il senso dell’Io. Il senso dell’Io mi da la percezione dell’Io altrui, il senso del tatto, invece, la percezione della mia corporeità nella sua globalità. La percezione dell’Io è la percezione della spiritualità di un altro Essere umano, il tatto è la percezione della mia corporeità: qui c’è un Rubicone, proprio una cesura, e vedremo poi il significato di questa cesura. Dopo la percezione dell’Io altrui, abbiamo il senso del pensiero, quindi c’è il senso del linguaggio e poi il senso del suono, che noi chiamiamo usualmente udito. Nel senso del linguaggio abbiamo la percezione del suono linguistico articolato, nel senso del suono abbiamo, invece, la percezione di un suono musicale.

Intervento: E il rumore dov’è, nel linguaggio?

Archiati: Per il rumore non c’è un senso specifico. Se volete entriamo subito nel merito di questa problematica: dunque abbiamo il suono e il rumore. Qual è per esempio, la differenza fra la percezione del suono musicale e la percezione del suono linguistico? E in che modo si passa poi al senso successivo? Perché tra tutti i sensi c’è una continuità, un trapasso dall’uno all’altro, tranne che tra l’Io e il tatto. Adesso li caratterizziamo un po’ meglio, quello del pensiero, quello del linguaggio, quello del suono e quello del rumore, e vedrete come i fenomeni diventano molto difficili, e se non ci si accompagna con le forze pensanti, si comincia a navigare nell’astratto… Quelli di voi che erano a Collalbo forse si ricorderanno le cose che ho detto in quell’occasione. Dunque, il fenomeno specifico quando noi percepiamo un rumore, è che il rumore viene sentito, viene percepito senza conpercezione di suoni accompagnanti, che vengono chiamati “suoni armonici”. Quindi, io ho la percezione del rumore quando il contenuto di ciò che percepisco non viene accompagnato da nulla di concomitante. Quando, invece, sento, percepisco un suono musicale, il fenomeno specifico è che, oltre al suono che io percepisco direttamente, in concomitanza percepisco gli armonici che appartengono a questo suono. Insieme al suono musicale vengono percepiti inconsciamente anche i suoni armonici complementari, altrimenti non si saprebbe che si tratta di un suono musicale. In altre parole, non si può percepire un suono musicale senza sapere, non a livello consapevole ma a livello di percezione, che è un do, ad esempio. Se sentiamo un do, sentiamo anche i suoni accompagnanti. Questa è la differenza chiara tra la percezione di un suono musicale e la percezione del rumore.

Intervento: Ma esiste una percezione inconsapevole?

Archiati: Certo, a livello del sentimento. La percezione inconsapevole è, ad esempio, quella dell’animale. Perché noi siamo in grado di percepire una melodia e non soltanto dei suoni staccati? Perché a livello inconscio li mettiamo insieme, li percepiamo contemporaneamente, anche se, a livello di percezione conscia, li sentiamo gli uni dopo gli altri. Questo è il fenomeno musicale: un fenomeno di uno dopo l’altro a livello di percezione conscia, un fenomeno di contemporaneità a livello di percezione inconscia. Altrimenti non è un’esperienza musicale. Il senso del benessere e del malessere collegato alla percezione del suono e del rumore, dipende dal fatto che quando si percepisce un suono si percepisce un’armonia di rapporti, invece quando si percepisce un rumore, si percepisce un elemento senza contesto; in altre parole, quando si sente un suono si sa che cos’è, quando si sente un rumore, nessuno sa che cos’è. Il rumore disturba, il suono no, perché? Perché il suono porta con sé la sua spiegazione, il rumore no, la si deve cercare.

Intervento: Nella percezione del suono la parte inconscia riguarda solo la percezione delle note limitrofe o di tutte le note?

Archiati: Dipende dalla complessità della sensibilità artistica dei sensi. Una persona poco musicale, percepisce inconsciamente le note armoniche più elementari che ci siano (do, mi, sol), in un musicista, invece, la percezione inconscia diventa molto più complessa, un musicista è capace di percepire, a livello inconscio, anche le dissonanze. Cosa significa che una persona è capace di percepire soltanto i suoni fondamentali? Significa che vive in una razza la cui musica è rumore, o in una società, in un ambiente culturale in cui non c’è distinzione tra suono e rumore. Dove finisce il suono e dove comincia il rumore?

Intervento: Siccome l’organo di senso per la percezione sia dell’uno che dell’altro è comunque l’orecchio, non si potrebbe dire che in queste persone più che non esserci la percezione del suono, non c’è la capacità di distinguere fra le proprie percezioni, a livello di concetto, di conoscenza, o è proprio un problema di percezione?

Archiati: Il fenomeno è un po’ complesso, fra l’altro bisogna osservare che Steiner, in tedesco, non parla del senso dell’udito, ma del senso del suono, Tonsinn. Come mai non parla del senso del rumore? Perché una persona che percepisce il rumore ma non sa percepire i suoni, ha il senso dell’udito meno evoluto.

Intervento: E questo influenza il senso del linguaggio e il senso del pensiero?

Archiati: Le conseguenze le vedremo adesso, cioè vedremo che dove questa distinzione non è così chiara sorgono nel linguaggio fenomeni di rumore, abbiamo consonanti che sono rumori, non suoni articolati.

Intervento: Il linguaggio che si usa con i bambini piccoli può essere visto come un fenomeno di educazione alla percezione degli armonici?

Archiati: Nella cantilena la percezione del suono è pura. Adesso andiamo al senso del linguaggio. In che modo noi distinguiamo, a livello di percezione, tra un suono musicale e un suono linguistico? Steiner dice che si passa dalla percezione del suono musicale a quella del suono linguistico, quando si termina di conpercepire i suoni armonici accompagnanti a livello inconscio e c’è soltanto il fenomeno percettivo conscio. E’ come se la percezione musicale fosse più ampia, perché il suono che si percepisce è accompagnato dalla percezione inconscia dei suoni concomitanti, mentre nella percezione della parola i suoni concomitanti spariscono nel loro carattere di accompagnamento sognante e diventa tutto e solo conscio, cioè si percepiscono unicamente i suoni linguistici. La formulazione usata da Steiner è che nel suono linguistico si disattende il suono fondamentale e si percepiscono consciamente soltanto i suoni armonici. Se io adesso dico la parola PA-RO-LA, se riuscite a concentrarvi sul fatto percettivo, se restate al puro fatto di quello che vi sembra di percepire, quando si sente PA non si ha ancora la PA-RO-LA, quando si sente RO si è perso il PA, e quando si sente il LA, si è perso il PA e il RO, quindi dove si percepisce la parola PA-RO-LA ? Se si atomizza il processo non si percepisce mai la parola PA-RO-LA, quindi se è vero, ed è vero, che si percepisce la parola “parola”, vuol dire che non si è mai nell’atomizzazione, vuol dire che si è già in partenza in tutta la parola “parola”. Se fossimo ancora al livello dell’atomizzare, se leggessimo atomo per atomo, saremmo ancora in prima elementare, dove si leggeva lettera per lettera, poi consonante per consonante ecc. Se fossimo ancora a quel livello, sapremmo leggere? No. Come si legge quando si conosce la lingua? Non soltanto parola per parola, ma con un colpo d’occhio gruppi di parole insieme. Non è vero che si passa atomisticamente da una lettera all’altra, si fanno delle sintesi. Se avete fatto l’esperienza di imparare una lingua straniera, conoscete quello stadio ben specifico in cui non si è ancora in grado di leggere contemporaneamente due o tre parole, e si è costretti a concentrarsi su ogni parola: a quel punto lì si sa che ci si deve perfezionare, perché non si può leggere in quel modo, si comincia a leggere quando l’occhio abbraccia almeno tre o quattro parole. Fra l’altro, fa parte dell’essere maestri il non essere costretti a fissare il testo continuamente, quando si legge: questo è un esercizio di percezione.

Il senso del suono e il senso del linguaggio non sono lo stesso senso. Ora: cosa avviene quando si percepisce il pensiero? Nel rumore si percepisce il rumore senza suoni armonici accompagnanti; si percepisce un suono musicale quando, accompagnanti il suono si percepiscono, incoscientemente, i suoni armonici concomitanti; c’è la percezione del suono linguistico articolato quando viene disatteso ciò che prima, nel suono musicale, si sentiva direttamente, e si percepiscono soltanto i suoni armonici. In altre parole la percezione del linguaggio è una percezione sintetica per eccellenza. Quando percepiamo il pensiero di un’altra persona, disattendiamo anche gli armonici, tutto ciò che è sonoro. Quando si percepisce il significato, non si è più nel linguaggio, perché il significato è lo stesso, sia che si parli in tedesco, sia che si parli in italiano; perciò si percepisce quello che l’altro vuole dire, non il linguaggio attraverso il quale lo sta dicendo. Quindi, quando percepiamo il significato, noi respingiamo, disattendiamo anche i suoni armonici, e facciamo attenzione solo al senso.

Intervento: Nell’ascolto di una poesia quanti sensi sono coinvolti? Tre?

Archiati: Dodici! Si percepisce una poesia necessariamente in dodici chiavi del tutto diverse, perché quando si sente una poesia, a seconda di come risuonano i suoni articolati, tutto l’essere vibra, quindi entra in gioco il senso del movimento, il senso vitale è chiamato ad agire in modo fortissimo ecc., solo che non ne siamo consapevoli. Inoltre, quando si sente una poesia, si ha una percezione dell’Io dell’altro, si ha una percezione del pensiero, una percezione del linguaggio ecc. fino alla percezione del tatto, dell’equilibrio ecc.

Intervento: Significa che se non si ha equilibrio non si può sentire una poesia?

Archiati: La si sentirà in modo del tutto diverso.

Intervento: Ma io credo che ognuno di noi sente comunque in modo diverso.

Archiati: Diversamente a seconda di che cosa? Di come funzionano i dodici sensi. Si sente forse una poesia nello stesso modo se si è riposati e se si è stanchi? Il fatto è che noi non siamo abituati a considerare questi fenomeni nella loro realtà.

Intervento: Perché l’organo di percezione del linguaggio non è l’organo di senso del linguaggio, cioè l’organo che produce il linguaggio, ma un altro organo, cioè l’orecchio?

Archiati: La complicazione proviene dal fatto che bisogna distinguere ulteriormente fra organo di senso e senso. Perché un conto è l’organo di percezione del suono, e un altro è la percezione del suono. L’organo di percezione del linguaggio, poi, è l’intera corporeità, però in una sua ben precisa funzione, che è quella di paralizzare il movimento interno, per esempio i movimenti che riguardano la digestione; ma qui le cose si complicano e si rischia di diventare astratti. A me interessava fare delle considerazioni generali, non entrare nella complessità dei fenomeni, perché in questi dodici sensi noi abbiamo un precipitato di tutto il cosmo, un concentrato di tutte le qualità dei dodici impulsi cosmici, quindi non c’è fine agli aspetti che noi potremmo scoprire; così come nei sette processi vitali c’è il precipitato di tutto il sistema planetario. Abbiamo a che fare con il microcosmo “essere umano” che è veramente il riassunto di tutto il macrocosmo: i sensi in chiave di dodici, quindi in chiave di stelle fisse, i processi vitali, invece, in chiave del settenario del sistema planetario. Se noi aggiungiamo poi i dodici arti del corpo umano, che non sono i dodici sensi, abbiamo un altro mistero del dodici.

Intervento: Gli arti corrispondenti allo zodiaco?

Archiati: Sì, i piedi corrispondono ai pesci, le gambe all’acquario, le ginocchia al capricorno, il femore e le cosce al sagittario, l’apparato genitale allo scorpione, i lombi alla bilancia, l’addome alla vergine, il cuore al leone, il torace al cancro, le braccia e le mani ai gemelli, il collo al toro, il capo all’ariete. Nei vangeli trovate questo mistero dove c’è la cosiddetta moltiplicazione dei pani, che non è nessuna moltiplicazione dei pani, le dodici ceste sono gli impulsi celesti, che scendono giù e costituiscono l’essere umano: questa è l’esperienza che fanno gli apostoli, i dodici apostoli.

Intervento: E Giuda chi è?

Archiati: E’ il segno dell’aquila che si cambia in scorpione. Nell’ottava conferenza di Antropologia, Steiner dice che l’Io sintetizza gli organi di senso e le percezioni nei modi più svariati, e ci da un esempio di una sintesi importantissima di due percezioni: la percezione della forma e la percezione del colore. Adesso vi faccio vedere un colore, però attenti a non mentire. Vi faccio vedere un colore, e poi mi direte che colore era. Che colore era?

Risposta corale: Verde.

Archiati: E la forma?

Risposta corale: Rettangolare.

Archiati: Sì, era semplice perché avete visto tutti che era un libro. Ma se avessimo preso una forma un pò inconsueta, sarebbe venuto fuori che un numero molto maggiore di maschi avrebbe saputo quale era la forma. Perché? Adesso capirete subito di che cosa si tratta. Dunque abbiamo il calore, la vista, il gusto, poi l’olfatto: questi quattro qui sono i sensi del sentimento. Il tatto, la vita, il movimento e l’equilibrio formano i sensi della volontà. Infine l’Io, il pensiero, il linguaggio e il suono sono i sensi conoscitivi. I sensi della volontà sono tali in quanto sono fondati sulla realtà corporea, che è lo strumento per espletare gli impulsi volitivi, si potrebbe anche dire che sono i sensi corporei. Il senso dell’Io, il senso del pensiero, il senso del linguaggio e il senso del suono sono i quattro sensi spirituali, dello spirituale, e gli altri quattro, il senso del calore, il senso del colore, il senso del gusto e il senso dell’olfatto, sono sensi che hanno il compito specifico di farci sentire qualcosa, quindi è un’esperienza di interiorità animica, è qualcosa che si sente dentro di sé, dentro nella propria anima, non dentro nella corporeità.

Ora, quando percepiamo un colore, percepiamo con la vista la forma del colore? No, e questo è molto importante. Noi percepiamo con la vista il colore, ma non la sua forma, per percepire la forma dobbiamo attivare il senso del movimento, cioè si sente, senza esserne coscienti, un movimento di tutto il proprio essere, che percorre i contorni di questa superficie colorata e, proprio perché si fa questo movimento, si diventa noi stessi questo movimento, si ha la percezione della forma. Ora, trattandosi di una percezione maggiormente volitiva, è una percezione di carattere attivo, invece la percezione del colore è maggiormente passiva: quest’ultima è animica, mentre l’altra è più corporea; per questo la percezione del colore ha un carattere maggiormente femminile, mentre la percezione della forma ha un carattere maggiormente maschile.

Se fate questo esperimento con dei bambini di dodici-tredici anni, dopo il secondo Rubicone, potete star sicuri che un numero molto più grande di maschietti ricorderà la forma, e un numero molto più piccolo delle bambine ricorderà la forma, però quasi tutte le bambine ricorderanno il colore, mentre tra i maschietti ci sarà qualcuno che non saprà dirvi di che colore si trattava. Sono naturalmente generalizzazioni da prendere cum grano salis, parliamo genericamente del maschile e del femminile, senza parlare di uomini e di donne. Il femminile è molto più ancorato al livello animico, il maschile, invece, al livello volitivo.

Intervento: Io ho notato che i bambini, tornando a distanza di anni in un luogo, magari un lago, dicono che se lo ricordavano molto più grande, e di solito si spiega loro che questo avviene perché allora erano piccoli. Invece, trovo interessante il fatto che, essendo molto attivi nei bambini piccoli questi sensi corporei, e in particolare il senso del movimento, è come se il bambino accompagnasse la forma che ha davanti con un’attività assai più articolata, che richiede un tempo molto più lungo di quanto non occorra al “colpo d’occhio” dell’adulto. Il lago è effettivamente più grande per il bambino. Inoltre, un’osservazione che faccio spesso: i biscotti rotti hanno un altro sapore, è una realtà. I biscotti interi sono più buoni. Sono cose che nei bambini vanno prese molto seriamente.

Archiati: Certo, molto seriamente. Però, tu ci hai dato soltanto una possibilità, una possibilità di maggiore rapporto, di più diretto e profondo rapporto del bambino con il mistero del movimento. Io proporrei che noi lasciamo aperte entrambe le possibilità: l’altra possibilità, e secondo me si tratta del mistero della diversità enorme tra individuo ed individuo, l’altra possibilità è il fenomeno polarmente opposto, e cioè che il bambino viene talmente abbacinato dall’elemento del colore, che questo elemento del colore si amplia all’infinito e le forme non ci sono più, perciò lui si ricorda che l’altra volta era più grande, perché il colore era ampliato all’infinito.

Vorrei fare riferimento ad una dimensione fondamentale della nona conferenza di Antropologia, dove Steiner parla della triade del sillogismo, del giudizio e del concetto. Dunque abbiamo:

Sillogismo

Giudizio

Concetto

Nella traduzione italiana al posto di “sillogismo” c’è “conclusione”, ma la conclusione è l’ultima di tre proposizioni, che insieme fanno il sillogismo, io credo che sia utile cercare di chiarire un po’ le cose, perché se Steiner dedica quasi tutta una conferenza a questo mistero qui, vuol dire che ha la sua importanza. L’affermazione fondamentale di Steiner è che noi partiamo dal sillogismo e poi, per via di atomizzazione, da questa unità complessa che è il sillogismo tiriamo fuori il giudizio, e dal giudizio, per via di ulteriore atomizzazione, tiriamo fuori il concetto. In altre parole, Steiner dice che l’essere umano procede, anche qui, con metodo sintetico, cioè la prima esperienza è quella unitaria, e l’esperienza del dividere, del sottodividere, viene dopo, così come l’uno non è il numero più piccolo, ma è il numero più grande che ci sia, e tutti gli altri numeri sono una parte dell’uno. Sapete che in tutti i campi, non soltanto nell’aritmetica, Steiner ci fa vedere che l’essere umano fa l’esperienza di sé come essere umano in quanto sintesi di tutto il cosmo quando, in tutti i campi dell’esperienza, si rende conto di partire dalla sintesi, e che ogni aspetto particolare è derivato. Quindi, non è mai vero che si parte da un aspetto e poi si arriva alla sintesi: la prima esperienza è sempre la sintesi, poi, per processo di individuazione, per processo di analisi, si arriva all’atomo, e poi dall’atomo, se si vuole, si ricostruisce una sintesi, ma la sintesi che si costruisce “dopo” aver atomizzato è di tutt’altra natura rispetto a quella iniziale.

Il famoso sillogismo classico, che ha reso immortale il bravo “Caio”, perché “Caio” è stato reso immortale dalla logica di Aristotele, è formato da una proposizione maggiore (M), da una proposizione minore (m) e da una conseguenza (c):

M : Ogni uomo è mortale

m : Caio è un uomo

c : Caio è mortale

Questa conclusione cos’è? E’ un giudizio. La conclusione non è tutto il sillogismo, è solo l’ultima parte del sillogismo, è l’ultima proposizione, la terza, perciò la conclusione è la terza proposizione del sillogismo. Quando noi siamo nella conclusione, abbiamo già lasciato il campo di esperienza primigenio, originario, in cui il bambino sempre è, abbiamo lasciato il campo del sillogismo, e siamo già arrivati al secondo gradino, quello del giudizio. Vedremo poi che Steiner dice che la sfera del sillogismo, che è quella della vita reale, non va mai lasciata precipitare nei sottostrati dell’animico e del corporeo, dove acquisisce una forma costante, e quindi perde la capacità di metamorfosarsi in chiave vivente: soltanto ai concetti possiamo permettere di scendere in questa sfera, perché, di fatti, la fisionomia di un bambino, la fisionomia di un adulto è stata, in buona parte, anche costruita da tutta la somma dei concetti che il maestro o la maestra gli ha fatto, diciamo, elaborare, e che sono scesi, non soltanto nell’animico, ma anche nel corporeo. Quindi, più un bambino è ricco di concetti e meglio è, perché scendono fin nel corporeo, e restano lì. Invece, i giudizi formano le abitudini, non la fisionomia costante, ma il livello della gesticolazione, perciò arrivano solo fino all’animico. Infine, i sillogismi devono restare unicamente in questo movimento attuale, vivente, sempre in cangiante metamorfosi, non devono mai acquisire una dimensione di durata. La prima dimensione di durata bisogna conferirla al giudizio, ma non più di tanto, e una dimensione di durata assoluta è concessa soltanto al concetto. Questa è una piccola anticipazione, senza pretendere che abbiate capito tutto, perché ci ritorneremo.

Intervento: Una proposizione è un giudizio?

Archiati: Certo.

Intervento: Quindi un sillogismo è composto da tre giudizi?

Archiati: Sì, esatto. Ed è la prima cosa che noi viviamo, cioè quando abbiamo a che fare gli uni con gli altri siamo sempre nell’ambito semantico del sillogismo, mentre una interpretazione del tutto astratta dei processi mentali, vorrebbe dirci che noi procediamo a ritroso, vorrebbe dirci che noi partiamo dai concetti atomizzati, li mettiamo insieme tramite una proposizione, un giudizio, una frase e poi mettiamo insieme delle frasi per formare un sillogismo. Non è vero, così come non è vero che l’essere umano si costruisce a guisa dell’homunculus, cioè a partire dagli elementi dispersi, disgregati, che meccanicamente vengono messi insieme come in una macchina. L’essere umano parte dalla sintesi.

Intervento: Dov’è il concetto in quelle tre frasi?

Archiati: Il Caio mortale: questo è un concetto, non è un giudizio, perché il giudizio c’è quando si dice “è”, per esempio “ogni uomo è mortale”. O quando si dice “fa”. In generale quando si introduce un verbo – “Caio corre” – questo è un giudizio. Quando si toglie il verbo, resta il concetto, diventa più astratto.

Intervento: Quindi, il giudizio è legato al linguaggio, il concetto, invece, va oltre il linguaggio?

Archiati: Il concetto va in direzione del pensiero, sulla base della successione dei sensi, che abbiamo visto ieri sera. Il giudizio è a livello del linguaggio, un giudizio lo posso esprimere soltanto con una frase del linguaggio, mentre il concetto va oltre il linguaggio, va verso il senso del pensiero.

Intervento: Conclusione e concetto sono la stessa cosa?

