Il mistero del progresso
Vladimir Solov’ëv
da Taiina progressa, traduzione dalla versione francese di Vittorio Leti Messina
Conoscete questo racconto? Un cacciatore s’era perso dentro un fitta foresta e, stanco, sedette sopra una pietra che sporgeva sulle acque d’un ampio e impetuoso torrente. Di lí si mise a scrutare nelle buie profondità dei flutti e udí, d’improvviso, il battere d’un picchio sulla scorza di un albero vicino. Il cacciatore avvertì allora un gran peso nell’anima. «Sono solo nella vita – pensò – come dentro questa foresta, ed è da gran tempo che ho perduto il mio, tra i tanti sentieri, e non ho vie d’uscita. Isolamento, fatica, morte! Ma perché sono nato, perché sono entrato in questa foresta? Che profitto trarrò da tutta la selvaggina che ho cacciato?»
In quel momento si sentí toccare una spalla. Era una vecchina tutta curva, magra, segaligna, del colore di un baccello secco o del gambale d’un vecchio e sporco stivale, con gli occhi diffidenti; aveva sul mento due ciuffi di peli bianchi; abbigliata con una veste di valore, ma frusta e a brandelli.
«Buon uomo – disse al cacciatore – dall’altra riva si può andare in un luogo che è un vero paradiso! Recandoti là potrai dimenticare tutti i tuoi dispiaceri. Però da solo non potresti mai trovarne la strada, mentre io ti ci porterei senza difficoltà; io sono di là. Occorre solamente che tu mi porti all’altra riva; io non saprei resistere all’impeto della corrente; i miei piedi si muovono appena appena, quasi non respiro piú e, morirei? Oh, come non mi tenta affatto l’idea!».
Il cacciatore aveva buon cuore. Non credeva affatto al paradiso cui aveva accennato la vecchina; non aveva per niente voglia di affrontare quel torrente gonfio e minaccioso, né era lusingato dall’idea di caricarsi la vecchia; ma quando la sentí tossire e tremare come una foglia pensò: “Non posso mica lasciare qui senza soccorso una persona cosí malandata; costei avrà certamente piú di cent’anni e avrà dovuto sopportarne assai di miserie, nella sua esistenza; occorrerà che faccia uno sforzo per aiutarla”. «Andiamo nonnina, raccogli bene tutte le tue ossa, per non seminarle lungo il cammino e non ritrovarle piú dentro l’acqua!».
La vecchia gli si aggrappò allora sulle spalle, e il cacciatore sentí all’istante gravargli addosso un peso spaventoso, come se stesse portando sul dorso una bara con un morto, tanto che poteva avanzare con grande fatica. “Mah!, andiamo – pensò tra sé e sé. – Sarebbe ormai vergognoso che mi tirassi indietro”.
Entrò nell’acqua, e ai primi passi avvertí che il suo fardello si alleggeriva di colpo e che, per ciascun passo che faceva, il trasporto gli diventava sempre piú agevole. Ebbe sentore di un prodigio e, tuttavia, continuò ad avanzare guardando dritto davanti a sé. Solo allorché era arrivato sulla riva opposta si girò e, al posto della vecchia che gli stava addosso, gli si parò davanti una fanciulla di indescrivibile bellezza.
Costei lo condusse nella sua patria, dove egli non soffrí mai piú di isolamento, e fece attenzione a non nuocere mai piú neppure ad un animale, né dovette cercare la sua strada nella foresta.
Con numerose varianti, tutti conoscono questo racconto; io lo conosco fin dall’infanzia, ma soltanto oggi ho avvertito che esso ha un senso tutt’altro che leggendario.
L’uomo dei nostri tempi ha perduto la strada maestra della vita per darsi a correre dietro a beni fuggevoli e a fantasie che sfumano al volo. Davanti a lui scorre il torrente limaccioso e impetuoso della vita. Il tempo scandisce senza pietà, come un picchio, il decorrere dei momenti perduti. Angustia e isolamento, oscurità, morte.
Ma dietro di lui stanno le sante tradizioni del passato; oh! spesso vestite di poco attraente apparenza; ma che importa? Che l’uomo pensi solo a quanto egli deve al passato; che per un moto del cuore egli veneri i capelli bianchi, che egli abbia pietà della debolezza, che egli senta vergogna di deviarsene per il fatto che appare in brutte sembianze. Che egli si sforzi di portare il sacro fardello del passato sull’altra riva del torrente della storia, invece di correr dietro a fantasie evanescenti. È per lui l’unico mezzo di uscire dall’errare, l’unico, perché ogni altro mezzo sarebbe inadeguato, iniquo ed empio: non si può lasciare senza soccorso una persona tanto vecchia.
L’uomo dei nostri tempi non crede ai racconti, non crede che le vegliarde possano mutarsi in fanciulle; non lo crede, e tanto meglio! A che pro credere ad una ricompensa futura, se occorre guadagnarsela con un vero sforzo, con un atto di sacrificio? Chi non crede nell’avvenire delle vecchie cose sacre, è costretto tuttavia a ricordarsi del loro passato. Perché non caricarsele sulle spalle per rispetto della loro antichità, per pietà del loro decadimento, per timore d’essere ingrati? Felici coloro che credono; essi sono ancora su questa riva e già vedono lo splendore di una perfetta bellezza sotto le rughe della vecchiaia. Ma anche coloro che non credono nella metamorfosi, anch’essi hanno un interesse: quello di una gioia inattesa. Per questi, come per quelli, è medesimo il dovere: bisogna andare avanti portando sulle spalle tutto il peso delle cose antiche.
Uomo del nostro tempo! Se tu vuoi essere uomo dell’avvenire, non dimenticare tra le rovine fumanti tuo padre Anchise e gli dèi della tua famiglia. Questi ebbero bisogno di un pio eroe per essere portati in Italia, ma essi soli poterono donare a lui e alla sua discendenza l’Italia, e con essa il dominio del mondo. Orbene, le nostre cose sacre sono piú possenti di quelle dei Troiani e, con esse, dobbiamo arrivare ben piú lontano che in Italia, piú lontano che ai limiti della Terra. Il salvatore si salverà. Questo è il mistero del progresso, non ce n’è e non ce ne sarà un altro.