Archiati: No; prendiamo l’esempio classico che Steiner ci da in Arte dell’educazione II: Didattica, all’inizio della nona conferenza, neanche a farlo apposta, perché le lezioni sono state tenute lo stesso giorno, dunque nella Didattica Steiner prende l’esempio del “piovere”, della pioggia. “Piove” è un sillogismo? Steiner dice che si tratta di un sillogismo. Perché? Perché è un’enorme sintesi, è un’esperienza sintetica di massima estensione, significa che con questa parola, “piove”, come con tutti i verbi senza soggetto, i famosi verbi impersonali, si dice un carattere fondamentale del mondo circostante, e il modo in cui questo mondo circostante ha un effetto sugli esseri umani; perché “piove” significa che se esco e non voglio bagnarmi, devo portarmi l’ombrello, questo è compreso o non è compreso? E’ compreso, altrimenti non direi che piove.

L’acqua scende dal cielo.

L’acqua che scende dal cielo bagna.

Se io esco fuori, l’acqua che scende dal cielo mi bagna.

Questo che io, adesso, ho formulato in un modo un po’ zoppicante, è un’esplicazione del sillogismo implicito nell’affermazione “piove”. Quindi, quando noi diciamo “piove”, siamo in un contesto semantico di massima vastità, di massima sintesi: il passo successivo è quello di restringere il campo, in che modo? Analizzando. In che modo restringiamo il campo analizzando? Andando in cerca di un soggetto, perché qui, in “piove”, tutti i soggetti sono compresi: piove per la tartaruga, piove per la pianta, piove per gli uccelli, piove per gli esseri umani. Piove per tutti: ecco perché è massimamente sintetico. Andando in cerca di un soggetto, quale esempio porta Steiner? Osserva che noi diciamo “piove” ma non diciamo “verdeggia”, perché? Perché è più ristretto dire “il prato verdeggia”, in quanto il verdeggiare riguarda, appunto, solo il prato, e non verdeggia sui tetti, invece il piovere riguarda tutto, quando piove, piove dappertutto. Vedete la differenza? Quando piove, piove dappertutto, non qui e in Siberia, ma dappertutto nel mondo in cui io sono: ecco che ci si rende conto dell’esperienza sintetica, vasta, di questo piovere. Se si sente, invece, “verdeggia”, subito ci si chiede che cosa e dove. Il prato verdeggia: cosa che noi, in italiano, possiamo dire più difficilmente che non in tedesco, ma una generazione italiana passata usava queste parole molto di più.

Un segno di impoverimento della lingua è che noi usiamo sempre di meno questo tipo di espressioni; il toscano di oggi, per esempio, è molto più copioso nell’usare questo tipo di espressioni, parla della “nuvole che veleggiano nel cielo”, una bellissima immagine. Quindi “il prato è verde”, per meglio dire, “il prato verdeggia”: è un sillogismo o un giudizio? E’ un giudizio. Che cosa è successo? Che passaggio abbiamo fatto qui? Abbiamo messo il soggetto e abbiamo fatto un’affermazione su questo soggetto, prima invece non abbiamo fatto affermazioni su nessun soggetto. Adesso, facciamo un altro piccolo passo in direzione del concetto e diciamo, invece che “il prato verdeggia” (osservate la vitalità, la vivacità, di questo verdeggiare), diciamo: “il prato è verde”. Cosa è successo? E’ diventato più statico. Ora, “il prato è verde” è la forma classica del giudizio: si giudica il modo di essere del prato e si dice che il prato è verde. E’ giusto questo giudizio? Sì e no. Ecco il mistero del giudizio: che ogni giudizio è vero sotto un certo punto di vista, ed è sempre non vero da un altro punto di vista. Ecco perché il giudizio è qui, a metà fra il carattere preciso del concetto e il carattere aperto del sillogismo: il sillogismo in quanto tale è sempre aperto a tutte le caratterizzazioni, quando io dico “piove”, questo “piove” lo posso caratterizzare in mille modi, posso descrivere il modo in cui la pioggia è in interazione col tetto, posso descrivere il falco che vola mentre piove ecc. C’è un limite alle metamorfosi che io posso usare per descrivere questo fenomeno del piovere? No, non c’è nessun limite. In mezzo tra questa inesauribilità di caratterizzazioni del fenomeno del sillogismo e la totale precisione ed univocità del concetto, c’è il giudizio, che oscilla fra variabilità ed univocità. Ora, prendiamo questo giudizio, “il prato è verde”: non possiamo dire che è un giudizio sbagliato, perché il prato quando è prato, in quanto è prato, è verde, e quando il prato è bianco, d’inverno, è ancora un prato? No, la neve è bianca, ma il prato rimane verde: vedete che il giudizio è sbagliato? Se si dice “il prato è bianco”, d’inverno, sappiamo tutti che cosa vuol dire, però il giudizio è sbagliato, perché non è il prato ad essere bianco, è la neve ad essere bianca. Le altre cose le potete pensare voi, però bisogna rendersi conto che il giudizio è proprio a metà strada tra il concetto e l’inesauribilità delle caratterizzazioni del sillogismo, e però il sillogismo non va mai fatto imparare a memoria al bambino, non bisogna mai fare imparare a memoria al bambino delle cose che sono in chiave di sillogismo, cioè in chiave di sintesi universale.

Con le frasi bisogna fare attenzione, cioè il maestro deve sapere se le frasi sono giuste o no, se lo sono allora va bene che il bambino le impari a memoria, perché se è giusto oggi che il prato è verde, lo sarà sempre; ma il maestro deve sapere che quando si dice “il prato è bianco”, questo giudizio è meno giusto, quindi non dovrebbe essere imparato a memoria, il bambino non dovrebbe mai mettersi in testa che il prato è bianco, mentre va bene che si metta in testa che il prato è verde. E quando il prato è bruno, quando il prato è marrone? Non è prato, è terra, la terra è marrone, non il prato, il bambino lo sa, il maestro a volte fa questi sbagli, e dice che siccome è autunno il prato è marrone, ma il bambino, anche se non a livello cosciente, sente che non è vero, che il prato non c’è, se non è verde il prato non c’è, c’è la terra, ma non il prato.

Perciò, quando noi esprimiamo frasi, in chiave di giudizio, dobbiamo stare attenti a che i giudizi siano giusti, e, nella misura in cui sono giusti, è bene che precipitino a livello della memoria, che si imprimano a livello del corpo in modo da diventare abitudini del bambino, in modo, cioè, che il bambino si abitui a dire “il prato è verde”. Se, invece, diamo giudizi errati, nel senso che i fatti non sono giusti perché sono imprecisi, come “il prato è bianco” o “il prato è marrone”, dobbiamo guardarci bene dal farli imparare a memoria al bambino. Il prato si può chiamare “bianco” o “marrone” soltanto in via di eccezione, perché il prato, quando è prato, è verde, e se non è verde, è terra o è neve. Si può dire “sul prato c’è la neve”, è un giudizio, ma è un giudizio temporale, adesso, quindi non indichiamo una caratteristica permanente del prato, ma una qualità del tutto esterna ad esso. Invece con il dire “il prato è verde” si indica l’essenza del prato, e quando il giudizio esprime l’essenza è giusto, allora noi avvertiamo che è bene che il bambino lo impari e se ne ricordi, che lo imprima nei livelli più profondi del suo essere, da dove sarà sempre in grado di riportarlo su, perché è sempre vero. “Il prato è verde” è sempre vero. “Il prato è marrone” non è vero.

Terzo passo: abbiamo il concetto. Il concetto dice “il prato verde” o “il verde prato”: il verbo non c’è, non c’è la proposizione, non c’è la frase. “Il prato verde” è un concetto, cosa significa che è un concetto? E’ una cosa che esiste! E’ una cosa che esiste nella realtà, e che io ho afferrato nel mio pensare in chiave di concetto. A questo livello qui, più concetti un bambino si forma, e meglio è, perché più ricco diventa. Steiner dice che una delle grandi tragedie del nostro tempo è la povertà di concetti dell’uomo d’oggi, cioè che l’uomo d’oggi, anche grazie ai maestri, si fa troppi pochi concetti. Il concetto, se è un vero concetto, corrisponde a qualcosa che c’è, quindi ha un diritto assoluto ad imprimersi fino in fondo, fino al livello corporeo, perché esiste nella realtà, quindi la somma dei concetti di un essere umano, di un bambino, è la somma di tutto ciò che lui ha esperito e che esiste nella realtà. I concetti formano, nella corporeità, diciamo la dimensione della fisionomia, che è costante; mentre la somma dei giudizi contribuisce ad un carattere fondamentale della gesticolazione, del modo di gesticolare, quindi di quei movimenti che non sono diventati forma fissa, ma sono forme motili, ancora capaci di metamorfosi, molto di più che non la fisionomia, diventata ormai statica. Fare imparare a memoria un sillogismo, quindi voler dare un carattere definitivo, un carattere di assolutezza al sillogismo, significa stravolgere totalmente ciò che è in chiave di assoluta metamorfosi, ciò che è in chiave di assoluta inesauribilità, che potrebbe venir caratterizzato sempre da nuovi lati; questa caratterizzazione assolutizzata è come un processo di ossificazione, grazie alla quale contribuiamo a rendere il bambino prematuramente sclerotico, perché gli portiamo via la capacità di metamorfosi, la capacità di caratterizzare le cose da lati sempre nuovi, e facciamo, in chiave di sillogismo, ciò che è lecito fare soltanto in chiave di concetto: cominciamo a definire.

Soltanto i concetti si possono definire, in chiave di sillogismo dobbiamo sempre descrivere i fenomeni. Qualcuno di voi vuole definire “piove”? Qualcuno vuol provare a definire il fenomeno “piove”? Vedete che assurdità? Invece, il concetto è definito, altrimenti non è un concetto. “Il prato verde” è definito.

Intervento: Non basta dire soltanto prato?

Archiati: Prato è concetto, però se io, adesso, ti chiedo che cosa fa parte della definizione di prato, qual’è l’essenza del prato, e tu mi lasci fuori il verde, tutti qui ti diranno che non hai parlato del prato. Cos’è il prato?

Intervento: Il prato è un campo dove cresce dell’erba.

Archiati: Erba blu?

Intervento: No, l’erba è verde.

Archiati: Vedi che il verde ci vuole?

Intervento: Volevo dire che, in fondo, quando parliamo del prato non c’è bisogno di specificare che il prato è verde, perché tutti lo sanno che il prato è verde.

Archiati: Diciamo che “il prato verde” esprime il concetto in un modo più completo. Quando si dice “prato”, si esprime il concetto solo in modo incipiente, perché se si dice solo “prato” si astrae da ciò che è essenziale al prato. Adesso prova ad immaginare che un bambino senta dire “prato”, senza che la rappresentazione del verde ci sia: c’è il prato? No, il prato non c’è. In altre parole, Steiner ci sta dicendo che quando noi siamo in interazione col bambino, siamo sempre in un campo semantico infinito, vivente, mai ristretto, e se noi facciamo precipitare questo livello così motile della caratterizzazione nella univocità di un giudizio, restringiamo il campo enormemente. Dovremmo avvertire il salto mortale che si fa dal sillogismo al giudizio, e poi l’altro salto mortale, dove si sospende il giudizio e si prende il concetto. Il concetto deve essere tutto definito, altrimenti non è un concetto, il prato è prato, non è metà prato e metà bosco. I concetti sono univoci: un concetto equivoco non è un concetto, come il sillogismo ha un carattere di universalità, così il concetto ha un carattere di univocità. Il giudizio oscilla fra l’equivoco e l’univoco, perciò il giudizio è una sfera dove bisogna fare molta attenzione, perché si possono commettere molti sbagli. Tutta la scienza, oggi, dice che l’essere umano parte dal concetto, formula un giudizio e, infine, arriva al sillogismo, mentre si parte dall’inesauribilità dell’esperienza dentro la quale siamo, nella quale anche il bambino è, si parte da essa e poi si restringe il campo sempre di più. Steiner ci mette in guardia dal restringere il campo al livello del sillogismo, perché dove noi siamo in interazione vivente con il bambino, il campo è sempre aperto in tutte le direzioni, e dove lo si restringe, bisogna stare attenti: se dico “il prato è bianco”, se sono un buon maestro, dovrei avvertire che è un giudizio sbagliato, perché il prato non è bianco, se è bianco non è un prato, è neve, non prato.

Intervento: Si può cadere in questo errore quando, per esempio, si risponde alle domande del bambino?

Archiati: Cosa può domandare il bambino?

Intervento: Per esempio da dove è nato, quando il bambino chiede: “Da dove vengo?”, ed è in pieno sillogismo in quel momento, per cui o restringiamo il campo o gli diamo un giudizio.

Archiati: Restringendo la sfera del sillogismo, cadiamo nel concetto e, normalmente, la risposta che diamo è sbagliata. Avete voglia di fare un piccolo esercizio? Qualcuno provi, da maestro o da maestra, a dare una risposta a questa domanda: “Da dove sono venuto?”

Intervento: Dal mondo spirituale.

Intervento: Da mamma!

Archiati: Ecco, siamo caduti subito nella sfera del giudizio Steiner ci dice, in questa nona conferenza che, finora, abbiamo avuto risposte chiarissimamente a questo livello del concetto, ma se si dà un risposta in chiave di giudizio, si perde il livello del bambino. Non esiste un’affermazione in chiave di giudizio che possa dire come siamo nati, perché come siamo nati è un cosmo, è un universo, e lo si può unicamente raccontare, lo si può soltanto descrivere da aspetti sempre nuovi, sempre diversi. Per esempio posso dire: C’era una volta…

Intervento: Sarebbe interessante vedere che cosa causano nell’anima del bambino queste risposte in chiave di giudizio, che incidenza hanno, per esempio sulle famose crisi adolescenziali.

Archiati: Credo di avervi raccontato una volta un fatto che è veramente successo: io ho una sorella, che adesso, fra l’altro, è maestra, che mi ha raccontato che, una volta, quando aveva sette anni, aveva ricevuto dei doni per natale ed aveva chiesto a nostro zio chi glieli aveva portati, da dove venivano, e lo zio, che si credeva emancipato, le aveva risposto: “Tu credi ancora in santa Lucia, quanto sei sciocchina! Vengono dai tuoi genitori, te li hanno portati loro questi doni.”, e lei è andata immediatamente nella sua stanza e li ha rotti tutti, non ne voleva più sapere niente, perché? Perché sapeva che dietro quei doni c’era un cosmo, c’era un cosmo di esseri spirituali, c’era una cosa che non finiva più. Adesso io vi pongo la domanda: secondo voi, da dove vengono quei doni? Se mi dite che vengono dai genitori, vi dico che vi sbagliate, perché se non ci fossero tutti gli angeli del cielo, gli arcangeli ecc., se non ci fosse il padre eterno, il Cristo ecc., che, per esempio, fa crescere le piante, dove prenderebbero i genitori le mele, le pere e le arance da dare ai bambini? Vedete quanti giudizi falsi, realmente falsi abbiamo in testa? E ci crediamo più sapienti del bambino! Il bambino la pensa giusta, perché le arance vengono dal cielo, è il padre del bambino che fa crescere le arance? Capite che enormità noi diciamo, quanti giudizi falsi noi facciamo? Questo è molto importante in chiave di pedagogia. Quindi, quando si dice o si pensa di dire al bambino che i doni vengono da Gesù bambino, però si è convinti che vengono dai genitori, si distruggono forze reali nel bambino, perché sono giudizi falsi, si stanno pensando e dicendo menzogne, non-verità. Ecco il salto mortale tra il restare in un campo semantico che è aperto in tutte le direzioni, e il precipitare in un giudizio che lo chiude e lo fa andare su un binario unico, in senso equivoco, perché la maggior parte dei giudizi che noi facciamo è equivoca, sono giudizi un po’ giusti e un po’ sbagliati, perciò vi ho sottolineato la differenza enorme fra il giudizio che dice “il prato è verde”, con la percezione interiore che questo giudizio è giusto, e l’altro giudizio che dice “il prato è bianco”, che è un giudizio sbagliato. Voi direte: come si fa ad essere così svegli da percepire sempre e fino a che punto un giudizio è giusto o sbagliato, o più o meno giusto? Si tratta anche di esercizio. Abbiamo detto che maestri si nasce, perché è questione di karma, di reincarnazione ecc., però anche che l’arte va imparata.

Intervento: Il pregiudizio è un sillogismo?

Archiati: Prendiamo il caso classico: -“Tutti i cretesi sono bugiardi”, dice un cretese-, è un pregiudizio? E’ giusto o non è giusto? In altre parole, questo è l’esempio classico, e andiamo a cinquecento anni prima di Cristo, dove ci viene dato questo strumento di pensiero per capire, diciamo, il carattere immanente di equivocità di ogni giudizio. Ogni giudizio è esposto al carattere di equivocità: proprio per questo si deve generare un’attenzione maggiore ogni volta che si formula un giudizio, perché si sa, già in partenza, che l’altro può anche dire: “Sì, è vero, ma, da quest’altro punto di vista, è diverso…”. Quindi, ogni giudizio è vero ed è falso. Torniamo di nuovo all’esempio iniziale: “il prato è verde”, è giusto questo giudizio? Sì e no, perché quando il prato non è più verde, non si può dire in assoluto che non è più prato, in potenza resta verde, perché la prossima primavera ridiventerà verde. Quindi, quando si è nel giudizio, si è nel lato della criticabilità assoluta, e bisogna stare attenti con il bambino.

Intervento: Anche per la non oggettività?

Archiati: L’equivocità non è non-obiettività, è una parzialità. Nel giudizio c’è il mistero della parzialità, perché si dice una parte e si lascia fuori tutto il resto. Se rispondo al bambino che domanda da dove è venuto con un giudizio, come reagisce l’anima del bambino? Si chiude dicendo: “Di cento cose che mi dovrebbe dire, me ne dice una sola, e le altre?”. Così reagisce l’anima, perché l’anima sa che ogni giudizio è parziale, se non addirittura sbagliato, perché la parzialità, quando afferra un aspetto importante è meno sbagliata, ma quando la parzialità è talmente parziale che afferra un aspetto totalmente marginale e l’essenziale lo lascia fuori, allora diventa sbagliata: ecco i problemi, le aporie del giudizio. Quindi, in fondo, in pedagogia bisognerebbe essere molto parsimoniosi col giudizio. Come si fa ad essere parsimoniosi col giudizio? Appena si fa un’affermazione, bisogna subito aggiungerne un’altra che la varia, e poi un’altra ancora ecc.

Intervento: Se i ragazzi sono già più grandi?

Archiati: Se sono più grandi, non tutto si può riparare, però nella misura in cui il maestro è sovrano in questo modo di muoversi, può riparare molto. Vogliamo fare un esempio?

Intervento: Se mi trovo davanti un ragazzo che mi dice: “Bisogna tagliare le mani a tutti i ladri, i ladri vanno puniti con il taglio delle mani”.

Archiati: Questo non è soltanto un giudizio, la situazione è molto più difficile. Devo cercare di uscire dalla sfera del giudizio e tornare nel campo delle caratterizzazioni e delle descrizioni, senza dare un giudizio.

Intervento: A me viene in mente il Cristo che, quando la gente poneva domande di questo tipo, non dava giudizi, ma rispondeva con delle parabole.

Archiati: Prova ad immaginare di parlare con questo ragazzo, cosa gli diresti?

Intervento: Io gli racconterei cosa fanno le mani, come anche a quel ladro sono servite per cucinare il cibo per i suoi amici ladroni, e poi gli sono servite per sollevare il compagno che era caduto a terra ecc.

Archiati: E come arrivano queste stesse mani, che sono capaci di aiutare gli altri, che sono capaci di stare sull’autobus, a rubare?

Intervento: Gli si può dire che queste mani si sono ribellate al loro compito?

Archiati: Sei ricaduta di nuovo nella sfera del giudizio, bisogna restare nel campo delle descrizioni. Siccome si parte dal presupposto che tagliare le mani è una cosa sbagliata, bisogna cercare di descrivere in chiave positiva tutte le cose che le mani fanno, e l’animo del ragazzo avvertirà che queste mani fanno tante belle cose, anche positive, e non vorrà più che vengano tagliate. Poi faremo tutta una serie di riflessioni per capire come queste mani arrivano a rubare: arrivano a rubare quando quel poverello lì non ha più da mangiare, non ha un lavoro ecc. Cercheremo di descrivere perché le mani non vanno tagliate, bisognerà far vedere che ci sono tante persone che sono costrette a rubare, che se una persona ruba vuol dire che la società, in cui tutti siamo, lo ha costretto a farlo ecc. ecc. Ecco l’area semantica infinita, e alla fine di tutta la descrizione, di tutta la fiaba, salta fuori che se noi avessimo un altro tipo di umanità, se noi stessi fossimo diversi, queste mani qui non ruberebbero più. Perché, detto fra adulti, se noi costringiamo gli altri a rubare, i veri ladri siamo noi. Questo tipo di giudizio, il maestro lo deve avere in sé per trovare la creatività delle cose che dice e che descrive, e se i giudizi che lui ha sono giusti, saranno così creativi, avranno una tale creatività da risultare molto convincenti.

Intervento: Se gli si propone, come gioco, di non usare per un’ora le mani?

Archiati: Il vizio intrinseco di ciò che tu proponi è la sua negatività, cioè tu proponi una via puramente in chiave negativa, nel senso di “non fare” qualcosa, invece, in campo pedagogico, è costruttivo soltanto ciò che fa vedere sempre la positività delle cose. Se tu impedisci ad un ragazzo di fare qualcosa, lui sperimenta soltanto la rabbia, e la rabbia non fa capire niente.

Intervento: Però è difficile passare dalla sfera del giudizio a quella del sillogismo, perché noi stessi siamo talmente imbevuti di giudizi.

Archiati: Quando Steiner ci dice che per tutte le cose che dobbiamo fare, non soltanto per essere dei maestri, la meditazione quotidiana è uno strumento importantissimo, lui non sta facendo come la chiesa che dice che si “dovrebbe” meditare, no, però, oggettivamente mostra che, per tutte le cose, un quarto d’ora di meditazione al giorno dà una inesauribilità interiore che altrimenti non si può avere. Quindi, la scienza dello spirito ci dice che se si lavora sistematicamente, ogni giorno, su se stessi, ci si trasforma interiormente in modo tale che questa sfera del sillogismo si apre, mentre se non si lavora su se stessi, non si trova! Ecco l’importanza della meditazione: e non si tratta di un comandamento, ma è una verità oggettiva, si sa che per cominciare a muoversi con una certa libertà sovrana in quel campo del sillogismo, bisogna coltivare la propria interiorità, giorno per giorno, un altro modo non c’è. Se il ragazzo si è fatto il giudizio che bisogna tagliare le mani ai ladri, lo avrà sentito dagli adulti e, quindi, si sarà sempre più confermato nella sua idea, perciò la soluzione non è quella di rimanere nella sfera del giudizio, ma quella di uscirne fuori, di spostare il campo semantico. Bisogna capire in partenza che, qui, una risposta di tipo giudiziale non serve a nulla, che si deve aprire un campo semantico del tutto nuovo, molto più vasto.

Veniamo al significato etimologico della parola “sillogismo”. Sillogismo deriva da συν-λογος (sun-logos), sono elementi del λογος (logos) in sintesi: dove io dischiudo il significato di una cosa facendone vedere, in chiave di sintesi, tanti aspetti diversi, in questo cammino di sun-logicità, c’è una fine? No, non c’è una fine. Il polo opposto è quello di un λογος che non ha nessun “sun”, che è da solo, che è ben definito: il concetto. Steiner dice, nella nona conferenza di Antropologia, che così come dobbiamo stare attenti al giudizio, come non dobbiamo mai fare scendere nella memoria che sclerotizza questa area semantica, che deve sempre essere tenuta in un movimento di vivente metamorfosi, così, all’opposto, è importante che noi diamo al bambino un numero, il più grande possibile, di concetti, perché questa è la ricchezza esperienziale delle cose ben precise, che lui vuole. Vi porto un esempio: nel Laos, io insegnavo francese, inglese e matematica a dei bambini dalla prima elementare fino alla maturità, e, una volta, ci siamo trovati di fronte al problema di creare il concetto di “ascensore”, perché avevano dei libri francesi nei quali si parlava di ascensore, però loro, che vivevano in case di bambù, non avevano mai visto non solo un ascensore, ma nemmeno una scala. Allora ho chiesto: “Ma voi sapete cos’è una scala? L’escalier?”. “Oui, oui, oui”, però nessuno mi sapeva dire cos’è una scala: li ho portati alla cittadina più vicina, dove c’erano due o tre costruzioni di cemento, e ci siamo fermati davanti ad una casa che aveva una scala che andava su e poi, per andare al primo piano, girava. Io ho detto alla scolaresca: “Adesso vedete come è fatta una scala”. Una risata sonora, per farmi capire che avevano ragione loro, che non è possibile andare su con una scala, perché anche quella che vedevamo arrivava soltanto a metà. Siamo saliti tutti insieme fino al punto dove la scala girava… un silenzio, immaginate l’umiliazione di questi bambini! Non l’avevano mai vista, dove lo prendevano il concetto di scala? Chi di noi è capace di farsi concetti senza il sostegno della rappresentazione? Invece è importante che l’essere umano, incarnato sulla terra, abbia molte percezioni che gli diano la possibilità di formarsi dei concetti delle cose, insieme alle quali abita sulla terra. Quindi, più un maestro comunica concetti ai suoi bambini, e più questi bambini sono ricchi come esseri umani. Ma i concetti non sono giudizi: io non faccio un giudizio sull’ascensore, non faccio un giudizio sulla scala, ma aiuto il bambino a farsi un concetto dell’ascensore. Come si fa ad avere il concetto dell’ascensore senza l’aiuto della rappresentazione? Bisogna esperirne almeno quattro o cinque, perché allora si coglie ciò che è comune, e si lascia fuori ciò che, invece, è marginale, in altre parole, il concetto va sempre all’essenza della cosa, altrimenti non è concetto. Il concetto del prato qual è? Che il verde ci vuole, altrimenti non è un prato. Se si porta via il verde, si porta via il prato. Invece, altri aspetti, che non sono essenziali al prato, non fanno parte del concetto di prato. Ecco perché è importante avere un ricco bagaglio di concetti, e la ricchezza dei concetti è anche il mistero della vastità dell’esperienza: un maestro che ha un’esperienza molto vasta del mondo e dell’umanità, porta incontro al bambino una ricchezza ben diversa che non un maestro di esperienze ristrette, anche se l’esperienza, in quanto vastità di percezione, non sostituisce il concetto. Ci vogliono entrambe le cose: la vastità della percezione, ma anche la capacità di pensarci sopra. La capacità di pensarci sopra, da sola, non basta, perché a forza di pensare non si può tirare fuori il concetto dell’ascensore, se non lo si è mai visto, e la vastità delle percezioni da sola non basta, perché si devono aggiungere i pensieri. Queste due realtà insieme, la vastità della percezione e la profondità del pensiero, fanno la somma dell’esperienza di un maestro, che gli consente di comunicare al bambino una ricchezza sempre maggiore di concetti, ed è bene che il bambino se li imprima nella memoria e li faccia scendere non soltanto nell’animico, ma anche nel corporeo, perché il concetto di prato è sempre lo stesso. Se il concetto è giusto, il bambino lo può portare per tutta la vita così come è, perché sarà sempre giusto.

Il concetto di prato era diverso cinquecento anni fa? No, il prato è sempre stato prato. Quindi, come nel sillogismo c’è il mondo della variabilità assoluta, dell’infinità, dell’inesauribilità, così nel concetto c’è il mondo della univocità assoluta, e qui dobbiamo essere generosi con il bambino, per esempio tutte le letture, le fiabe, i brani vari, tutto quello che facciamo in chimica, in fisica ecc., a cosa serve? Tra tutte le altre cose, serve a dare al bambino una ricchezza sempre maggiore di concetti, e più il bambino è ricco di concetti e più si porrà di fronte ad ogni nuova esperienza con una ricchezza interiore che gli consentirà di prendere posizione in modo, da un lato, inesauribile e, dall’altro, preciso, perché tutte e due le dimensioni vanno bene, sia la ricchezza inesauribile, sia la precisione. Il carattere di precisione noi lo prendiamo dal lato del concetto, e il carattere di inesauribilità dal lato del sillogismo.

Intervento: Quindi, per dare ai bambini molti concetti, bisogna dare loro molte percezioni. Quando il bambino chiede :”Cos’è questo?”, bisogna farglielo vedere?

Archiati: Il bambino cerca una rappresentazione, e la rappresentazione non si può trasmettere senza la percezione. Il concetto si può trasmettere, però dove Steiner parla di concetti per il bambino, intende concetti sempre nel senso di concetti uniti a rappresentazioni. Il bambino non è ancora capace di concetti senza rappresentazioni: ci vuole la percezione, e perciò fa parte assoluta della scuola Waldorf che il bambino vada a vedere le cose.

Riprendiamo i sensi. Ieri sera abbiamo fatto alcune considerazioni sul fatto che il modo in cui noi “sentiamo” il nostro Io, non il modo in cui “percepiamo” l’Io di un altro, ma il modo in cui noi sentiamo e viviamo il nostro Io, sono, in realtà, dodici modi diversi; in altre parole, il nostro Io si vive a partire da dodici ambiti di percezione diversi. Abbiamo detto che, di fronte ad una superficie colorata, l’Io fa una sintesi, che poi è una sintesi di giudizio, o, se volete, una sintesi di sillogismo; l’Io fa la sintesi di ciò che percepisce il senso del movimento, e di ciò che percepisce il senso della vista o del colore, così facendo si percepisce una superficie colorata che ha una forma: se non si avesse il senso del movimento, non si percepirebbe la forma, si percepirebbe soltanto il colore, e non si saprebbe dire che forma ha questa superficie colorata. Quindi se noi avessimo, per assurdo, un essere umano che ha il senso della vista, ma non il senso del movimento, ci direbbe che percepisce il giallo ma che non è in grado di dire dove termina la superficie di questo giallo, perché per tirare i contorni che delimitano questa superficie gialla, bisogna che il senso del movimento, vitalmente, in un modo analogo al senso della vita, percorra in chiave dinamica questa superficie. Quindi il tatto, la vita, il movimento e l’equilibrio sono i sensi dinamici; il calore, la vista, il gusto e l’olfatto sono i sensi animici. Infine Io, pensiero, linguaggio e suono, sono i sensi dello spirito. (fig. 14)

L ’esperienza del giallo, di una superficie gialla, è un’esperienza animica, quindi è un’esperienza di sentimento; invece, la percezione, quindi l’esperienza della forma, non è una percezione animica, ma è una percezione corporea, che è una cosa molto diversa.

Intervento: Però per percepire la forma entra in gioco anche la vista. Se noi fossimo ciechi, non ci basterebbe il senso del movimento per percepire la forma.

Archiati: Un cieco sa cos’è un quadrato, come lo sa se non l’ha mai visto?

Intervento: Percezione del movimento vuol dire che quel movimento bisogna compierlo con il corpo?

Archiati: Interamente. In altre parole, supponiamo di avere un rettangolo, tramite la vista si percorre dinamicamente questa superficie, il che significa che l’occhio insieme con il movimento fa tutta questa strada, significa che se fosse un triangolo ci si stancherebbe di meno. Ecco la differenza: non è una cosa astratta, perché a livello vitale, reale, anche se non conscio, qui, nel rettangolo, si vive un dinamismo più costante, perché bisogna arrivare fino in fondo, invece qui, nel triangolo, si arriva prima. Spieghiamoci in un modo più semplice: se non lo si è percorso tutto, come si fa a sapere che è un rettangolo? Quindi, oltre all’occhio, interviene anche il movimento, che non è più di natura animica, ma di natura corporea. L’uomo d’oggi è diventato astratto perché mette in primo piano l’esperienza animica (il vedere è un’esperienza animica), e non si rende conto che qui, in questa superficie rettangolare, si deve durare di più per arrivare sino in fondo.

Intervento: Rispetto agli animali, il discorso dei sensi è diverso? Quanti sensi hanno gli animali?

Archiati: Nessuno, perché gli animali non hanno percezione. L’animale vive il colore, ma non lo percepisce, altrimenti ne parlerebbe anche; abbiamo detto all’inizio che è un enorme antropomorfismo, che dobbiamo correggere, quello di attribuire la percezione, così come è specificamente umana, all’animale, perché se l’animale fosse, come noi, capace di percezione, sarebbe capace del polo corrispondente alla percezione, che è il concetto.

Intervento: Quindi, quello che il materialismo dice dell’uomo, vale precisamente per l’animale.

Archiati: Sì, cioè il materialismo descrive dell’essere umano ciò che vale per l’animale, e non di più, e ciò che è specificamente umano lo lascia fuori. Questo, naturalmente, complica il discorso, perché ci tocca riferire all’animale tutto ciò che è stato detto sull’uomo, e poi dire sull’uomo tutto quello che mai è stato detto, che è specifico dell’essere umano, con il problema della terminologia, perché la percezione, che andrebbe riferita soltanto all’essere umano, è stata usata per l’animale, quindi ci troviamo ad usare la stessa parola per indicare due cose del tutto diverse. L’animale non percepisce, ma vive il colore, il colore opera nell’animale, perciò l’animale non ha la possibilità di porsi di fronte al colore in modo da poter prendere posizione in chiave di concetto, in chiave di pensiero.

In queste conferenze che stiamo trattando, Steiner dice che i quattro sensi del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio, sono i sensi specificamente corporei, attraverso i quali noi percepiamo la nostra propria realtà interiore corporea. I quattro sensi dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore, sono i quattro sensi specificamente animici, quindi sono i sensi del sentimento. I primi quattro sono i sensi della volontà, perché la volontà si esprime attraverso la realtà corporea, e gli altri quattro sono i sensi del sentimento, cioè quando si analizza il contenuto della percezione di questi sensi, l’olfatto, il gusto, il colore e il calore, si ha sempre un contenuto di sentimento; i primi quattro, invece, indicano sempre qualcosa che viene voluto attraverso la volontà, in chiave di operatività, in chiave di fare qualcosa. Il tatto, per esempio, è il modo operativo di impingere contro il mondo circostante. Anche quando noi diciamo di non sentire nessun contatto, in realtà noi esercitiamo sempre il senso del tatto perché urtiamo contro l’aria; se nel mondo in cui viviamo non ci fosse l’aria, cambierebbe subito notevolmente il nostro modo di sentire il tatto, perché non avremmo questa resistenza, che usualmente non avvertiamo più, perché vi siamo abituati, ma c’è, per cui quando si muove la mano, si sente di muoverla, dove lo si sente? In base a che cosa lo si sente? Perché c’è l’aria, quindi è un’esperienza vera e propria del senso del tatto, oltre che della vita, oltre che del movimento, oltre che dell’equilibrio. C’è il senso dell’equilibrio, perché se la mia mano si sposta da qui a qui, tutta la compagine di equilibrio del mio corpo cambia. Quindi non è soltanto l’elemento solido che noi percepiamo con il senso del tatto, ma anche l’aria, tanto è vero che quando, d’inverno, si sente che fa freddo, è soltanto il senso del calore a sentirlo? E’ il senso del calore insieme al senso del tatto. Sono sempre uniti più sensi, perché non esiste quasi mai una percezione di un senso solo; ora, se noi entrassimo nel merito delle combinazioni possibili, le cose diventerebbero più complesse, già abbiamo difficoltà ad individuarli nelle loro caratteristiche specifiche, immaginate poi a combinarli! Abbiamo fatto un esempio, quello che fa Steiner, del modo di operare concomitante del senso della vista, che ci dà la percezione del colore, e del senso del movimento, che ci dà la percezione della forma: devono lavorare insieme, colore e movimento, però questo non significa che lavorano soltanto quei due lì. In ultima analisi, c’è sempre almeno una minima compresenza di tutti e dodici i sensi, e questo ci dice che abbiamo sempre a che fare con l’essere umano nella sua sintesi totale.

Prendiamo adesso le tre affermazioni che Steiner fa, alla fine della nona conferenza: 1) il mondo è morale; 2) il mondo è bello e 3) il mondo è vero.

Steiner dice che il bambino da uno a sette anni vive nel mistero dell’imitazione, perché? Perché è ancorato, in un modo del tutto particolare, in questi quattro sensi corporei, in quanto sensi del dinamismo e della volontà, e con questi quattro sensi, che sono quelli che danno la base incarnatoria più profonda, il bambino si propone di imitare, nella strutturazione tattile, nella strutturazione vitale, nella strutturazione di movimento, nella strutturazione di equilibrio del suo essere, si propone di imitare tutto il mondo circostante. Il bambino, come individualità, scende dal mondo spirituale, abituato ad avere una fiducia illimitata negli esseri delle gerarchie spirituali che lo accompagnano, che lo hanno amorevolmente aiutato a costruire il karma, a costruire le basi incarnatorie del suo corpo, cioè tutte le forze di dinamismo degli eventi che gli verranno incontro: come prolungamento di questo gesto di fiducia, di comunione con gli esseri spirituali, sulla terra il bambino imita tutti gli esseri che lo circondano per costruire il corpo fisico, fondamento delle opere del karma. Perciò, la convinzione fondamentale inconscia del bambino, che è in chiave imitativa, di dedizione assoluta al papà, alla mamma, al maestro ecc., è la convinzione inconscia che il mondo è buono, il mondo è morale, e quindi vale la pena di dare una fiducia religiosa a questo mondo, e lasciare, permettere a questo mondo di strutturarlo, di decidere quale base corporea avrà per tutta la vita. Quando il bambino entra a scuola, dai sette ai quattordici anni, interviene un fattore di tutt’altro registro evolutivo: mentre fino ai sette anni il bambino vive più direttamente in questi quattro sensi del dinamismo corporeo, dai sette anni in poi, comincia a vivere particolarmente i sensi animici, quindi a vivere dentro alle esperienze olfattive, dentro alle esperienze gustative, dentro alle esperienze dei colori e dentro alle esperienze caloriche. A quel punto, il bambino trasforma karmicamente il gesto religioso-morale di imitazione, in un gesto artistico di autorità, dove il maestro diventa un’autorità indiscussa, e ponendo alla base esperienziale questi quattro sensi, che danno sentimenti animici, l’affermazione fondamentale, quindi la convinzione inconscia fondamentale del bambino dai sette ai quattordici anni è: il mondo è bello. Non più “il mondo è buono”, ma “il mondo è bello”, e perciò, in questo arco di tempo, bisogna presentare tutto al bambino sotto l’aspetto artistico, in chiave del bello; se, invece, ci rifacciamo al buono e al vero dobbiamo fare affermazioni in chiave di giudizio, e siamo fuori, perché dobbiamo fare affermazioni soltanto in chiave di bello. Come sono le affermazioni in chiave di bello? Sono le sfumature, la capacità di sfumare sempre di più i fenomeni: c’è questa sfumatura, quest’altra sfumatura del descrivere, poi un’altra sfumatura, e un’altra ancora. Ecco l’elemento artistico che va di sfumatura in sfumatura; la verità, invece, è ben precisa, nella verità c’è la realtà oggettiva, e la religione è assoluta, nella religione c’è la dedizione assoluta.

Quindi nel vero c’è l’oggettività, nel buono c’è l’assolutezza di donazione e nel mezzo c’è il bello: c’è l’elemento della leggerezza, ci sono le sfumature, c’è l’elemento della motilità, della metamorfosi, della trasformazione infinita, c’è l’elemento del gioco. (fig. 15)

L’elemento del gioco trova uno sbocco in chiave di verità chiara oppure di dedizione assoluta? No, il gioco resta sempre in un equilibrio labile, che si ricostruisce sempre di nuovo, sempre in nuovi modi. Può essere vero il gioco? No. Può essere buono il gioco? No, il gioco deve essere bello. Ecco il godimento estetico. Steiner ci dice, quindi, che tutto quello che noi facciamo dai sette ai quattordici anni, tutto, qualsiasi tipo di materia, sia la storia che la scienza naturale che la musica, tutto deve essere portato al bambino in chiave artistica.

Dopo aver fatto queste due grandi esperienze che il mondo è morale e che il mondo è bello, quando, dopo i quattordici-quindici anni, si risveglia, sempre di più, la capacità di un giudizio proprio, in questa epoca della vita, dal quattordicesimo al ventunesimo anno, si può osare di più con i giudizi, però curando che siano giusti. Quando, nel ragazzo, si risveglia la capacità di giudizio, propria della persona che cresce sempre di più, la qualità del mondo che diventa più importante è che il mondo è “vero”. La sete di verità, il voler venire a capo delle cose per sapere come è vero, se così o così, è inutile che noi la cerchiamo nel bambino dai sette ai quattordici anni; e quando il bambino viene con delle domande di questo tipo: “Ma è vero? E’ così e così?”, si tratta sempre di domande che ha preso da altri, non sono sue. Allora tocca a noi cambiare subito il registro, se gli diciamo: “Adesso lascia da parte quello che gli altri ti hanno detto, ritorniamo a te”, il bambino si sente di nuovo nel suo elemento, si sente di nuovo avvolto dall’autorità, e trova una risposta in chiave di bellezza.

Per il bambino dai sette ai quattordici anni è vero soltanto ciò che è bello, ed è buono soltanto ciò che è bello: il vero è vero in quanto è bello. Ed il buono è buono in quanto è bello. Quindi, se noi ci adoperiamo (e questi sbagli li facciamo continuamente) a far capire al bambino che qualcosa è vero, non preoccupandoci di quanto può esperire dal lato del bello, perdiamo il contatto con il bambino, è fatica sprecata cercare di far capire che qualcosa è vera ignorando il bello. E lo stesso vale per il buono. Se vogliamo far capire al bambino che qualcosa è buono, che qualcosa è morale, che è bene fare così, abbiamo perso di vista il bello ed abbiamo perso il bambino, perché per il bambino, dai sette ai quattordici anni, è vero soltanto ciò che è bello, ed è buono soltanto ciò che è bello, proprio per il fatto che è bello.

Dopo l’imitazione e l’autorità, nel terzo settennio cosa abbiamo? Steiner non ha consacrato una terza parola. Vogliamo trovarla in italiano? Secondo me è la stima, basata sulla competenza. La competenza indica la qualità dell’insegnante, ma la forza che fonda il rapporto fra l’insegnante e l’allievo è la stima. E il principio della stima dove inizia? Il primo inizio del principio della stima dove lo troviamo? Già a nove anni, l’abbiamo visto, quando questa assolutezza indiscussa dell’autorità del maestro trova una cesura, quando nel bambino, a livello inconscio ma reale, sorge la domanda: “Ma il maestro da dove le prende tutte queste cose? Devo proprio avere fiducia in lui? Sarà proprio così indiscutibile la sua autorità?”. Quindi c’è qui, a nove anni, il primo inizio di ciò che succederà poi nel terzo settennio. Un liceale con che occhi guarda i suoi professori? Vuole un rapporto di stima, e se il professore o la professoressa vuole imporsi con il principio dell’autorità, si sente trattato da dodicenne, e non ci sta, non vuole un rapporto d’autorità, che dai quattordici anni in poi diventa un rapporto autoritario: dai sette ai quattordici anni è autorevole, dai quattordici anni in poi è autoritario. Quindi, o c’è la competenza, c’è la stima, oppure, se il maestro vuol vivere di rendita e perpetuare il rapporto di autorevolezza che c’era prima, trova una resistenza, un respingere molto forte. Lo stesso maestro che dai sette ai quattordici anni era autorevole, se continua a comportarsi nello stesso modo, quando il ragazzo ha quindici o sedici anni, diventa autoritario. Il maestro non è cambiato, è cambiato il bambino, l’essere umano che cresce, ed è cambiato profondamente, perché questo, diciamo, spartiacque dei quattordici anni è un Rubicone ancora più forte che non quello dei nove anni.

Non dimentichiamo che qui avviene tutto il rivolgimento corporeo della maturità sessuale, per cui l’essere umano che ha passato questa soglia è del tutto diverso. A sette anni c’è la dentizione: ci si accorge di meno di questo rivolgimento? Lo vediamo in chiave più graduale. In un certo senso, questa soglia dei sette anni, anche sé meno visibile, è molto più immane che non questa dei quattordici anni, della maturità sessuale. I denti che sorgono a sette anni sono gli ultimi, mentre quelli ricevuti alla nascita sono i denti di eredità. I denti che vengono formati dall’insieme dell’organismo a sette anni rimangono per tutta la vita. Il fatto è che qui, a quattordici anni, ci sono fenomeni astrali, che si palesano maggiormente e che, perciò, notiamo di più. Invece, questo Rubicone dei sette anni, è di natura organica, quindi fisico-eterica: notiamo di più la prima metamorfosi, ma, di fatti, quest’ultima è, ad altri livelli, molto più fondamentale. Perciò, dovremmo fare più attenzione a questo Rubicone: per esempio al fatto di fare andare i bambini a scuola a sei anni, prima di aver passato questa soglia; e non succede che, qualche volta, vengono mandati a scuola ancora prima dei sei anni? Non si può trattare un bambino di sei anni come un bambino che ne ha sette e mezzo.

Intervento: Per dentizione si intende l’inizio del cambiamento dei denti?

Archiati: Fondamentale è la fine, la conclusione della dentizione, verso i sette anni, i sette anni e mezzo, varia da bambino a bambino.

Intervento: In alcuni bambini anche ad otto anni, però che si fa, non li si manda a scuola?

Archiati: Va considerato caso per caso, gli esseri umani sono individualità, quindi può darsi che il genitore, proprio nel travaglio di trovare la decisione, cresca lui stesso.

Intervento: Ci sono, comunque, anche altri parametri: come il bambino si muove, ad esempio, che cosa dice, che cosa fa.

Archiati: Sì, ma Steiner ci sottolinea il fatto che la dentizione è un fenomeno di enorme importanza, bisognerebbe anche studiare le conferenze nelle quali descrive, fisiologicamente, come avviene la dentizione, per rendersi conto di quale rivoluzione si verifica in tutto l’organismo. Quando ancora, per il resto della vita, l’organismo umano produce una sostanza così dura come i denti? Mai più, per tutta la vita non avviene mai più. Veniamo, quindi, richiamati a non sopravvalutare soltanto gli elementi animici che ci saltano agli occhi, ma a prendere sul serio i fenomeni corporei, i fenomeni organici. L’affermazione fondamentale di Steiner riguarda il fatto che noi tendiamo, oggi, nella nostra cultura, ad essere veloci, a bruciare le tappe, e facciamo tanti sbagli bruciando le tappe. Questo vale per l’inizio della scuola, vale per lo scrivere, vale per il leggere, nel senso che noi tendiamo oggi ad insegnare ai bambini a leggere prima che abbiano mosso le mani, tendiamo ad essere precoci in tutto, pensiamo che più presto il bambino impara e meglio è, e uccidiamo tutta questa sfera, che si deve sviluppare sotto il principio dell’imitazione, dell’imitazione organica. In altre parole, un papà collerico, con la sua realtà collerica, struttura, a livello di tatto, a livello di vita ecc., la corporeità del figlio; certo, non c’è soltanto il padre, però il padre contribuisce a strutturare il cervello nei minimi particolari, e poi queste strutturazioni sottilissime del cervello sono determinanti per il modo di pensare, per la capacità di pensare di un individuo.

Quindi, spero che sia chiaro che l’imitazione non consiste solo nel fatto che il bambino imita esteriormente, nel senso che se il bambino ha visto che la mamma va a prendere la lana da un cassetto, per imitazione anche lui va a prendere la lana da quel cassetto: questo è il lato esteriore dell’imitazione; l’altro lato, molto più importante, è che la corporeità si struttura secondo l’imitazione del modo in cui si configura la realtà animico-spirituale delle persone che circondano il bambino.

Intervento: Il fatto che oggi accade molto spesso che i bambini stiano con persone che non sono i genitori, implica che questa strutturazione avvenga per imitazione di altre persone che non sono i genitori del bambino?

Archiati: Certo. In altre parole, quando una persona si arrabbia nelle vicinanze di un bambino, le correnti astrali della collera avvolgono e permeano, compenetrano tutta la realtà corporea del bambino, e sono la causa strutturante della sua corporeità. Queste non sono metafore, sono realtà assolute, e rendersene conto è molto importante. Steiner dice che con il bambino piccolo non si può mentire, perché lui non ha nessuna possibilità, né animica né spirituale, di prendere posizione. Un papà che pensa un pensiero sbagliato rovina, anche se in minima parte, il corpo del bambino. Non ha bisogno di esprimere il pensiero, basta che lo pensi, pensando un pensiero sbagliato pone, nel mondo eterico, una corrente che distrugge la verità corrispondente: queste forze eteriche distruttive si comunicano al bambino, e tolgono alla corporeità del bambino le forze eteriche, che dovrebbero costruire il suo organismo vitale, il suo organismo di vita, di movimento e di equilibrio, e, perciò, verrà fuori una corporeità che sarà meno sana di quanto sarebbe stata se quel papà, in quel momento, avesse pensato il pensiero giusto. Quindi, il mondo circostante nella sua realtà, sia spirituale, sia animica, sia corporea, struttura, in chiave di imitazione, la corporeità globale del bambino: un’affermazione di questo tipo non si trova fuori della scienza dello spirito, non c’è.

Intervento: Possiamo fare degli esempi concreti. Se, per esempio, due genitori hanno dei contrasti, questo si riflette sulla corporeità del bambino?

Archiati: Supponiamo che questo sia un piccolo tratto, piccolissimo, di una circonvoluzione del cervello, perché le circonvoluzioni del cervello sono una cosa molto delicata, molto fine. La domanda è: come vengono formate? Perché, prima che il bambino nasca, la corporeità non c’è. Chi struttura, come struttura, come si orienta? Adesso, diciamo che questo bambino ha un anno e sei mesi o, meglio, sei mesi, e a due metri da questo bambino ci sono il papà e la mamma, e il papà sta dicendo una bugia dopo l’altra alla mamma, o la mamma al papà. Cosa avviene nel mondo eterico con queste menzogne? Avviene che queste pieghe qui, che avevano già la tendenza ad essere armoniche, prendono un’ altra forma, una piccola piega diversa.

Intervento: E se il papà e la mamma del bambino sono lontani?

Archiati: In Teosofia Steiner parla dell’aura, e dice che ogni essere umano è avvolto da un’aura, un’aura è infinita? No, è limitata. I confini dell’aura sono complessi, però non vanno da qui a New-York: se le cose vengono dette nelle vicinanze del bambino, con quali sensi questi le sente? Anche con l’orecchio, e se i genitori sono lontani, il bambino non le può sentire. Quindi, il fenomeno cambia. La scienza dello spirito non fa teorie, la scienza dello spirito ci mostra delle realtà, che vanno conosciute nella loro oggettività: i fenomeni vanno osservati e bisogna anche avere la modestia, dove non ci sono affermazioni di Steiner, di dire che non si hanno in mano gli elementi per dare delle risposte sicure. Spesso, perciò, io mi accontento, lo avrete notato, di insistere sugli orientamenti di fondo.

Intervento: Se si ha davanti un bambino che ha vissuto il periodo fino ai sette anni in una famiglia che sappiamo che non va, cosa si può fare?

Archiati: A livello corporeo c’è poco da riparare, perché il corpo ormai ha acquisito la sua strutturazione fondamentale.

Intervento: Probabilmente lui non ha imparato che il mondo è buono.

Archiati: In chiave de “il mondo è bello” ci sono delle cose che si possono recuperare, però non ci si può illudere di fare, dai sette ai quattordici anni, ciò che andava fatto prima, nel primo settennio. La cosa è molto seria, perché ci rendiamo conto che quando questa prima fase della vita si è conclusa, si è conclusa per sempre, adesso la costituzione è definita nei suoi tratti fondamentali, e dai sette anni in poi ci sono solo delle piccole variazioni.

Torniamo al fatto, importantissimo, della vicinanza e della lontananza: vorrei fare un paio di riflessioni su questo fenomeno per farvi vedere che cosa Steiner vuol dire quando ci ricorda, continuamente, come siamo diventati astratti, perché il mondo d’oggi è diventato talmente astratto che astrae dalla realtà e vive in un mondo di pensieri, in un mondo costruito dalla sua mente, che con la realtà non ha niente a che fare. Adesso pongo la domanda: un essere umano che io vedo davanti a me, ad un metro di distanza, è realmente più piccolo se lo vedo a duecento metri di distanza? E’ più piccolo realmente o è soltanto un’illusione ottica? No, non è un’illusione ottica, è più piccolo realmente. La scienza, invece, ci dice il contrario. Perché la scienza ci dice che è un’illusione?

Intervento: Però già Einstein ci parla dell’importanza del soggetto nella considerazione dei fenomeni spaziali.

Archiati: Il problema è un altro. Dire che un essere umano, che è a duecento metri da me, è grande quanto un essere umano che è qui davanti a me, è un giudizio, anzi è un pre-giudizio, mentre dire che è più piccolo è la realtà. Soltanto nell’astrazione dell’irreale, del surreale, sono ugualmente grandi, perché di una persona che è a duecento metri di distanza non si percepisce né l’Io, né il corpo astrale, né il corpo eterico, ma si percepisce soltanto un rimpicciolimento del corpo fisico; in altre parole, una persona che è a duecento metri di distanza da me, non fa parte del mio karma, perché non sento neanche la sua voce, non facendo parte del mio karma, è realmente, spiritualmente più piccola di una persona che sta qui davanti a me, e che magari sento parlare. Queste sono realtà, non astrazioni, e sono importantissime, perché se non capiamo oggettivamente il fenomeno dell’astrazione, in questi esempi reali, leggeremo in Steiner e diremo continuamente che l’uomo d’oggi è astratto, lo ripeteremo come un dogma, senza aver mai capito quale realtà c’è dietro: ma è vero che siamo astratti, che siamo fuori dalla realtà, quando diciamo che un essere umano, che è spazialmente lontano da noi, è grande quanto un essere umano che è qui davanti a noi. Si può dire che l’astrazione è il fenomeno che prende l’illusione ottica come unico parametro di realtà, ma l’illusione ottica è un’illusione ottica! E’ un’illusione ottica il fatto di trasportare una persona che è a duecento metri di distanza qui, perché non è qui, è là, è molto più piccola: in altre parole, si è realmente solo nelle situazioni in cui si è presenti.

Intervento: Però una persona cara che sta lontano, se la si vive nel ricordo, nel sentimento ecc., c’è!

Archiati: Io non ho detto che non c’è, ho detto che è molto più piccola.

Intervento: Però può anche essere più grande!

Archiati: Ad altri livelli, ma il fatto è che con questo processo di astrazione che ci sposta in tutti i luoghi del mondo, senza esserci realmente, ci si comincia a sentire responsabili, ad esempio, di tutto ciò che avviene in Jugoslavia, ci si sente un eroe ecc., ma sapete, in effetti, che cosa avviene? Avviene che ci si gode tutta questa bella astrazione, in modo da scappar via dal posto in cui si è veramente, dagli esseri umani che sono belli grossi per noi, mentre gli esseri umani che sono in Jugoslavia sono molto più piccoli. L’astrazione ci fa andare fuori dal mondo, e una volta che si è fuori dal mondo tutto è permesso!

Intervento: Ma un’idea che non si è ancora incarnata, materializzata, può agire nel mondo concreto?

Archiati: Prendiamo l’esempio dell’essere umano che vuole conseguire un fine, che vuole raggiungere qualcosa, diciamo che vuole fare una vacanza: per raggiungere questa vacanza sono necessari diversi strumenti. L’essere umano in questione si fa la rappresentazione della vacanza, e allora la rappresentazione opera dentro di lui, dentro alle sue scelte, perché la rappresentazione è una realtà animico-astrale che opera realmente. L’essere umano è l’unico essere ad agire in questo modo, perché se la divinità avesse bisogno di raggiungere qualcosa attraverso qualcosa d’altro, non sarebbe libera, e dovrebbe vivere nel tempo, dovrebbe fare qualcosa in vista di qualcos’altro. Dio non fa una cosa in vista di un’altra, Dio fa ciò che fa.

Intervento: Nel prologo di Giovanni si dice che diventano figli di Dio coloro che sono saldi nel suo Nome, e nella prima invocazione del Padre Nostro anche compare il mistero del Nome: questo Nome ha lo stesso senso di quel nome, minuscolo o maiuscolo, che incontriamo in grammatica?

Archiati: Il Nome, in senso storico-classico antico, è tutt’altra cosa che il sostantivo. Noi, nel linguaggio italiano d’oggi, praticamente usiamo la parola “nome” e la parola “sostantivo” come sinonimi, e questo crea enormi problemi, perché se andiamo indietro di duemila, tremila anni, basta tornare ai vangeli, il Nome esprime sempre l’essenza, anzi l’essere più che l’essenza, perché l’essenza sarebbe ancora un’astrazione: quando un essere umano, nella sua totalità di essere umano, tramite l’iniziazione per esempio, muta profondamente, deve cambiare anche il nome, ecco perché il nome esprime l’essere.

Facciamo un piccolo esercizio di cammino storico del divenire dell’umanità, e vedrete che sono delle cose interessantissime, e sono proprio quelle che Steiner faceva con gli educatori, con l’intento di dare loro uno sguardo sovrano sui fenomeni umani della storia. Ma questo lo sapete già, sapete che, in chiave di formazione degli educatori, non si tratta mai di dire come e cosa si deve fare con il bambino, ma di dare degli orientamenti didattici. Molto più importante che non dire al formatore che cosa deve fare con il bambino, è di aiutarlo a fare un cammino che gli consenta di acquisire una umanità abbastanza vasta, che poi gli permetterà, nella situazione concreta, di trovare autonomamente ciò che andrà fatto di volta in volta. Quindi, il cardine, l’elemento portante della formazione dei formatori, è la formazione umana, e adesso che faremo questa piccola sintesi storica, non la faremo in chiave di imparare qualcosa, ma sempre in chiave di che cosa possiamo fare adesso, in chiave di libertà, per recuperare elementi che dovevamo perdere, perché ci erano stati dati per grazia, automaticamente.

Se il Nome esprime l’essere, che cosa avviene quando invece del nome si usa una parola, una parola qualsiasi? Una parola esprime l’essere? No. Che cosa è successo semanticamente nel corso dell’evoluzione dell’umanità? C’è stato uno stadio del linguaggio in cui ogni parola esprimeva l’essere? Sì, c’è stato, ed è stato proprio lo stadio iniziale del linguaggio, dove ogni parola, non importa se sostantivo, verbo o aggettivo, ogni parola è stata creata imitando l’essere, come imitazione dell’essere. Quindi abbiamo un primo stadio del cammino dell’umanità, dove ogni parola, attraverso l’esperienza che si faceva nei suoni che venivano pronunciati, era una imitazione, un’esperienza interiore oggettiva, che ci faceva fare l’esperienza oggettiva della cosa. C’è stato un secondo stadio dell’umanità in cui i nomi delle cose, soprattutto i nomi degli esseri umani, e anche i nomi degli Angeli e degli Arcangeli, i nomi degli esseri spirituali, esprimevano l’essere, e perciò questi nomi mantenevano una certa variabilità, nel senso che quando l’essere cambiava, cambiava anche il nome: perciò, in questo secondo stadio del cammino dell’umanità, la congiunzione tra l’essere e la realtà, era soltanto nel nome, non più in ogni parola, perché le parole ormai avevano acquisito una certa tradizione, e il linguaggio non era più così motile da creare sempre nuove parole. Infine, nel terzo stadio dell’evoluzione dell’umanità, adesso, non riusciamo più a vivere il rapporto tra la parola che diciamo e l’essere reale, perciò non c’è più alcuna corrispondenza tra i nomi e l’essere delle cose.

Invece, in “Sia santificato il tuo nome”, questo “nome” non ha nulla a che fare con un sostantivo, è l’essere del Padre, che è nei cieli, a parte il fatto che “sia santificato” è una traduzione inesatta, con tutto il peso animico della tradizione di duemila anni di cattolicesimo. In greco non c’è né il “sia santificato” né il “nome”, in greco c’è qualcosa che dice: “L’essenza, il tuo essere, tu che sei il padre (e anche la parola “padre” è diventata problematica) dei cieli, non venga dimenticato dagli esseri umani”. Se il Nome rappresenta l’essere, allora il nome è l’opposto del sostantivo, perché l’essere non è l’essere in quanto lo si conosce, ma esprime il modo di essere, il modus essendi, il modo di esplicarsi, per via essente, di un essere; all’opposto, il sostantivo indica la conoscenza, cioè l’immagine che, nella conoscenza, compare di un essere. Nella quarta conferenza della Didattica, l’abbiamo già accennato, che cosa dice Steiner sul verbo e sul sostantivo? Dice che il sostantivo è di natura conoscitiva, mentre il verbo è di natura volitiva. Il cosiddetto Nome, allora, indicava il verbo, aveva qualità di verbo, perché indicava il modo di esplicarsi, se volete il modo di far promanare dal proprio essere la propria operatività, il modo di porsi dentro al cosmo e il modo di suscitare tutta una serie di conseguenze, tutta una serie di effetti, essendo una sorgente di cause causanti, di attività: ogni essere è un operare, il modo di essere è un operare, è un’afficeret, un suscitare effetti in tutto il mondo circostante. Quindi il Nome era proprio l’opposto di ciò che avviene, in chiave conoscitiva, quando noi, di tutto questo che è un mistero di volontà, di attività, di operatività, ci creiamo un’immagine speculare facendone un sostantivo. Da dove vediamo il processo, sempre crescente, di astrattizzazione dell’umanità? Lo vediamo dal fatto che di ciò che era, per natura sua, volitivo, per natura sua dinamico, abbiamo fatto un sostantivo, un elemento di conoscenza, un’unità conoscitiva. Quindi per noi, nella lingua italiana di oggi, il Nome è un’unità di conoscenza, mentre duemila anni fa il Nome era l’opposto, indicava l’operatività, l’esplicazione operante, dinamica, vivente, dell’essere nelle sue qualità volitive e nel suo modo di originare karma.

Questo era il Nome: il Nome diceva proprio il mistero della volontà, il mistero dell’azione, il mistero del karma.

Il Nome del Cristo è λογος (logos): in base alle considerazioni fatte, questo λογος è un sostantivo o un verbo? E’ un verbo, è un modo di operare, infatti in latino c’è Verbum… Il λογος è il principio immanente di vibrazione del cosmo, che dà una struttura immanente a tutte le cose, è l’attività creatrice per eccellenza. Questa attività creatrice che dischiude significato, perché crea rapporti, crea armonie di esseri fra di loro, non può essere ridotta alla “parola”, bisogna tradurre Verbo: “In principio era il Verbo”.

Abbiamo visto in questa conferenza la differenza fondamentale tra ciò che avviene in noi quando pronunciamo un verbo e quando pronunciamo un sostantivo: la differenza sta nel fatto che quando si pronuncia un verbo, l’esperienza che si fa, anche se normalmente è subconscia, è di partecipazione attiva, in altre parole, quando il linguaggio dice un verbo non ci è possibile tirarci fuori dall’attività che il verbo indica, ma ci tocca entrarci dentro. Se dico “quest’uomo scrive”, allora non solo mi unisco con questo essere del quale dico che sta compiendo quest’attività dello scrivere, ma partecipo alla sua attività, non mi è concesso di star fuori dal processo di cui parlo. Se questo è vero per gli adulti, lo è ancora di più per il bambino, e per il maestro, che ha a che fare con il bambino, è importantissimo sapere che c’è una differenza abissale fra l’esperienza che il bambino fa quando sente un verbo, che è un’esperienza di partecipazione dinamica, attiva, e l’esperienza che il bambino fa quando noi pronunciamo dei sostantivi, perché allora sorge nel bambino l’atteggiamento di tirarsi fuori dall’essere per contemplarlo, e per questo bisogna stare attenti a non pronunciare troppi sostantivi quando il bambino è piccolo, perché significherebbe porsi in chiave conoscitiva. L’aggettivo è a metà strada tra il verbo e il sostantivo, è proprio una lemniscata (fig. 16).

Qui abbiamo il verbo (piena partecipazione), qui c’è il sostantivo (piena distanza, contemplazione dal di fuori), e qui, nel mezzo l’aggettivo, che è un trapasso dall’uno all’altro, tanto è vero che l’aggettivo lo possiamo attribuire sia al verbo (diciamo “scrive bene”), sia al sostantivo (diciamo “un uomo buono”). Se si dice “un uomo buono”, si usa l’aggettivo per tornare in chiave contemplante, se, invece, si dice “scrive bene”, questo “bene”, che ha qualità di aggettivo, anche se è avverbio, fa tornare in chiave di partecipazione; e se si dice “scrive male”, bisogna partecipare comunque: in altre parole in “scrive bene” c’è la simpatia al partecipare, al venire coinvolti in questa attività, in “scrive male” c’è un’antipatia, ma partecipare si deve comunque.

Intervento: In una frase in cui c’è il verbo entra in gioco il senso del movimento di cui abbiamo parlato ieri?

Archiati: Quando siamo in chiave di verbo, di partecipazione, si muove tutto l’essere, si muove il senso vitale, si muove il senso del movimento, si muove tutto, è una partecipazione totale. Quando, invece, siamo in chiave di sostantivo, viene momentaneamente sospesa questa partecipazione organica, tanto è vero che un essere umano che usasse sempre e solo sostantivi, cosa farebbe? Consumerebbe in breve tempo tutto il suo corpo fisico, perché pensare, esplicare processi conoscitivi, significa uccidere l’organismo, invece essere nel verbo significa entrare dentro all’elemento vitale che ricostruisce l’organismo: è un po’ come essere svegli e dormire: nello stato di veglia distruggiamo forze vitali, che ricostruiamo dormendo, e perciò il bambino, che è un essere ancora addormentato, si sente molto di più nel suo elemento quando è nel verbo, e dobbiamo stare attenti a non farlo svegliare troppo presto. Quindi, in un certo senso, se il maestro fosse un vero artista, sarebbe capace di quell’arte (è una vera e propria arte) che consiste nel trasformare il più gran numero possibile di sostantivi in chiave di verbo, o almeno in chiave di aggettivo. Per esempio, con cosa si potrebbe sostituire la parola “struttura”? Immaginate un bambino di sette anni che sente “la struttura di un discorso dipende…” Al posto di “struttura” cosa si può dire?

Intervento: L’ insieme…

Intervento: L’andamento…

Archiati: Sì, l’andamento, i passi che si compiono dall’inizio alla fine delle cose che si raccontano…

Intervento: Il cammino? Il procedere?

Archiati: Anche. Il cammino è pure un sostantivo, ma capite che è di tutt’altra natura che non la “struttura”. Chi di voi ha fatto pedagogia per diversi anni sa che Steiner ci invita continuamente a recuperare il contenuto di immagine di tante parole che noi usiamo: nel processo, ad esempio, c’è l’immagine del pro-cedere e cedere da dove viene? In-cedere, pro-cedere, de-cedere? Da cedere, che significa cadere, e pro-cedere significa “cadere avanti”: è un’immagine bellissima. Steiner dice che se l’insegnante, quando pronuncia la parola procedere, ha davanti a sé, coscientemente, quest’immagine, questa sua astralità opera sul bambino, e il suo linguaggio ha, quindi, sul bambino un effetto del tutto diverso da quello che ha il linguaggio di un maestro, che, quando dice la parola procedere, non ha davanti a sé l’immagine: questo è molto importante, e bisognerebbe fare continuamente esercizi per vedere, ad esempio, su cento parole quante ci sono astratte, nel senso che non le accompagniamo con nessuna rappresentazione. Rappresentazione che parola è? Avete fatto la rappresentazione della rappresentazione? Rap-presentare, Repraesentatio, è un render presente, però, quasi sicuramente, quando io ho detto la parola “rappresentazione”, voi non avete pensato all’immagine. Questo esercizio di recuperare, il più possibile, il contenuto di immagine del linguaggio, è importantissimo, tra l’altro, per l’arte, perché l’arte senza immagine non è arte. Qualcuno ha qualche esempio di parole che sono immagini, anche se ce ne siamo dimenticati?

Intervento: Signore.

Archiati: Signore… che immagine è?

Intervento: E’ formato da due parole: il segno e le cose, signum e reso

Archiati: In greco signore si dice κυριος (kurios), in latino si dice dominus, quale parola viene da dominus in italiano? Donna, domina. Invece, il “donno” non ce l’abbiamo più, c’è il “don”, che è rimasto solo ai preti. “Don” è un’ abbreviazione di “dominus”. Da dove è saltato fuori “signore”?

Intervento: E’ il Logos, è il segno nelle cose.

Archiati: Io non ho fatto ricerche al riguardo, ma di sicuro si tratta di un’ immagine. Apriamo una piccola parentesi: la storia delle parole è una delle cose più complesse che ci siano, e bisogna stare attenti a non essere troppo fantasiosi, perché la storia delle parole va studiata, non si può inventare, è storia, quindi bisogna studiarla. Facciamo insieme un piccolo esempio di storia di una parola, che ci fa capire la storia dell’umanità, perché se riusciamo ad individuare la storia di una parola, vediamo che questa storia si evolve insieme all’umanità. La parola che voglio prendere in considerazione è: πραυς (praùs), che sta nelle Beatitudini: “Beati i mansueti”. Negli anni giovanili io avevo una passione semimorbosa per le lingue, passavo ore intere a studiarle. Da πραυς viene il latino pravus, vedete che è la stessa radice, poi vengono i “bravi” dei Promessi sposi, e il “bravo!” all’Opera o nello stadio, viene l’inglese brave (coraggioso), il francese brave (“sois brave!”:sta’ buono, sta’ tranquillo, quieto, non ti muovere), ed infine il tedesco brav (tranquillo).

E’ chiarissimo che, nel corso dell’evoluzione, questa parola greca ha fatto saltar fuori, a seconda dei linguaggi, due significati opposti.

Intervento: Ma che voleva dire?

Archiati: Questo è quello che dobbiamo scoprire. In italiano “state buoni” significa “state tranquilli”, invece, in inglese, “brave” significa tutt’altra cosa, significa “coraggioso”. In francese significa di nuovo “tranquillo” e il tedesco “brav” è ancora più mansueto, tranquillo, cheto, zitto zitto. La storia dell’umanità che salta fuori è questa: πραυς è nella terza Beatitudine, e “mansueto” è, in fondo, una traduzione sfacciata, perché la parola greca non significa “mansueto”, la parola greca significa “la forza interiore di prendere sul serio la purificazione interiore”, quindi il cosiddetto “mansueto” è colui che lavora sul corpo astrale. La prima Beatitudine riguarda il corpo fisico (“Beati coloro che sono poveri perché sono piombati, fino in fondo, nel mondo fisico, hanno perso tutti i tesori del mondo spirituale e se li devono riconquistare”). “Beati coloro che soffrono”: è la beatitudine del corpo eterico. La Beatitudine del corpo astrale vuol dire che conseguono la beatitudine, conseguono la pienezza dell’essere coloro che si adoperano a purificare la propria astralità. Colui che è battagliero verso se stesso, combatte la battaglia interiore, non ha bisogno di essere aggressivo all’esterno, proprio perché sa che la vera battaglia si compie nel proprio corpo astrale; perciò, o si sa che la grande battaglia va combattuta all’interno, oppure si disattende questa vera battaglia, e allora si diventa aggressivi verso l’esterno, ma perché si diventa aggressivi? Perché l’astralità non è purificata. Se, al contrario, si purifica l’astralità, non si è più aggressivi, però per purificare l’astralità ci vuole una combattività, un’attività, una forza molto maggiore di quella che occorre per attaccare un altro. Cosa significa che è “mansueto” chi è così “spietato” nei confronti di se stesso?

Significa che chi dichiara una guerra senza quartiere a tutto ciò che è disordine dentro. di lui, costruisce rapporti armoniosi con il mondo esterno, quindi esperito dal di fuori, dagli altri, risulta “mansueto”, ma dentro di sé è un guerriero. Quindi la parola greca mette l’accento sulla battaglia interiore, e se, invece, si tralascia la battaglia interiore, salta fuori quella esteriore, quindi l’aggressività, il contrario della mansuetudine, il contrario della mitezza. La legge fondamentale che questa parola esprime è che più una persona è spietata con se stessa, e più è paziente verso gli altri. Andiamo avanti ed arriviamo ai romani: il romano è l’esperto della guerra fuori, il conquistatore per eccellenza, e per il romano chi non è aggressivo all’esterno perché, povero picchiato, vuole lavorare dentro, è un “pravus”; quindi la stessa parola, adesso, significa l’opposto. Perciò, in questo passaggio dal greco al latino, abbiamo due significati fondamentali opposti, a seconda che noi apprezziamo, come valore, l’imporsi esterno, bellicoso, guerresco, aggressivo, o che, al contrario, poniamo come valore positivo il lavorare su se stessi. C’è poi una linea di continuità fra il romano conquistatore e l’inglese colonizzatore, imperialista, perché “brave” significa coraggioso all’esterno. Il francese e il tedesco sono più fedeli alla parola greca, e fanno riferimento alla pace interiore, all’equanimità, alla calma, e l’italiano usa la stessa parola in entrambi i significati: si può essere “bravi” nel cammino interiore, e si può essere “bravi” quando si vince una gara.

Questo è un piccolo esempio di cammino dell’umanità: è chiaro che i bambini piccoli non sono ancora in grado di apprezzare osservazioni di questo tipo, ma dopo i dodici anni, e dopo i quattordici ancora di più, queste cose fanno innamorare i ragazzi, ci provano un gusto enorme, e, sulla base di cose così belle, imparano, ad esempio, la storia molto più alla svelta, e non la dimenticano più, perché una volta che il ragazzo o la ragazza ha capito che il romano chiama “pravus” colui che lavora su se stesso, mentre la terza Beatitudine chiama πραυς colui che è mansueto al di fuori, perché sa lottare nella propria interiorità per mettervi ordine, non se lo dimentica più, se lo ricorda, ed ha il beneficio di imparare le lingue, perché sa, si ricorderà che deve stare attento quando dice “brave” in inglese, perché significa tutt’altra cosa che “bravo” in italiano.

Ritorniamo ai nostri dodici sensi, per fare un altro paio di considerazioni. (Fig. 17).
Con i bambini piccoli, naturalmente, non bisogna fare delle cose così astratte, bisogna svilupparle in modo vivente. Adesso, io vorrei indicare alcuni orientamenti fondamentali, che Steiner ha dato in queste conferenze, senza commentare la cosa più di tanto, lasciandola a voi. Prima finiamo di delineare queste varie prospettive, che hanno un carattere un po’ sibillino, e poi vediamo se possiamo agganciarci all’una o all’altra. Una prospettiva, che Steiner descrive in una o due conferenze, è la distinzione tra un settenario e un quinquenario: abbiamo la vita, il tatto, l’Io, il pensiero e il linguaggio, che costituiscono il quinquenario, e i rimanenti sensi costituiscono il settenario; se tiriamo una linea tra la vita e il movimento, e tra il linguaggio e l’udito, abbiamo il passaggio dall’evoluzione lunare all’evoluzione terrestre. Quando noi eravamo nell’evoluzione lunare della terra, per tutto il tempo dell’evoluzione lunare della terra, c’erano, però molto diversi da come sono adesso, questi sette sensi (udito, calore, colore, gusto, olfatto, equilibrio e movimento), e non c’erano questi altri cinque sensi (vita, tatto, Io, pensiero e parola).

L’evoluzione terrestre è stata possibile unicamente in base al fatto che sono sopraggiunti questi cinque sensi, e per far posto ad essi questi altri sette sensi si sono profondamente modificati; quindi, la provocazione a pensare, una specie di compito di meditazione non facile (può durare per tutta una vita), sta nel chiedersi cosa significa che questi cinque sensi -che fra l’altro sono tre al di sopra di questa linea magica tra la percezione dell’Io altrui e il sentimento del proprio Io (tatto), e due al di sotto-, cosa significa che questi cinque sensi sono specificamente terrestri? Che cosa significa che una percezione della vita è specifica della terra, che una percezione tattile è specifica della terra, che una percezione dell’Io altrui è specifica della terra ecc., se teniamo presente, tra l’altro, che è specifico del cammino terrestre dell’essere umano l’acquisizione dell’Io, mentre era specifico del cammino lunare dell’umanità l’acquisizione del corpo astrale. Significa che c’è un tipo di meditazione sui dodici sensi che ci autorizza, in partenza, ad approfondire questi sette in chiave di corpo astrale, e questi cinque in chiave di Io. E i conti tornano, perché noi abbiamo insistito già ieri sul fatto che questi quattro (calore, colore, gusto e olfatto) sono eminentemente sensi del sentimento, sono eminentemente astrali, però si aggiungono altri misteri, perché va incluso l’udito, vanno inclusi anche il movimento e l’equilibrio. Per esempio, perché il movimento era già possibile sulla luna, e perché il senso della vita non era ancora possibile sulla luna? Perché il movimento è una qualità intrinseca del corpo astrale, che è sempre in movimento: una brama è una realtà di movimento, una passione è una realtà di movimento, non è mai statica. Cosa subentra quando si aggiunge il mistero della vita? La vita non è il movimento, la vita è la capacità di un organismo di chiudersi in se stesso e di diventare un’unità organica, tanto è vero che quando l’organismo finisce di essere un’unità organica muore. Cosa significa morire? Significa che gli elementi di un organismo terminano di essere in rapporto vitale con tutti gli altri elementi, quindi il concetto di vita, anche al livello del senso della vita, è il concetto di unità organica; ora, gli esseri hanno potuto chiudersi in unità organiche, separate le une dalle altre, soltanto sulla terra.

Qual è il passaggio dall’udito alla parola, al suono linguistico articolato? E’ il mistero del logos: l’udito è la capacità di con-vibrare con il mondo esterno, e la capacità di con-vibrare con il mondo esterno c’era già nell’evoluzione lunare; ciò che si aggiunge sulla terra, in chiave di sopravvento dell’Io, è la capacità di parola, cioè di suoni che abbiano un significato logico, a livello di logos, logico viene da logos. Quindi il sopravvento, l’irrompere del logos dentro all’evoluzione è specifico del cammino terrestre, tutti i sensi terrestri ci portano al centro, al mistero dell’Io, che a livello di percezione è l’Io altrui, e, a livello di sensazione vera e propria, è il senso del tatto. Questa è una chiave di lettura: se vi interessa trovate queste cose nel volume 170 (L’enigma dell’uomo. Il retroscena spirituale della storia umana) e nel volume 206 (Il divenire dell’uomo, l’anima e lo spirito del mondo. Parte II: L’uomo quale essere spirituale nel divenire storico) dell’Opera Omnia.

Un’altra importante chiave di lettura dei sensi è questa: abbiamo una linea divisoria (fig. 17), che mette al di sopra il senso dell’Io, del pensiero, del linguaggio, dell’udito, del calore e del colore, e al di sotto il gusto, l’olfatto, l’equilibrio, il movimento, la vita e il tatto: queste considerazioni le trovate nel volume 169 (Essere spirituale ed egoità) dell’O.O. Rudolf Steiner, parlando della metà superiore e della metà inferiore, dice che queste due metà rappresentano uno dei significati più importanti delle due famose colonne d’Ercole, dei due pilastri dell’Apocalisse, la colonna di Jakin e la colonna di Bohas dei franco-massoni, dei rosicruciani, di queste due colonne che poi sono state riprese nei portali delle chiese cristiane, e che indicano che, quando si varca la soglia, la soglia fra il mondo profano e il mondo spirituale, ci deve essere una consapevolezza della soglia; in altre parole, queste colonne (spesso ci sono anche i leoni) dicono all’essere umano: -Se tu non ti spogli dell’atteggiamento interiore profano e non ti vesti di tutt’altro atteggiamento, verrai mangiato. Quindi attento: questa è una soglia, non ti è permesso, non ti è concesso di portare dentro a questo mondo sacro dello spirito la stessa mentalità profana quotidiana!-.

Steiner dice che la metà superiore indica la vita interiore, e di sotto abbiamo la vita della natura, natura dentro all’uomo, però pur sempre natura. Che i fenomeni vitali e i fenomeni di equilibrio siano fenomeni di natura dentro all’uomo è facile capirlo, mentre il compito conoscitivo di capire in che modo i fenomeni olfattivi e i fenomeni gustativi sono fenomeni di natura dentro all’uomo, e perché i fenomeni dei colori non più, è già più arduo. Vedete quanti compiti conoscitivi ci vengono dati? Steiner aggiunge: qui sopra abbiamo il contenuto morale dell’essere umano, e qui sotto, invece, abbiamo il lato di necessità o di determinismo. Quindi, per quanto riguarda questi sei di sopra, l’uomo ha una responsabilità morale, potremmo anche dire che i sei di sopra sono eminentemente sensi di libertà, mentre i sei di sotto sono eminentemente sensi di natura. In altre parole, non si può cambiare la natura di percezione del movimento, dell’equilibrio, della vita ecc., il funzionamento di queste percezioni lo si può cambiare soltanto indirettamente, lavorando sulla qualità di queste percezioni. Lavorare direttamente sulla qualità della percezione e sul fenomeno del funzionamento della percezione stessa, si può soltanto per i sensi di sopra, cioè ci si può, ad esempio, esercitare a percepire i colori in un modo diverso, e percependo i colori in un modo diverso vedremo poi quale altro senso viene attivato in modo diverso. Questa di sotto è la colonna di Bohas, e questa di sopra è la colonna di Jakin della tradizione ebraica, che poi è stata ripresa dai massoni. Il volume 206, nelle prime due conferenze, parla di questi misteri.

Un altro aspetto fondamentale è che noi abbiamo, con al centro adesso l’Io, di sopra, dalla vita all’udito, il polo dello spirito, perché la percezione dell’Io altrui ha il contenuto più spirituale che ci sia, e di sotto, dal calore al movimento, abbiamo il polo della materia (fig.18).

Il centro del polo dello spirito è fra l’Io e il pensiero, e il centro del polo della materia è fra il sapore e l’odore. Cosa significa polo della materia? Significa che col sapore, col colore e col calore, e sotto, con l’odore, con l’equilibrio e con il movimento, si ha a che fare con la materia. Invece, con la vita, con il tatto, con l’Io, con il pensiero, con il linguaggio e con l’udito, abbiamo a che fare con lo spirito: altro compito conoscitivo non indifferente! Quindi, Io, tatto e vita, più pensiero, linguaggio e udito, formano il polo dello spirito, invece il gusto, la vista e il calore, di sopra, e l’olfatto, l’equilibrio e il movimento, di sotto, rappresentano il polo della materia.

C’è ancora un’altra chiave di interpretazione e consiste nel considerare il grado di coscienza di questi dodici sensi, cioè i vari gradi di svegliezza, nel cercare di capire dove noi siamo più addormentati, quindi più inconsci, e dove noi siamo più svegli, più consci: c’è una “mezzanotte della coscienza” dei dodici sensi, e c’è un “mezzogiorno della coscienza” dei dodici sensi. Dove siamo maggiormente coscienti e dove siamo maggiormente dormienti dentro al fenomeno della percezione? Tra il movimento e l’equilibrio è la mezzanotte della coscienza dei sensi. Quindi siamo massimamente addormentati quando abbiamo una sensazione di equilibrio e quando abbiamo una sensazione di movimento. E siamo massimamente svegli fra l’udito ed il linguaggio. Inoltre, se qui, fra parola ed udito, è mezzogiorno, e ogni senso sono due ore, dove sono le due del pomeriggio? Andiamo verso sinistra o verso destra? Dov’è il sorgere del sole? E dove tramonta il sole? Dato che Steiner mette i dodici sensi in rapporto con la destezza dell’Io, abbiamo a che fare, qui, con il mistero dell’Io, che è rappresentato proprio dal sole, che passa tutti questi segni zodiacali, e dobbiamo chiederci dov’è il sorgere dell’Io e dov’è il tramontare dell’Io. Qui, fra parola ed udito, c’è un massimo di presenza, di coscienza del nostro Io, qui invece (fra equilibrio e movimento) c’è un massimo di sonno della coscienza, dove sorge e dove tramonta il sole? Questa è la domanda.

Intervento: Sopra è giorno e sotto è notte.

Archiati: Sì, ma dov’è il sorgere del sole? Bisogna evitare di scivolare nelle astrazioni, e dare ai fenomeni il tempo di crescere: perciò Steiner stesso non ci dà la risposta, ci indica soltanto, come orientamento fondamentale, la mezzanotte e il mezzogiorno, il resto lo lascia a noi.

Intervento: Cosa vuol dire essere addormentati ed essere svegli nelle percezioni?

Archiati: Vuol dire che queste percezioni qui, vicine alla mezzanotte, sono massimamente indirette: soltanto grazie al fatto che ci sono tutte le altre percezioni, si percepiscono anche il movimento e l’equilibrio, se non ci fossero tutte le altre percezioni, non sapremmo niente del movimento e dell’equilibrio. Questo vuol dire che sono gli altri sensi, soprattutto quelli di sopra, che sono luminosi, che sono desti, a permetterci, indirettamente, di tirar fuori dal sonno le percezioni di sotto: però, un conto è una percezione che viene tirata fuori dal sonno, e un altro è una percezione che è per natura sua desta, ecco la differenza, la grande differenza.

Ci sono volumi interi, anche non tradotti, nei quali Steiner ci presenta i dodici sensi sempre da nuovi lati, e le cose si complicano. Uno di questi volumi, in cui sono raccolte alcune delle conferenze principali sui sensi, è il volume 107 dell’O.O. (L’Antropologia secondo la scienza dello spirito), dove Steiner descrive, per due conferenze intere, le “trasformazioni” dei sensi. Vi riassumo il pensiero globale delle due conferenze: a questi sette sensi, che erano quelli lunari, se ne sono aggiunti altri cinque sulla terra; quindi vita, tatto, Io, pensiero e linguaggio, si sono aggiunti sulla terra (fig.17). Steiner dice che i sette sensi dell’evoluzione lunare non erano, di fatto “sensi”, ma erano “processi vitali”, e perciò erano sette: ed è veramente affascinante leggere le trasformazioni, che questi sensi hanno subito per passare da un carattere di processo vitale ad un carattere di senso. Questa descrizione è, da un lato, una delle più complesse che ci siano, ma, dall’altro lato, varrebbe la pena di fare tutta una settimana soltanto su queste due conferenze, che sono molto difficili, ma molto importanti, anche dal punto di vista pedagogico. Sappiamo infatti che nel bambino piccolo, proprio perché il bambino, all’inizio della sua vita, fa una sintesi di tutta l’evoluzione passata, i sensi non sono ancora arrivati a quella fissità riposante che hanno nell’adulto, quando non sono uno dentro all’altro, ma veramente del tutto diversi l’uno dall’altro. Nel bambino, quindi, soprattutto questi sette sensi (dal movimento all’udito) hanno un carattere molto più vitale, cioè un carattere di organi, che non questi altri cinque (dal calore all’equilibrio), che si aggiungono dopo, un po’ alla volta. E come si aggiungono? Portando ad un carattere maggiormente di fissità, di riposo, gli altri sette, che hanno un carattere vitale. Quindi i sette sensi lunari erano sensi vitali, noi oggi abbiamo i sette organi vitali: c’è stato un passaggio dal vitale a ciò che è morto, perché i sensi sono morti, tutti gli organi di senso hanno, rispetto agli organi vitali, un carattere di morte, cioè di fissità, di staticità.

Intervento: Questo “vitale” ha a che fare con le brame?

Archiati: No, quali sono i sette processi vitali? La crescita, per esempio, è un processo vitale. I sensi crescono? No. Ogni senso funziona così, non cresce. Altri processi vitali sono la respirazione, il calore interno, la nutrizione, la secrezione (interna ed esterna), la conservazione e la riproduzione, cioè la capacità di un organismo totale di raddoppiarsi: tutti fenomeni che non hanno nulla a che fare con i sensi, perché un occhio non produce mai un altro occhio. Invece, è importante sapere che, in chiave evolutiva, questi dodici sensi diventano morti in base ad un processo di superamento, di lasciarsi dietro il carattere organico vitale.

Intervento: Qual è il senso della moltiplicazione dei pani nei vangeli?

Archiati: La moltiplicazione dei pani è un’esperienza spirituale, che i dodici apostoli, che rappresentano i dodici sensi e i dodici segni zodiacali, nonostante i loro sforzi, non riescono a capire. Non abbiamo il tempo di approfondire, posso solo riassumervi l’evento per farvi capire come i vangeli siano stati interpretati, finora, in chiave animica, di sentimento religioso, ma ora devono essere compresi a livello spirituale, come testi scientifici di scienza dello spirito. In questa chiave, la moltiplicazione dei pani è l’evento che ci mostra che, come l’Io percorre tutti i dodici sensi e il sole tutti i dodici segni zodiacali, così il Cristo aiuta i dodici apostoli, attraverso la comunione che si stabilisce fra di loro, a fare l’esperienza del modo in cui i vari sensi sono congiunti gli uni con gli altri. Abbiamo visto che noi non possiamo fare l’esperienza di una superficie colorata senza attivare, contemporaneamente, il senso del movimento, per coglierne la forma, e il senso della vista, per coglierne il colore; quindi per avere la sensazione del colore, che è animica, abbiamo bisogno del senso della vista, mentre, per avere la percezione della forma, che è maggiormente corporea, volitiva, abbiamo bisogno del senso del movimento, e il fatto che questi due sensi lavorano insieme si esprime, nei vangeli, nel fatto che il Cristo dà a due apostoli un compito da svolgere insieme. Ecco la nuova chiave di lettura, che deve venire esercitata: in altre parole, quando il Cristo manda Pietro e Giovanni a fare qualcosa, fra tutte le altre cose significa anche che si tratta di due sensi ben specifici che devono collaborare per una data esperienza, e questo c’è sempre nei vangeli se è vero, come è vero, che i dodici apostoli rappresentano realmente, non solo in chiave di metafora, il carattere specifico di ciascuno dei dodici sensi, e il carattere specifico di ciascuno dei dodici arti del corpo umano. In questi giorni non abbiamo considerato il settenario, i sette processi vitali che corrispondono ai sette pianeti, al sistema planetario. Nei vangeli oltre al dodici c’è il sette, ci sono una serie di discepoli iniziati del Cristo, ci sono Nicodemo, Giuseppe di Arimatea e altri ancora, cioè c’è un settenario intorno al Cristo che sta a rappresentare gli impulsi dei pianeti, del sistema planetario.

Abbiamo così due moltiplicazioni dei pani: nella prima l’esperienza culmina col permanere di dodici ceste di nutrimento che scende dal cielo, le ceste sono gli organi di senso, che sono proprio come dei recipienti che accolgono le forze costruenti, le forze nutritive che vengono realmente dal cielo, dal mondo spirituale. Nell’altra moltiplicazione dei pani, si parla di sette ceste, e in greco ci sono due parole ben distinte per designare le dodici ceste dei sensi e le sette ceste dei sette processi vitali.

I dodici sensi sono delle zone ben circoscritte, ben distinte una dall’altra, e perciò il testo greco parla di κοφινος (kòfinos = contenitore chiuso, da cui cofano, cofanetto), e il funzionamento di ogni senso è conchiuso in sé stesso; invece per i sette processi vitali non si parla di qualcosa di circoscritto, ma di una processualità di movimento, il processo di nutrizione passa per tutto il corpo, come pure il processo di respirazione e quello di crescita, la crescita è un evento che riguarda tutto il corpo, perciò c’è un’altra parola greca, σπυρις (spurìs = cesta), e le parole significano sempre l’oggettività, la realtà oggettiva. Restano, quindi, queste sette ceste e, se noi avessimo maggiore capacità di vivere, euritmicamente, la realtà oggettiva del suono, potremmo vedere come il primo termine si riferisca a qualcosa di solido che conchiude, mentre il secondo non indica tanto un vaso chiuso, quanto una cesta dove l’aria e l’acqua possono entrare ed uscire. Perciò, duemila anni fa, parecchie persone che avevano la capacità di leggere i vangeli -diciamo che avevano una certa base iniziatica- sapevano che con il primo termine ci si riferiva ad un vaso conchiuso, che non avrebbe fatto uscire ciò che conteneva, mentre con il secondo si pensava ad un trapasso, ad una processualità di movimento che permea e che va in tutte le direzioni. Ecco espresso nelle parole stesse il mistero dei dodici sensi e dei sette processi vitali, i quali ultimi permeano tutto l’organismo senza avere un recinto circoscritto, mentre ogni organo di senso ha un recinto circoscritto per il suo operare.

Riprendiamo il discorso sulle corrispondenze dei sensi (fig. 19).
Consideriamo il senso del pensiero e il senso della vita: l’elemento portante del pensiero sono i concetti e i concetti si hanno quando si ha la capacità di cogliere una realtà compiuta, quando si sa distinguere l’essenza dagli accidenti. Gli accidenti sono le qualità in chiave di aggettivo, quando, invece, si considera il sostantivo non ci si riferisce agli accidenti, ma all’essenza: se dico “tavolo”, mi riferisco alle qualità, cioè al fatto che è rosso, che è bianco, che è verde, o al fatto che ha quattro gambe invece di sei? Non è facile trovare l’essenza del tavolo, come non è facile trovare il concetto del triangolo, però quando si afferra un concetto, si compie, a livello di pensiero, la stessa cosa che avviene quando si percepisce la propria corporeità con il senso della vita, che è la percezione della totalità organica del proprio essere corporeo in quanto unità, altrimenti non si potrebbe percepire, per esempio, il male del piede come male di tutto l’organismo. Noi diciamo: – Mi fa male il piede -, fa male a me, non al piede, e questo lo possiamo dire solo in base al senso della vita, che, quindi, è la percezione della propria totalità corporea in chiave di concetto, come contrapposto al concetto.

La corrispondenza fra il senso dell’Io e il senso del tatto è più facile da comprendere, perché il senso dell’Io è la percezione dell’Io altrui, a livello spirituale, e il senso del tatto è il sentimento del proprio Io, a livello corporeo. Si può aver il sentimento del proprio Io soltanto grazie al senso del tatto, invece l’Io altrui lo si percepisce spiritualmente; così è anche per la percezione dei pensieri altrui: attraverso il senso del pensiero si ha una percezione diretta dei pensieri altrui, la percezione dell’Io è l’addormentarsi totale nell’altro, e la percezione dei suoi pensieri è l’addormentarsi parziale, molto sottile, molto veloce, dentro al pensiero dell’altro, che vuole contraddire il nostro, che lo vuole completare o che lo vuole confermare, per poi risvegliarsi dentro il proprio pensiero, pensiero che noi percepiamo perché lo creiamo. Perciò, per sapere se abbiamo a che fare con un pensiero nostro o di altri, bisogna considerare che il pensiero altrui lo percepiamo, nel senso che non lo creiamo noi, non lo produciamo noi, mentre il nostro processo pensante lo creiamo noi. Quando si capisce ciò che l’altro dice, si sta già prendendo posizione, tramite il proprio pensiero, nei confronti di ciò che l’altro ha detto, è un portare a coscienza l’attività del senso del pensiero, ma la percezione è già avvenuta, e sappiamo che c’è stata perché nella percezione come tale, questo vale per tutti e dodici i sensi, siamo addormentati e sappiamo che siamo addormentati dal fatto che poi ci si sveglia, e a quel punto siamo già fuori dalla percezione, siamo già entrati nel pensiero.

Intervento: Un atteggiamento di scarso interesse per gli altri può essere determinato da un ridotto funzionamento di alcuni sensi?

Archiati: Per rispondere a questa domanda dobbiamo ritornare ad una triplice composizione dei sensi, non possiamo considerare tre sensi alla volta perché l’essere umano è tripartito, non quadripartito, quindi tutte le riflessioni fatte sui sensi devono riferirsi a gruppi di quattro sensi: quattro sensi corporei, quattro sensi animici e quattro sensi spirituali. Per generare interesse verso l’altro dobbiamo attivare particolarmente i sensi spirituali, e se prendiamo l’essere umano, così com’è strutturato nel suo corpo, abbiamo i sensi spirituali nel sistema della testa, quelli animici nel tronco e quelli corporei negli arti, quindi il polo opposto al senso dell’Io altrui, dei pensieri altrui, delle parole altrui, è quello dei sensi corporei. In altre parole, se noi non vogliamo moraleggiare nei confronti di chi è egoista dicendogli di amare di più (che non servirebbe a niente perché si scavalca la conoscenza oggettiva del fenomeno), dobbiamo fare un passo indietro, in chiave di scienza dello spirito, e conoscere oggettivamente il fenomeno di come è strutturato l’essere umano che fa enorme fatica ad aprirsi all’altro: e la prima osservazione da fare è che si tratta di un essere umano troppo profondamente inserito nella sua corporeità, cioè i suoi sensi corporei lavorano in modo troppo forte.

Sapendo questo, in molti casi si possono aiutare queste persone con una dieta che le tiri fuori da questa pesantezza, perché se esse vivono, al centocinquanta per cento, tutti i fenomeni di tatto, i fenomeni vitali, di movimento e di equilibrio, non hanno la possibilità di percepire attivamente, e con uguale intensità, l’Io altrui, i pensieri altrui, le parole altrui, i suoni, cioè il vibrare interno delle cose che le circondano: possiamo dire che sono troppo incarnate. Senza entrare nel merito di ciò che accade nell’Io, nel corpo astrale, nel corpo eterico ecc., nell’insieme possiamo dire, proprio perché questi sensi sono polarmente opposti, che una persona che non percepisce l’Io di un altro, i pensieri, le parole di un altro, certamente è una persona che esubera nella percezione dei suoi sensi corporei.

Intervento: Questo vale anche per i bambini, che sono sempre in movimento, che hanno sempre bisogno di essere toccati e che non sembrano interessarsi a nient’altro?

Archiati: Un bambino che ha sempre bisogno di essere toccato, nella maggior parte dei casi vive troppo negli altri e, quindi, sente il bisogno di entrare di più in se stesso, per questo vuole molte più esperienze tattili. Ora abbiamo fatto un salto mortale, prima si parlava dell’adulto egoista, che è un fenomeno polarmente opposto a quello del bambino che ha bisogno di carezze, un bisogno particolare di sensazioni tattili, perché è fuori di sé e sta lottando per incarnarsi, è ancora nel processo incarnatorio: se fosse sufficientemente incarnato non avrebbe bisogno dell’esperienza del tatto, se la cerca vuol dire che gli manca. All’opposto, l’adulto super egoista è un essere che gode troppo della sua corporeità, vive profondamente tutti i processi di digestione, attraverso la percezione del senso del movimento e del senso della vita, per cui una bella mangiata gli procura grande soddisfazione, e sono proprio questi due sensi ad agire, quelli posti al centro tra i quattro corporei, che sono poi polarmente opposti ai due sensi centrali spirituali del pensiero e della parola. Ogni pensiero espresso da altri deve essere prima percepito, perché si possa farlo proprio.

Quindi ogni pensiero parte dalla percezione del pensiero, ed anche i pensieri che crediamo di produrre sono nel cosmo: c’è sempre un processo di percezione che precede il pensare. Quando la pancia è piena e c’è questa percezione così forte dei processi vitali di movimento e di digestione, è impossibile, allo stesso tempo, avere una percezione forte a livello di pensiero. Quindi una persona che, come carattere marcato del suo essere, è incapace di questa percezione, è troppo incarnata, più di quanto sarebbe il giusto equilibrio, e allora non ha senso dire che è un egoista, che non deve essere così: in chiave di scienza dello spirito si deve dire che è subentrato uno squilibrio tra i sensi corporei e quelli spirituali, per cui la forza dei sensi corporei esubera la forza dei sensi spirituali.

Intervento: Un anoressico è poco incarnato?

Archiati: Per capire questo fenomeno, dobbiamo riprendere un pensiero che ho espresso ieri sera nella conferenza pubblica, e cioè che la trinità è importante proprio perché ci fa capire che il bene, ciò che è umanamente giusto, è nel mezzo, e che il male è ai due opposti. Ieri sera ho portato l’esempio del modo di comportarsi con la propria corporeità: da una parte abbiamo il lasciarsi andare, la dissolutezza, il godere tutti gli istinti del corpo, dall’altra c’è la macerazione, l’ascesi, e questi due fenomeni sono un’apparente polarità, perché, in realtà, hanno in comune il fatto di essere un male, quindi entrambi vanno contro l’essere umano e mettono al centro il corpo. In altre parole, invece di sapere che ciò che è spirituale va colto spiritualmente, si vuole costringere il corpo a dare esperienze spirituali, e ciò che se ne ricava sono allucinazioni, poiché il corpo è stato devitalizzato e l’essere umano ne è stato tirato fuori.

L’anoressia è un fenomeno di goduria spirituale, perché si vuole costringere la corporeità ad avere esperienze spirituali: nella macerazione il corpo si sente di più, perché il senso della vita non si riferisce solo alla vitalità, ma anche all’opposto, perciò la percezione della stanchezza si attua attraverso lo stesso senso che funziona esageratamente quando il corpo è troppo stanco, e allora si è costretti a notarlo. Steiner dice che quando si medita, e oggi lo si fa in chiave di anima cosciente, non è importante la posizione del corpo, tuttavia questa non deve essere né troppo comoda né troppo scomoda, perché sia nell’uno che nell’altro caso si è costretti a lasciare la sfera dello spirito e a fare attenzione al corpo: se si è troppo comodi, ci si addormenta, e allora lo spirito è via, se si è troppo scomodi, si è costretti a fare attenzione al corpo.

Intervento: Quale rapporto c’è tra il senso del linguaggio e il senso del pensiero?

Archiati: Un conto è capire ciò che l’altro dice e un altro è capire ciò che l’altro vuol dire: nel primo caso sono nel senso della parola, nel secondo attivo la percezione del pensiero, cioè vado al di là delle parole, perché queste non sono il tutto che l’altro vuol comunicare, le parole non si identificano mai, al cento per cento, col significato che vogliono esprimere, e questo perché il pensiero ha un carattere universalmente umano, è uguale su tutta la terra. Se prendiamo, ad esempio, il concetto di testa, il concetto non la rappresentazione, e poi passiamo dal concetto alla parola, passiamo da ciò che è universalmente umano a ciò che è anima di gruppo di un popolo. Il concetto della testa non è la parola testa; per avere il concetto della testa dovrei stare zitto, dovrei unicamente pensare: se esprimo questo concetto con la parola testa faccio un salto mortale da una parola che è esaustiva, universalmente umana, ad un aspetto particolare espresso tramite il linguaggio.

Nella lingua italiana abbiamo, da testa, “testardo” e “testamento”, invece la parola usata in tedesco per indicare il concetto di testa è Kopf, che dà un’altra sfumatura dello stesso concetto. Ecco perché sono due cose diverse percepire le parole e poi, tramite queste, percepire il concetto, il pensiero; e infatti diciamo: “Cerca di capire cosa voglio dire e non solo quello che dico”. Nella percezione del concetto l’essere umano si congiunge con l’essere del Cristo; nella percezione della parola l’essere umano si congiunge con l’Arcangelo, con lo spirito del popolo; nella percezione dell’udito si congiunge con il suo Angelo, è in comunione con il proprio angelo custode, e in questa comunione si fa un’esperienza del proprio corpo eterico. Queste indicazioni le trovate nel volume 115 dell’O.O. (Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia).

Passando ai sensi animici, nel calore l’essere umano fa l’esperienza del proprio corpo senziente; quando percepisce i colori vive nella realtà della sua anima senziente, in modo centrale e massimo, perché l’esperienza del colore è pura sensibilità animica.

Nella percezione gustativa siamo in chiave di anima razionale-affettiva: l’affettività, che è una cosa diversa dalla sensibilità, viene percepita in forma pura nell’elemento del gusto.

Intervento: Perché si dice anima razionale-affettiva? I due termini non sono in contraddizione?

Archiati: Il problema è nella traduzione, in tedesco le parole sono più precise; affettiva sta per “animo”, razionale sta per “intellettiva”.

L’anima cosciente la mettiamo a livello della testa, l’anima senziente è quella ancorata alla corporeità delle membra, al centro ci sono due ritmi: uno verso l’alto e l’altro verso il basso, e in quanto è fondata sul ritmo del sangue è “anima affettiva”, in quanto è fondata sul ritmo della respirazione è “anima intellettiva”, “razionale”. Tra l’altro, la ratio ha a che fare con la sfera intermedia della parola, del linguaggio, perciò l’anima media, l’anima di mezzo, ha due formulazioni: da un punto di vista storico ci sono delle bellissime conferenze nelle quali Steiner dice che il terzo periodo di cultura, l’egizio-caldaico, era quello dell’anima senziente, mentre il quarto periodo di cultura, quello dei greci e dei romani, elabora l’anima razionale-affettiva, ma i greci sono al cento per cento in chiave di anima affettiva, e i romani sono al cento per cento in chiave di anima razionale, sebbene quest’anima razionale dei romani non sia ancora anima cosciente, perché questa incomincia nel quinto periodo di cultura, cioè nel nostro.

Quindi se vogliamo sapere in che cosa consiste l’enorme differenza tra i greci e i romani, pur appartenendo entrambi allo stesso periodo di cultura, dobbiamo comprendere i misteri della enorme differenza tra anima affettiva e anima razionale che, pur potendo essere considerate un’unità, indicano due qualità diverse dell’anima: abbiamo un’anima unica con due qualità completamente diverse.

Tornando ai sensi, abbiamo detto che nell’udito siamo nel corpo eterico, nel calore siamo nel corpo senziente, nella vista abbiamo l’esperienza dell’anima senziente, nel gusto abbiamo i fenomeni dell’anima affettiva e razionale, e l’olfatto è l’elemento specifico dell’anima cosciente.

Intervento: Ci sono molte varietà di odori.

Archiati: Platone, nel Timeo, distingue sette specie di odori. La lingua greca aveva sette parole diverse per sette tipi di odori diversi, noi oggi, invece, abbiamo un linguaggio molto più povero. Lo stesso vale per il gusto: sempre nel Timeo, Platone distingue sette gusti fondamentali. Anche il nostro linguaggio è più ricco rispetto al gusto: abbiamo il gusto dolce, amaro, salato, acido. In passato c’era più coscienza, anche se atavica, delle qualità del gusto e dell’olfatto, e nelle scuole misteriche si era aiutati a porvi attenzione; avendo noi, oggi, perso questa conoscenza iniziatica, dobbiamo riconquistarcela a partire dalla libertà individuale, comunque ora siamo in una fase di povertà.

Proseguendo con i sensi abbiamo poi l’equilibrio, che è la controparte corporea del Sé spirituale, il senso del movimento, che è la controparte corporea dello Spirito vitale, per cui nel mistero del movimento c’è un preannuncio, a livello corporeo, dell’esperienza dello Spirito vitale, e nel senso della vita c’è un preannuncio, a livello corporeo, dei misteri dell’Uomo spirituale.

Quindi, siamo partiti dal senso del pensiero, che, con il senso dell’Io, ci dà l’esperienza del Cristo, poi facciamo l’esperienza dell’Arcangelo e del corpo fisico, quindi l’esperienza dell’Angelo e del corpo eterico, del corpo senziente, dell’anima senziente, dell’anima razionale, dell’anima cosciente, del Sé spirituale, dello Spirito vitale e, nel senso della vita e del tatto insieme, abbiamo l’esperienza dell’Uomo-spirito: il ciclo si è chiuso. (Fig. 20).

Nell’esperienza dell’Arcangelo (senso del linguaggio) abbiamo il corpo fisico: quando si ascolta l’altro che parla si ha la percezione di un linguaggio umano e, al contempo, la percezione della casa fisica dell’essere umano, dentro alla quale l’essere umano parla. Si potrebbe fare uno studio di tutte le conferenze di Steiner sui sensi, ma quelle tradotte in italiano sono meno della metà, forse un terzo. Vi avevo detto che là dove l’argomento diventa troppo complesso, si rischia di entrare nell’astrazione; però sono convinto che se, ad esempio, si studia Teosofia e si cerca di capire, sempre meglio, cos’è il corpo senziente, cosa non facile, salta fuori l’indicazione che i fenomeni calorici sono privilegiati per fare l’esperienza del corpo senziente: certo non si arriva subito a capire tante cose, però il fatto stesso che si decide di entrare in questo fenomeno con dedizione, con amore, fa sì che, a poco a poco, esso si dischiuda, perché queste realtà spirituali vogliono venirci incontro.

Se si considerano anche lo Spirito Santo, il Figlio e il Padre, abbiamo che nel senso del calore siamo uniti con il Padre, nel senso del colore con il Figlio, nel gusto con lo Spirito Santo, e dall’olfatto in poi con Serafini, Cherubini e Troni, quindi con Dominazioni, Virtù e Potestà, ed infine si ritorna ai Principati, agli Arcangeli e agli Angeli (fig. 21).

Tornando a considerare il corpo senziente, si hanno, quindi, tre elementi nei quali entrare con la meditazione: ci si può congiungere interiormente con il Padre, e per questo non c’è bisogno di capire interiormente tutti i suoi misteri, perché, se lui c’è, accoglierà il nostro desiderio di metterci in contatto con lui, facendoci entrare nei misteri del calore e del corpo senziente.

Intervento: Il fatto che oggi, secondo Steiner, andiamo verso un distacco del corpo eterico dal corpo fisico, ha delle ripercussioni sui sensi?

Archiati: Prendiamo l’esempio del movimento e del processo vitale della crescita. La crescita è uno dei sette processi vitali e il movimento è una delle dodici percezioni sensorie: quando l’essere umano era maggiormente incarnato, nel periodo centrale dell’evoluzione della terra, c’era un parallelismo assoluto tra il dodici e il sette, ora, invece, che siamo un pochino oltre la metà dell’evoluzione, incominciamo a separare i fenomeni eterici da quelli fisici, cioè incominciamo a viverli separatamente. Ciò significa che, andando avanti nell’evoluzione, saremo sempre più in grado di vivere distintamente le percezioni sensibili ed i processi vitali, saremo sempre più in grado di distinguere ciò che in noi è movimento interiore, a livello di percezione sensibile, e ciò che in noi è crescita, in quanto processo vitale dell’organismo. Nei fenomeni di crescita abbiamo una corrente eterica che è una corrente vivente di metamorfosi, nel movimento c’è una realtà fisica statica. Nelle ultime conferenze di Antropologia si parla dell’insieme delle forze degli arti che ci permettono il movimento: si tratta di forze vitali o di forze meccaniche?

Se riusciamo a separare ciò che è eterico, possiamo dire che sono forze puramente meccaniche. Se riuscissimo a costruire un meccanismo fondato sul principio della leva, senza ossa e muscoli, un meccanismo complessissimo, un robot, che fosse così perfetto da fare i nostri stessi movimenti, dove sarebbe la differenza? Non ci sarebbe differenza, se non per il fatto che noi sapremmo che, oltre al fenomeno meccanico, c’è il corpo eterico che aggiunge la vita, che ci dice che noi, ad esempio, siamo viventi. Se fossi seduto davanti ad un palcoscenico e vedessi passare, uno dopo l’altro, due individui, di cui uno è un robot, come potrei distinguerli? Percependo, oltre al movimento, l’Io dell’altro, e nell’Io dell’altro, oltre al corpo fisico, si colgono anche il corpo astrale e il corpo eterico. Le cose si complicano se al nostro esempio aggiungiamo un terzo elemento, cioè se facciamo passare prima un robot, poi un sonnambulo e, infine,’ un uomo sveglio. Come facciamo, adesso, a distinguerli? Fondamentalmente ciò che si percepisce in presenza di un essere umano, purché non sia troppo lontano, perché in quel caso non si distingue nulla, ciò che ci avvolge sono le forze del karma: questa è la percezione dell’Io altrui. Di fronte ad un robot, se si fa attenzione alla percezione, ci si rende conto di non avere la percezione dell’Io altrui. Con il sonnambulo si ha una percezione di paura, perché l’Io dell’altro, con il suo corpo astrale, ci investe più fortemente, perché è fuori del suo corpo fisico e si muove liberamente nello spazio. Quindi, riassumendo: con il robot non si sente nulla, con l’essere umano si sente il mistero del karma, e con il sonnambulo si ha paura perché la sua realtà astrale ci invade in modo disumano, si ha paura che ci porti via il nostro Io, la nostra autonomia.

Intervento: Perché, invece, non abbiamo paura di fronte ad un uomo che dorme e che ha ugualmente l’astrale e l’Io fuori dal corpo fisico?

Archiati: Un aspetto fondamentale del sonnambulismo è che, in questo fenomeno, si ha una revoca della legge di gravità, perché quando l’eterico è dentro il corpo fisico non salta da un tetto all’altro, tanto è vero che non si può richiamare il sonnambulo mentre sta saltando, perché cadrebbe giù e morrebbe. Quindi, il sonnambulo fa paura perché annulla la legge di gravità, e invece di fare incarnare il corpo nella pesantezza della terra, lo afferra e gli conferisce una forza antigravitazionale, tanto da fargli perdere peso: perciò, il sonnambulismo è l’opposto del gesto incarnatorio, è un imprimere alla materia fisica una forza antigravitazionale, e questa negazione della decisione cristica globale di fare della terra il proprio corpo ci investe, e ne dobbiamo aver paura, perché la forza globale dell’Io umano, che imita l’Io del Cristo, è quella di amare la terra e, quindi, di volere questa gravità dentro lo stato incarnato, per redimere la terra. Nel sonnambulo l’Io e il corpo astrale operano da fuori e afferrano il corpo eterico in un modo tale che il corpo eterico sospende la legge gravitazionale del corpo fisico.

Intervento: Se vedessimo due scimpanzé, uno vero e l’altro finto, come potremmo distinguerli, visto che l’animale non ha l’Io?

Archiati: Quando siamo di fronte ad un animale, dobbiamo sospendere il senso dell’Io, il senso del pensiero, il senso della parola e il senso dell’udito, supponendo che l’animale in questione non emetta suoni particolari, perché questi sensi sono specifici per la percezione dell’altro essere umano. Dobbiamo escludere anche i quattro sensi che servono alla percezione di stati del mio corpo, quindi si percepiscono tutte le altre cose fuori di noi con i rimanenti quattro sensi, cioè si percepiscono qualità di calore, di colore, gustative e olfattive. Perciò, di fronte ad un animale si ha un’esperienza animica, quando si percepisce se stessi si ha un’esperienza corporea, e quando si percepisce un altro essere umano si ha un’esperienza spirituale.

Intervento: Come si spiega la paura che si può avere di fronte ad una persona morta?

Archiati: Il cadavere è un corpo fisico? Il corpo fisico è tale finché è compenetrato dal corpo eterico, inabitato dal corpo astrale e condotto dall’Io; ora, se l’Io e il corpo astrale sono fuoriusciti e tutte le correnti del corpo eterico si sono tirate fuori, quello che resta non è più un corpo fisico, quello che resta è un inganno, una menzogna, perché questa realtà del corpo fisico mi si presenta come se potesse stare da sola, ma questo non è possibile, perché o c’è tutto il resto o il corpo fisico deve sparire, decomporsi; se il corpo fisico si perpetua a questo livello di menzogna, abbiamo il fenomeno della mummia. La mummificazione, nell’epoca egizia, è stata il presupposto del materialismo, che doveva svilupparsi nel quinto periodo di cultura postatlantico (sappiamo, infatti, da Steiner che i fenomeni del terzo periodo postatlantico si ripetono, a livello di rispecchiamento, nel quinto periodo). Per aiutare l’essere umano ad incarnarsi sempre di più, si è perpetuata, in chiave di illusione, la forma del corpo fisico, che esiste soltanto quando è inabitata dal corpo eterico, dall’astrale e dall’Io: ecco il perché della paura di fronte al cadavere. Il fenomeno della mummia, poi, è un fenomeno occulto di estrema complessità, e due ne sono gli elementi fondamentali: da una parte ci sono le spezie usate per mummificare, dall’altra i mantram, recitati dai sacerdoti, e attraverso questi mantram sono passati i pensieri, che volevano perpetuare il corpo umano, destinato, invece, a morire.

Perché quando ci si avvicina ad una mummia si muore nel giro di poche ore? Steiner dice che il veleno non proviene dagli odori, che si sprigionano dalla mummia, ma proprio dai pensieri avvelenati che sono stati immessi nella mummia insieme alle sostanze necessarie per la mummificazione.

Vediamo, adesso, alcuni elementi fondamentali della decima conferenza di Antropologia, che riguarda il mistero della forma umana (fig. 22).

Abbiamo la testa che è rotonda, che è chiusa in se stessa (a), poi il tronco in forma di spicchio lunare visibile (b) di un cerchio che, per la maggior parte è invisibile (c), invece negli arti (d) s’inverte il mistero della forma, essi non sono una parte della sfera, ma sono raggi di una sfera ancora più grande (e). Nella sfera della testa non c’è nulla da aggiungere, è tutto già dato ed è di natura corporea; nella sfera del tronco dobbiamo considerare anche la parte invisibile, che è di natura animica, così che in questa sfera abbiamo corpo ed anima insieme, e qui abbiamo i quattro sensi centrali: il tronco funge da cassa di risonanza per le sensazioni vere e proprie, perché le sensazioni del calore, del colore, del sapore e dell’odore, vivono nell’anima. Il centro della sfera del tronco si trova fuori della parte corporea, e l’irraggiamento ulteriore di questo centro costituisce l’aura umana, che avvolge tutto il corpo (tendendo le braccia in avanti avremmo, più o meno, il raggio dell’aura). Negli arti, oltre alla realtà corporea ed animica, abbiamo quella spirituale. Quindi abbiamo una sfera piccola della testa, che è soltanto corporea, una più grande, la sfera del tronco, che è animico-corporea, dove si svolge il mistero dell’interazione tra anima e corpo, ed infine, la sfera degli arti, dove si svolge il mistero dell’interazione tra corpo, anima e spirito: qui i fenomeni avvengono a livello di spirito, trapassano nell’anima e si comunicano alla realtà corporea. E quali sono i fenomeni spirituali che riguardano gli arti?

E’ il karma. Nel karma siamo congiunti con tutte le gerarchie celesti, con tutto il cosmo, in quanto questa sfera degli arti è senza limiti, è dappertutto, e si sposta sempre: il centro della sfera del karma è, di volta in volta, là dove il karma ci chiama. Se si deve incontrare una persona, le nostre forze karmiche si incentrano su di essa; se il centro della sfera del nostro karma, nei prossimi cinque minuti, è in un dato punto, questo punto attira tutti i nostri sensi: perciò non è vero che noi “vediamo” le cose a caso o “annusiamo” le cose a caso. Le percezioni dei sensi, di tutti e dodici i sensi, non avvengono mai a caso, ma si orientano venendo richiamate, calamitate dalle forze dell’Io. Il nostro Io è sempre là dove il karma ci chiama, e, da quel punto di osservazione cosmica, attira in senso reale, non metafisico, tutta l’attenzione dei nostri sensi. Nessun essere umano getta mai uno sguardo a caso: il caso è un’invenzione di chi non sa come stanno le cose, nel mondo del karma il caso non esiste. Nel capo, dunque, abbiamo soltanto la realtà corporea, con il centro all’interno; nel tronco abbiamo soltanto uno spicchio di natura corporea e il resto è di natura animica; nelle membra siamo in chiave di spiritualità, c’è il mistero della volontà, siamo quindi in chiave di responsabilità morale. Si può anche dire che nella testa siamo in chiave di vero e di falso, nell’anima siamo in chiave di bello e di brutto, e negli arti siamo in chiave di bene e di male. In questa stessa conferenza Steiner parla del Concilio di Costantinopoli, nel quale venne abolito lo spirito, e si decise che l’essere umano è corpo ed anima; con questo fu abolito il mistero del karma, il mistero dell’Io, la dimensione spirituale dell’Io.

Dicendo che l’essere umano è composto di corpo e di anima si è perso il mistero dello spirito in quanto mistero del karma, in quanto mistero dell’Io superiore, e si è persa l’immortalità individuale, perché l’anima (posseduta anche dall’animale) implica un’immortalità di gruppo, non individuale. Nel cristianesimo tradizionale si parla di immortalità, ma siccome non è riconosciuta l’individualità dell’Io spirituale, che ha un karma individuale, di fatti si tratta di un’immortalità di gruppo, come quella degli animali, perché del cane che muore sparisce il corpo fisico, ma l’anima di gruppo del cane continua a vivere. Ha senso parlare di immortalità umana quando comprendiamo ciò che è specificamente umano dell’immortalità, cioè l’individualità.

Intervento: Si può dire che si fa l’esperienza del karma solo nella misura in cui si incontrano, attraverso i sensi spirituali, che sono anche sociali (Io altrui, pensiero e linguaggio), tutti gli altri esseri umani?

Archiati: Certo, esiste forse un karma che ha a che fare soltanto con me? No, perché il karma è pura socialità: soltanto nell’illusione rappresentativa del mio Io, che sorge nella testa, io mi tiro fuori dal mondo, ma quest’illusione è necessaria, perché serve a darci il sentimento dell’Io. Il sentimento dell’Io sorge dapprima in chiave egoistica, di illusione, l’illusione di essere diversi dagli altri, staccati dagli altri; quando poi, in base agli altri sensi, si scopre il mistero del Karma, ci si rende conto che facciamo tutti parte della stessa realtà unica. Il karma è un mistero di pareggio, e il pareggio con chi lo si fa? Con gli altri, con chi mi ha sottratto qualcosa, con colui al quale ho fatto un torto, al quale ho procurato una sofferenza ecc. Quindi il karma è sempre socialità, e non solo tra esseri umani, ma tra tutti gli esseri, tra gli Angeli, gli Arcangeli ecc.

Ora cercherò di enucleare alcuni aspetti della dodicesima conferenza di Antropologia. Qui viene riportata questa triade fondamentale dell’essere umano, che ci viene presentata sempre di nuovo in chiave di sistema neuro-sensoriale, e la parola “sensoriale” ci dice che abbiamo a che fare con il mistero dei dodici sensi, con la realtà dei dodici sensi, soprattutto concentrati nella testa. Poi abbiamo una seconda grande zona, che è quella del tronco, dove c’è l’elemento ritmico della respirazione e della circolazione del sangue, con tutto ciò che le accompagna (la nutrizione, per esempio, fa parte del sangue, in quanto gli fornisce il materiale di cui esso ha bisogno per ricostituirsi sempre di nuovo). Poi abbiamo un terzo tipo, un tutt’altro modo di funzionare dell’essere umano, che si differenzia dagli altri due, ed è il sistema del metabolismo, del ricambio. Quindi abbiamo:

I Sistema neuro-sensoriale – Testa – Pensare

II Sistema ritmico – Tronco – Sentire

III Sistema metabolico – Arti – Volere

La testa, con tutta la realtà dei nervi e dei sensi, fa da sostrato a tutto ciò che è pensiero, a tutto ciò che è conoscenza. Negli arti, dove l’elemento osseo s’involge (nella testa l’elemento osseo è fuori e tutto il resto è dentro, invece negli arti l’elemento osseo è al centro e i muscoli, i nervi, l’elemento carneo, sono fuori), negli arti abbiamo tutto ciò che ha a che fare con la volontà, cioè il comportamento umano, le azioni umane, l’orientamento nel mondo: abbiamo, da un lato, i piedi che ci portano in chiave di intuizioni karmiche, di ideali da conseguire, gli arti inferiori ci portano sul posto dell’evento karmico che ci aspetta, e le mani e le braccia ci servono a compiere ciò che, in quel luogo, siamo chiamati a fare. Ecco la strutturazione karmica degli arti: la posizione eretta è la prima cosa che il bambino acquisisce, per poter andare dove il karma lo chiama, e compiere, grazie alle braccia e alle mani, ciò che l’Io superiore si è proposto per acquisire aspetti, dimensioni sempre nuove dell’essere umano. Tra il pensiero e la volontà abbiamo il sentimento, che va nelle due direzioni, abbiamo un sentimento di rimando dalle azioni che noi compiamo, in chiave di soddisfazione o di insoddisfazione rispetto a ciò che abbiamo compiuto, ed un sentimento in chiave di coscienza, di pensiero, che ci serve per valutare quello che abbiamo fatto.

Possiamo pensare questi tre sistemi legati l’uno all’altro in una lemniscata, dove si passa ogni volta per il sentimento (fig. 23).

Ciò che afferriamo con il pensiero, se è qualcosa di vero, produce in noi gioia, con la gioia ci viene il desiderio di congiungerci sempre più profondamente con questo elemento e quindi, di compierlo, di attuarlo, di entrarci dentro con tutto il nostro essere in chiave volitiva, operativa. Se diciamo che pensiero, sentimento e volontà costituiscono l’interiorità dell’essere umano, vediamo che questi si unisce con il mondo esterno tramite l’azione, dal lato della volontà, e, dal lato del pensiero, tramite le percezioni, e qui sono chiamati in causa tutti e dodici i sensi, attraverso i quali il mondo esterno entra nel mio essere e si trasforma in pensiero, anzi, più precisamente, in concetto, perché la prima cosa che il pensiero elabora sono i concetti. Quindi, dal lato del pensiero, il mondo esterno entra dentro di me dalla porta della percezione, e, dal lato della volontà, l’interiorità del mio essere si trasfonde nel mondo esterno, attraverso la porta dell’azione. Tra la percezione del contenuto del mondo esterno e l’azione che ritrasforma il mondo esterno, c’è l’interiorità umana, in triplice chiave di pensiero, sentimento e volontà. Se questa interiorità umana, che è animico-spirituale, la riferiamo al sostrato corporeo, abbiamo un sostrato neuro-sensoriale, centrato soprattutto nella testa, per tutto ciò che è facoltà pensante; un sostrato di ritmo per tutto ciò che ha a che fare con il sentimento; e un sostrato corporeo di arti, di metabolismo, il quale alimenta, sempre di nuovo, le forze degli arti, in modo che gli arti sviluppino impulsi volitivi e li mandino ad esecuzione attraverso l’azione. Quindi, riassumendo, abbiamo il sistema neuro-sensoriale, il sistema respiratorio-circolatorio e il sistema del ricambio e degli arti; a questa triade, che viene sempre variata nelle conferenze di Antropologia, nella dodicesima conferenza si aggiunge un nuovo elemento di estrema importanza, e cioè il riferimento ai tre regni della natura, i tre regni infraumani: 1) il regno animale, 2) il regno vegetale e 3) il regno minerale.

Questo riferimento, di cui indicherò alcuni aspetti fondamentali, è molto interessante, perché Steiner, parlandoci del rapporto tra il mistero della testa e il regno animale, tra il mistero del tronco e il regno vegetale, tra il mistero degli arti e il regno minerale, da un lato ci spiega come, nel corso dell’evoluzione, l’essere umano ha dovuto estromettere da sé gli animali, le piante e i minerali, e dall’altro ci spiega cosa diventa possibile nella testa, grazie al fatto che abbiamo buttato fuori da noi gli animali, cosa è poi umanamente possibile nel tronco grazie al fatto che abbiamo buttato fuori di noi le piante, e cosa diventa, infine, possibile per noi, in chiave di arti, grazie al fatto che abbiamo buttato fuori di noi i minerali, perché sia i minerali, sia le piante, sia gli animali, all’inizio, erano dentro l’essere umano. Così, veniamo a comprendere che l’evoluzione futura dell’uomo consisterà nel riumanizzare, cioè nel reinserire tutto il mondo animale dentro l’essere umano, attraverso la cruna dell’ago della testa, nel reinserire dentro l’essere umano, attraverso la porta del tronco, tutto il mondo vegetale, e nel riprendere (ed è poi la redenzione globale dell’essere terrestre, la resurrezione della carne) dentro l’essere umano tutto il mondo minerale, che verrà riassunto dentro le forze karmico-volitive dell’uomo e di tutta l’umanità, in chiave di arti. In questa conferenza, diretta ai futuri pedagoghi, Steiner si concentra sul modo attuale di interagire tra le forme animali e ciò che avviene nella testa, tra le forme vegetali e ciò che avviene nel tronco, e tra tutte le forze che costruiscono i cristalli e ciò che avviene negli arti, indicando questo triplice cammino di umanizzazione di tutti i regni infraumani, tenendo presente che esso comporta, parallelamente, il reinserirsi gli uni dentro agli altri di tutti gli esseri umani, che formeranno un corpo solo, che è poi il corpo risorto del Cristo.

Quindi, parallelamente al fatto che tutti i regni infraumani ridiventeranno umani, verrà anche vinta l’illusione che ci fa percepire gli uni staccati dagli altri, e giungeremo a percepirci, sempre di più, gli uni dentro agli altri, per cui tutta la natura costituirà la corporeità dell’uomo, e l’umanità intera costituirà la corporeità del Cristo.

Prima di arrivare agli aspetti fondamentali che Steiner descrive qui, devo dirvi che io stesso mi considero agli inizi di questi approfondimenti, e dal momento che nel mese prossimo sarò in un centro di coltivazione biodinamica, vicino a Chicago, dove mi hanno chiesto di parlare dei misteri della terra, dell’evoluzione dell’essere umano in chiave di amore alla terra, al minerale, al vegetale e all’animale, mi sono proposto di approfondire alcune conferenze di Steiner, fra cui anche questa di cui stiamo parlando e mi sono reso conto che i misteri conoscitivi sono molto più ardui di quanto io avessi pensato. Perciò mi preme solo indicarvi delle piste di lavoro, perché la prospettiva di una conferenza come questa è enormemente ampia. Dunque, rispetto alla testa Steiner ci dice che essa ha la tendenza a costruire delle forme, e le forme che la testa tende sempre a far sorgere sono quelle di tutto il mondo animale. Dobbiamo essere grati agli altri due elementi, quello del tronco e quello degli arti, per il fatto che queste forme animali vengano sempre di nuovo sciolte, altrimenti esse tenderebbero a mineralizzarsi, cioè a divenire forme animali intrise di materia minerale, come avviene realmente per gli animali fuori di noi, che sono, infatti, forme astrali intrise di materia minerale, e per questo sono visibili. La nostra testa, in quanto solo testa, ha la tendenza a produrre tutte le forme animali, e vorrebbe intriderle di materia minerale in modo che siano forme di una certa costanza (la forma di un leone non è costante in modo assoluto, ma ha una certa costanza, non è una forma in totale metamorfosi come quelle eteriche), ma grazie al tronco e agli arti, che rimandano verso la testa forze di dissolvimento, queste forme animali che hanno la tendenza a mineralizzarsi, si sciolgono e restano i pensieri, resta la conoscenza, abbiamo forme conoscitive: perciò tutti i nostri concetti, in fondo, sono variazioni di forme animali, e non di forme vegetali. Perciò, in un certo senso, l’essere umano è tale proprio per il fatto che, invece di ricadere al livello animale, egli va verso una dimensione di altra natura, egli va, grazie al tronco e agli arti, verso la dimensione del pensiero, cioè verso la dimensione delle forme che non si intridono di materia, ma restano puramente pensate, e non diventano forme animali, ma concetti umani. Molto interessante è, poi, l’interazione che avviene tra il tronco e il mondo vegetale.

Consideriamo il tronco dai due lati fondamentali della respirazione e della nutrizione, che sono i suoi due ritmi specifici. Nella respirazione compiamo il processo polarmente opposto a quello vegetale: inspiriamo ossigeno e, congiungendolo con il carbonio, lo trasformiamo in anidride carbonica, poi, non avendo la possibilità, per nostra fortuna, di elaborare al nostro interno questa anidride carbonica, la espiriamo. La pianta fa l’opposto: inspira, assimila nella sua corporeità l’elemento del carbonio, ne fa la corteccia, ed espira ossigeno. Quindi, nella respirazione, l’essere umano compie, nel suo tronco, l’opposto di ciò che fa il mondo vegetale: e per questo, per permettere all’uomo di compiere questo atto, è stato necessario estromettere dall’essere umano la pianta, che fa l’opposto di ciò che fa l’uomo. Il regno vegetale è sorto per dare all’uomo la possibilità di respirare: ecco il sacrificio cosmico-evolutivo del mondo vegetale. Quindi tutto ciò che l’essere umano compie, grazie alla respirazione, non sarebbe stato possibile se non avesse estromesso da sé una dimensione del cosmo, che sintetizza, assimila il carbonio, ed emette ossigeno.

Per quanto riguarda la nutrizione, noi non compiamo l’opposto della pianta, non abbiamo dentro di noi tutto il processo della pianta, da quando sboccia alla maturazione del frutto, fino alla marcescenza: mancano il processo del sorgere, dove la vita è incipiente, e il marcire, il termine dell’arco. (Fig. 24)

Il “marcire” è una parola che ha dentro di sé la parola “morte”, quindi il marcire è il morire dell’arco vitale della pianta. All’essere umano, nel processo del tronco, è concesso di partecipare soltanto alla fase mediana, infatti la frutta acerba l’essere umano non può mangiarla, perché non va bene per la nutrizione, e quando il frutto comincia a marcire, quando entra nel fenomeno della decomposizione, della combustione, quando va oltre la maturazione, anche allora l’uomo non può mangiarla. Per cui l’uomo mangia la frutta matura e quando, dentro il suo organismo, questa frutta è portata al punto di marcire, deve uscire dall’organismo. Io, adesso, mi fermerei qui, ma la domanda che qui comincia è questa: che cosa significa, in termini evolutivi, che cosa viene concesso all’essere umano, in chiave evolutiva, grazie al fatto che non è costretto lui a fare dentro di sé tutto questo processo che fa la pianta? In altre parole sorge la domanda: quali mete evolutive vengono concesse all’essere umano grazie al fatto che è capace di nutrirsi? Fra l’altro, risulterebbe anche da queste considerazioni che il nutrimento vegetale è quello giusto per l’essere umano, e che il nutrimento animale non è quello giusto per l’essere umano, perché il nutrimento vegetale comprende l’elemento minerale, ma non comprende l’animale: gli animali sono previsti per il pensiero, non per la parte del tronco, dove c’è la respirazione e la nutrizione. Rispetto al terzo elemento, quello degli arti, Steiner fa una considerazione che noi abbiamo anticipato un pochino oggi, quando abbiamo parlato del robot e del sonnambulo: dice che, attraverso gli arti noi esplichiamo delle forze. Se io ho una leva ed applico delle forze che cosa succede? Proprio ciò che accade nel movimento degli arti. Steiner dice che se avessimo la possibilità di fotografare una persona che cammina lasciando da parte tutto ciò che è elemento minerale, avremmo un insieme di forze: questo insieme di forze è della stessa natura delle forze che, nel cosmo, formano il cristallo, cioè è della stessa natura del mondo minerale. Non abbiamo più, qui negli arti, la dimensione animale, e nemmeno quella vegetale, la dimensione della crescita, ma abbiamo tutto un altro mondo di forze di natura fisica, forze dinamiche, di elettricità, di magnetismo, di gravità ecc., un insieme di forze che ci fanno capire il mistero del movimento, non della crescita vitale della pianta, ma del movimento dinamico che sposta, o del movimento dinamico che solleva ecc.. Questo “corpo di forze”, come lo chiama Steiner, è il campo delle forze dinamiche del karma, e si serve delle braccia e delle gambe come se fossero leve ed assi per agire, in altre parole la mia mano, il mio braccio, vengono sempre condotti dall’Io, dall’Io superiore; a livello di Io inferiore si ha la percezione, si diventa consapevoli di questo fatto, ma il fatto stesso, cioè colui che lo attua è sempre l’Io superiore, perciò il karma è sempre un corpo di forze dinamiche, che è della stessa natura delle forze che costituiscono il minerale, sono forze direzionali, sono forze che sollevano, che tirano, che avvicinano, che allontanano: ecco, prendiamo l’immagine dell’avvicinare e dell’allontanare, non deve trattarsi necessariamente dell’innamoramento o dell’amicizia, ma cosa sono queste forze che, in campo di arti, fanno fare a due persone migliaia e migliaia di passi finché, a vent’anni, si incontrano? Queste forze dinamiche sono della stessa natura di quelle del mondo minerale.

Si potrebbe dire che il mondo minerale rappresenta le forze volitive delle gerarchie spirituali, il karma, e tutti i movimenti dinamici del karma rappresentano le forze volitive dell’Io superiore. Questo mondo minerale, che rappresenta le forze volitive di tutte le gerarchie spirituali, perché ci è dato? L’ho detto nella conferenza di ieri sera: ci è dato come fondamento per il karma, perché se noi non avessimo il mondo minerale, che è il mondo su cui possiamo camminare, non potremmo compiere in un modo umano, incarnato, le opere del karma.

Questo come accenno, perché la conferenza è piena di indicazioni, e sorge spontaneo il desiderio di chiedersi come è avvenuta, in chiave di evoluzione passata, l’estromissione del mondo animale, parallelamente al formarsi della testa; come è avvenuta l’estromissione del mondo vegetale, parallelamente al formarsi del tronco, nella sua duplice realtà di respirazione e di circolazione; come è avvenuta l’estromissione di tutto il mondo minerale, in quale modo le gerarchie spirituali hanno estromesso dall’essere umano tutto il mondo minerale, per fornirgli la base necessaria al movimento degli arti. E, seconda domanda, come avverrà concretamente (i compiti conoscitivi, come vedete, sono infiniti) la reintegrazione, dentro l’essere umano, del regno animale in chiave di cammino conoscitivo, in che modo avverrà la reintegrazione del regno vegetale dentro l’essere umano in chiave di cammino di amore, e in che modo avverrà la reintegrazione, dentro l’essere umano, del regno minerale in chiave di operatività karmica. Nella misura in cui ciascuno riesce a trovare delle risposte, il parlare di Giove, il parlare di terra nuova, il parlare di risurrezione della carne, il parlare di Cristo risorto, diventerà sempre di meno astratto e si riempirà sempre di più di contenuti, di passi evolutivi.

Intervento: In genere, quando si parla del tronco, si fa riferimento sia alla circolazione che alla nutrizione, mentre qui, in questa conferenza, la circolazione non è accennata.

Archiati: Non direttamente, però tutto il discorso della nutrizione è in funzione della rigenerazione del sangue, perché tutto ciò che noi ingeriamo va a finire nel sangue. Se prendiamo l’interazione fra l’animale e l’uomo, abbiamo il mistero del nervo; se prendiamo l’interazione fra il vegetale e l’uomo, abbiamo il mistero del sangue, per cui nella conferenza successiva Steiner riduce, per un bel pezzo, la distinzione triadica ad una polarità di nervo e di sangue, e dice, per esempio, che, in chiave di nervo, nell’ambito pedagogico le cose prive di senso impoveriscono il nervo, mentre il fare cose piene di significato rigenera il nervo. Quindi, se l’essere umano fa delle cose senza significato, fa impoverire sempre di più, fa mineralizzare, fa polverizzare sempre di più la sua sostanza di nervo; mentre se fa delle cose con entusiasmo si rigenera, in chiave di sangue. L’entusiasmo rigenera il sangue e la pienezza di significato rigenera il nervo. Nell’ultimo paragrafo della tredicesima conferenza, Steiner dice che dobbiamo spiritualizzare il lavoro verso l’esterno e dobbiamo rivitalizzare, rinsanguare (durchbluten) il lavoro intellettuale, il lavoro verso l’interno. In questo senso potremmo dire che dove Steiner parla della respirazione si riferisce maggiormente all’interazione fra testa e tronco, e dove parla della nutrizione si riferisce direttamente all’elemento del sangue con l’interazione tra tronco ed arti.

Intervento: Non ho capito perché la testa tende a formare solo forme animali, di solito tendiamo a sperimentare il pensiero come una pianta…

Archiati: Steiner dice che, se non intervenissero il tronco e gli arti, la testa genererebbe soltanto forme animali, ma siccome intervengono il tronco e gli arti, ci viene concesso di rendere le forme astratte. Queste forme acquisiscono un carattere di immagine speculare e, diventando morte, possono diventare anche vegetali e minerali; se non intervenissero gli arti e il tronco, queste forme resterebbero vitali, sarebbero tutte forme animali, ma non forme animali speculari, questo è il problema, e quindi porterebbero dentro alla testa realmente, dinamicamente la presenza di animali, una testa di volpe, una testa di lupo ecc. Se c’è il mal di testa è perché gli arti e il tronco non riescono a sciogliere le forme della testa, perché, non essendo sufficiente il lavoro di sciogliere le forme, queste forme tendono a mineralizzarsi dentro alla testa, e scoppia il mal di testa.

Intervento: Come si può potenziare questo lavoro di scioglimento?

Archiati: Bisogna riandare alla conferenza precedente, dove Steiner parla degli arti, e ci dice che, avendo la concezione cattolica abolito la dimensione del karma, dello spirito, dell’Io, cioè il mondo degli arti, è sorta una pedagogia, quindi un’idea della formazione del bambino, in chiave intellettuale; in altre parole, noi abbiamo una formazione che rende l’essere umano molto meno dinamico di quello che potrebbe essere, un parassita osservatore del mondo, e questo si nota chiaramente. Invece, con una pedagogia sana, con una pedagogia giusta per l’essere umano, salta fuori un essere molto più dinamico.

Intervento: L’entusiasmo nasce da sé o lo si può creare?

Archiati: Steiner dice che l’entusiasmo è una questione eminentemente di pedagogia, perché in un bambino educato in modo giusto le forze dell’entusiasmo, potenzialmente, ci sono, ma c’è un tipo di pedagogia che le fa morire e c’è un tipo di pedagogia che le coltiva. E la pedagogia non finisce con l’educazione del bambino.

APPENDICE

Biancaneve e Rosarossa

C’era una volta una povera vedova, che viveva sola nella sua capannuccia, e davanti alla capanna c’era un giardino con due piccoli rosai; l’uno portava rose bianche, l’altro rose rosse. E la donna aveva due bambine, che somigliavano ai due rosai: l’una si chiamava Biancaneve, l’altra Rosarossa. Erano così buone e pie, diligenti e laboriose, come al mondo non se n’è mai viste; soltanto, Biancaneve era più silenziosa e più dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prendere farfalle; Biancaneve se ne stava a casa con la mamma, l’aiutava nelle faccende domestiche, o, se non c’era niente da fare, le leggeva qualcosa ad alta voce. Le due bambine si amavano tanto, che si prendevano per mano tutte le volte che uscivano insieme; e se Biancaneve diceva: -Non ci separeremo mai!- rispondeva Rosarossa: -No, mai, per tutta la vita!- e la madre soggiungeva: -Quel che è dell’una, deve esser dell’altra-. Spesso le due bambine andavan sole per il bosco a raccoglier bacche rosse; gli animali non facevan loro alcun male, ma si avvicinavano fiduciosi: il leprotto mangiava una foglia di cavolo dalle loro mani, il capriolo pascolava al loro fianco, il cervo saltava allegramente li vicino, e gli uccelli restavano sui rami e cantavano tutte le loro canzoni. Alle due sorelle non capitava nulla di male: quando si erano attardate nel bosco, e le sorprendeva la notte,si coricavano sul muschio, l’una accanto all’altra, e dormivano fino alla mattina; la mamma lo sapeva e non stava mai in pensiero. Una volta, che avevano pernottato nel bosco, quando l’aurora le svegliò, videro un bel bambino seduto accanto a loro, con un bianco vestito scintillante. Il bimbo si alzò e le guardò amorevolmente, ma non disse nulla e s’addentrò nel bosco. E quando si guardarono intorno, s’accorsero di aver dormito sull’orlo di un abisso, dove sarebbero certo cadute se avessero fatto altri due passi al buio. Ma la mamma disse che certo quello era l’angelo che veglia sui bambini buoni.

Biancaneve e Rosarossa tenevan così pulita la capannuccia della madre, che era una gioia vederla. D’estate Rosarossa sbrigava faccende di casa e ogni mattina, prima che la mamma si svegliasse le metteva vicino al letto un mazzo di fiori, con due rose dei due alberelli. D’inverno Biancaneve accendeva il fuoco e appendeva paiolo; il paiolo era d’ottone, ma brillava come oro, tant’era lustro La sera, quando nevicava, la mamma diceva; Va’, Biancaneve metti il catenaccio-. Poi sedevano accanto al focolare, la mamma prendeva gli occhiali e leggeva ad alta voce un librone; e le due fanciulle stavano a sentire, filando; per terra, accanto a loro, e sdraiato un agnellino, e dietro, su un bastone, c’era un piccioncino bianco con la testa nascosta sotto l’ala.

Una sera, mentre se ne stavano tutt’è due insieme, qualcuno bussò alla porta, come se volesse entrare. La madre disse: -Svelta, Rosarossa, apri: sarà un viandante che cerca ricovero-. Rosarossa andò a levare il catenaccio e pensava che fosse un povero; ma invece era un orso, che sporse dall’uscio la sua grossa testa nera. Rosarossa strillò e fece un salto indietro, l’agnellino belò, il piccioncino svolazzò, e Biancaneve si nascose dietro il letto della mamma. Ma. l’orso si mise a parlare e disse: -Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio soltanto scaldarmi un po’ con voi. – Povero orso,- disse la madre, -mettiti vicino al fuoco e bada soltanto di non bruciarti il pelo-. Poi gridò: -Biancaneve, Rosarossa, venite fuori! L’orso non vi farà niente, non ha cattive intenzioni. Allora s’avvicinarono entrambe; e a poco a poco si accostarono anche l’agnellino e il piccioncino, e non ne avevano più paura. L’orso disse: -Bambine, scuotetemi un po’ di neve dalla pelliccia!- ed esse andarono a prender la scopa e gli spazzarono il pelo; e l’orso si sdraiò accanto al fuoco, e mugolava, contento e soddisfatto. Non andò molto che fecero amicizia, e le bimbe si misero a fare il chiasso con l’ospite maldestro. Gli tiravano il pelo con le mani, gli mettevano i piedini sulla schiena e lo spingevano di qua e di là; o prendevano una verga di nocciolo e lo picchiavano, e quando mugolava ridevano. L’orso s’adattava a tutto; soltanto, quando passavano il segno, gridava: -Lasciatemi vivere, bambine! – O Biancaneve, e tu, Rosarossa, al pretendente scavi la fossa.

Quando fu tempo di dormire e le bimbe andarono a letto, la madre disse all’orso; -Resta qui, accanto al fuoco, in santa pace: cosi sei protetto dal freddo e dal brutto tempo-. Appena albeggiò, le due bambine lo fecero uscire ed egli entrò nel bosco, trottando sulla neve.

E poi, tornò ogni sera, alla stessa ora: si sdraiava accanto al focolare e permetteva alle bambine di prendersi spasso di lui fin che volevano; ed esse ci si erano così abituate, che non mettevano il catenaccio prima che fosse arrivato il loro nero amico. Quando giunse la primavera e fuori era tutto verde, una mattina l’orso disse a Biancaneve: Adesso devo andar via, e per tutta l’estate non posso più tornare. -Dove vai dunque, caro orso?- domandò Biancaneve. -Devo andare nel bosco a difendere i miei tesori dai cattivi nani: d’inverno, quando la terra è gelata, devono stare sotto e non possono farsi strada, ma adesso che il sole ha sgelato e riscaldato la terra, l’aprono a forza, risalgono, frugano e rubano. Quel che finisce nelle loro mani, nascosto nelle loro caverne non torna tanto facilmente alla luce-. Biancaneve era tutta triste per quell’addio; e quando gli aprì la porta, l’orso, passando in fretta, restò attaccato all’arpione e gli si lacerò un pezzo di pelle; e a Biancaneve parve che ne trasparisse dell’oro, ma non ne fu ben sicura. L’orso corse via in fretta e ben presto sparì dietro gli alberi. Dopo qualche tempo, la madre mandò le bambine nel bosco a coglier la stipa. Fuori videro, disteso al suolo, un grande albero, era stato abbattuto, e presso il tronco, nell’erba, qualcosa saltava su e giù, ma non potevano distinguere cosa fosse. Avvicinandosi, videro un nano con una vecchia faccia grinzosa e una candida barba lunga un braccio. La punta della barba era incastrata in una fessura dell’albero e il nano saltava di qua e di là, come un cagnolino al guinzaglio, e non sapeva come cavarsela. Egli fissò le fanciulle sbarrando i suoi rossi occhi di fuoco, e strillò: -Cosa state a fare, non potete avvicinarvi e darmi una mano? – Cos’hai fatto, omino?- domandò Rosarossa. -Stupida curiosaccia,- rispose il nano -volevo spaccar l’albero, per avere legna minuta in cucina; i ceppi grossi quei due bocconcini che occorrono a noialtri bruciano subito; noi non buttiamo mica giù tanta roba come voi, ingordi zoticoni! Ero già riuscito a ficcarci il cuneo, e tutto mi sarebbe andato benone; ma quel maledetto pezzo di legno era troppo liscio e saltò fuori all’improvviso, e l’albero si richiuse così in fretta, che non ho più potuto tirar fuori la mia bella barba bianca: adesso è lì dentro, e io non posso andarmene. Guarda come ridono quelle due poppanti! stupide facce pelate! Puh, come siete brutte!- Le bambine ci si misero d’impegno, ma non riuscirono a tirar fuori li barba: era troppo ben incastrata. -Correrò a chiamar gente!-disse Rosarossa. -Stupide pazze,- squittì il nano, -non ci mancherebbe altro! Siete gia troppe in due: non avete niente di meglio da inventare? – Non essere impaziente!– disse Biancaneve; -ci penserò io-. Trasse di tasca le sue forbicine e gli tagliò la punta della barba. Appena il nano si senti libero, afferrò un sacco pieno d’oro, che era nascosto fra le radici dell’albero, lo tirò fuori, borbottando: -Che villanzone, tagliarmi un pezzo della mia magnifica barba! Il diavolo vi porti!- Si gettò il sacco sulle spalle e se ne andò, senza neanche voltarsi a guardarle.

Dopo qualche tempo, Biancaneve e Rosarossa pensarono di andarsi a pescare con la lenza un bel piatto di pesce. Quando furono vicino al ruscello videro qualcosa che somigliava a una grossa cavalletta saltellar verso l’acqua, come se volesse buttarcisi. Accorsero e conobbero il nano. -Dove vuoi andare?- disse Rosarossa: -non vuoi mica gettarti in acqua? – Non sono così pazzo!-strillò il nano. -Non vedete? quel maledetto pesce vuol tirarmi dentro!- L’omino si era seduto a pescare, e disgraziatamente, per il vento, la barba gli si era intricata con la lenza; subito dopo abboccò un grosso pesce e la debole creatura non riuscì a sollevarlo. Il pesce aveva il sopravvento e trascinava giù il nano. Certo, egli si teneva a tutti gli steli e ai giunchi, ma serviva a ben poco: doveva seguire i movimenti del pesce e rischiava continuamente d’esser tirato in acqua. Le fanciulle arrivarono in tempo, lo tennero fermo e cercarono di districar la barba dalla lenza, ma invano: barba e lenza erano strettamente aggrovigliate. Non restò che tirar fuori le forbicine e tagliar la barba, sacrificandone un pezzettino. A quella vista, il nano si mise a strillare: -Se questa, brutti rospi, la maniera di sconciar la faccia a un individuo? Non bastava avermi spuntato la barba, adesso me ne tagliate via la parte più bella! Non posso più farmi veder dai miei! Possa vedervi correre, senza più suole ai piedi!- Poi andò a prendere un sacco di perle, nel canneto, e, senza più dir parola, se lo trascinò via e scomparve dietro una pietra.

Or avvenne che, poco tempo dopo, la madre mandò le due bambine in città a comprar filo, aghi, stringhe e fettuccia. La strada le condusse attraverso una piana, sparsa di grossi macigni. E là videro un grande uccello librarsi nell’aria, roteare lentamente sulle loro teste, poi calar sempre più basso, finché atterrò poco lontano, presso una rupe. Subito dopo udirono uno strillo acuto e doloroso. Accorsero, e videro con terrore che l’aquila aveva ghermito il loro vecchio conoscente, il nano, e stava per portarlo via. Le bimbe pietose tennero stretto l’omino; e tira di qua, tira di là, alla fine l’aquila dovette abbandonar la sua preda. Quando il nano si fu riavuto dal primo spavento, gridò con la sua voce stridula: -Non potevate trattarmi con più riguardo? Avete tirato tanto il mio giubbetto sottile che adesso è tutto lacero e bucato, sciattone e balorde che siete-. Poi prese un sacco di pietre preziose e si cacciò di nuovo nella tana, sotto le rupi. Le fanciulle erano già avvezze alla sua ingratitudine e proseguirono il cammino e sbrigarono le loro faccende in città. Al ritorno, ripassando per la piana, sorpresero il nano, che rovesciato il suo sacco di pietre preziose in un bel posticino senza pensare che a ora così tarda potesse ancora venir qualcuno

Il sole al tramonto batteva sulle splendide gemme, che scintillavano e sfolgoravano in mille colori, così meravigliosamente, le bambine si fermarono a guardarle. -Cosa fate lì, a bocca aperta?- strillò il nano, e la sua faccia color della cenere diventò paonazza dalla collera. Stava per lanciare altre ingiurie, quando si udì un cupo brontolio, e un orso nero uscì trottando dal bosco. Il nano balzò in piedi, atterrito, ma non poté più raggiungere il suo nascondiglio: l’orso era già li. Allora gridò affannosamente: -Caro signor orso, risparmiatemi! Vi darò tutti i miei tesori! guardate, belle pietre preziose! Fatemi grazia, che v’importa di un piccolo striminzito come me? Non mi sentite neanche sotto i denti. prendete piuttosto quelle due malnate ragazze, per voi son bocconi prelibati, grasse come giovani quaglie! mangiate quelle, in nome di Dio! L’orso non badò alle sue parole, non gli dette che una zampata, e quel malvagio non si mosse più.

Le fanciulle eran scappate via, ma l’orso le chiamò, gridando: -Biancaneve, Rosarossa, non abbiate paura! aspettate, vengo con voi-. Allora esse riconobbero la sua voce e si fermarono; e quando la bestia le raggiunse, la pelle d’orso cadde all’improvviso, ed ecco, egli era un bel giovane tutto vestito d’oro. -Sono il figlio di un re, disse,- e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato; e dovevo correr per il bosco sotto forma d’orso selvaggio, finché la sua morte non mi liberasse. E così egli ebbe il meritato castigo.

Biancaneve sposò il principe, e Rosarossa suo fratello, e si spartirono quei gran tesori che il nano aveva ammassato nella sua caverna. La vecchia madre visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.