Fare teatro a scuola

Pensieri raccolti da Andrea Scicchitani, a margine di una conversazione sul tema, febbraio 2007

 

Tutto ciò che accade lascia un segno; quel segno è la rappresentazione simbolica di un processo nel quale la vita ha manifestato se stessa: un fiore, un’orma animale, uno scarabocchio su un foglio, l’incisione rupestre in Val Camonica.

Quali e quante forze sono intervenute per far sbocciare quel fiore: la terra madre, la pioggia benedicente, le carezze del vento, la luce e il calore del sole.

L’orma animale sul terreno: di chi era, che cosa ci faceva lì, seguiva qualcosa o semplicemente si abbandonava alle necessità di un destino privo di libertà.

E lo scarabocchio sul foglio: è la prima traccia di un bimbo che lascia la sua “impronta”, o di un bimbo che cerca di dar forma alle prime immagini che si muovono nella sua anima, o forse tracce nervose di un papà durante una telefonata.

E le incisioni rupestri dei Camuni: donne, cervi, bufali, immagini a cui erano intimamente legati; la donna e la potenza meravigliosa di nascita, gli animali dei quali imitavano i versi, i gesti, le movenze e delle cui forze cercavano così di impadronirsi, per vincerli nella caccia.

E ancora potremmo chiederci di che cosa è rappresentazione l’uomo, chi è l’autore della sua biografia, chi è il regista delle sue vicissitudini sulla terra dalla nascita alla morte.

La vita tutta è in realtà una grande rappresentazione, un grande teatro, un grande gioco.

Nella scuola mettiamo in scena diversi aspetti della vita e, questa sera, vogliamo ricercarne insieme alcuni motivi pedagogici.

Una rappresentazione teatrale nella scuola è un “evento” dove si manifesta il prodotto di un processo, non ancora concluso, in divenire, perché tali sono gli uomini, grandi e piccoli; i gesti e i sentimenti di chi recita sulla scena incontrano chi si è radunato per l’occasione, ma che cosa rimane quando si spengono le luci, nell’anima di ciascuno?

Che cosa rappresenta quel momento? Viene inviato un messaggio? E quel messaggio prenderà una forma? Sicuramente l’evento teatrale accresce il senso della comunità e l’appartenenza ad essa. Dall’ antica Grecia fino ai giorni nostri, tutte le comunità hanno sempre avuto il teatro come uno dei momenti fondamentali della vita sociale.

Un ricordo

Una qualità dell’anima oggi necessaria per essere attivi nella vita e nel mondo è il coraggio: coraggio di manifestare i propri sentimenti e i propri pensieri, coraggio di confrontarsi, coraggio di cadere e di rialzarsi, coraggio di guardare negli occhi le proprie paure e affrontarle, coraggio di essere e di esserci.

Ricordo una bambina in prima elementare (ora sta concludendo gli studi in una scuola superiore); stava sempre in silenzio, durante le preghiere del mattino, la recitazione di poesie, la declamazione di filastrocche,…silenzio! Eppure i suoi occhietti erano vispi e attenti, non perdeva nulla di quanto succedeva intorno a lei. Chiacchierava poco anche con i compagni. Sembrava un simpatico riccio, sempre all’erta, ma con la bocca serrata!

A casa poi, ripeteva ad alta voce tutto ciò che aveva accolto silenziosamente in classe. Recitava le poesie, declamava le filastrocche, le conte, le tabelline e raccontava a mamma e papà i contenuti del lavoro svolto.

In seconda cominciò ad aprire la bocca e a far udire la sua voce; sosteneva la coralità della classe e si sentiva sostenuta. Nelle prime recite interpretava ruoli muti o, sempre in tono sommesso, era unita al coro. In terza mi parve pronta per sciogliere quel nodo; in una rappresentazione preparata per Carnevale, superò la prova di fronte ai soli genitori, con un grande sollievo e gioia per tutti, ma quando poi si trovò davanti a tutti i bambini della scuola, nel momento in cui doveva recitare, sola sul palco,…si pietrificò e scoppiò in lacrime.

Durante l’anno numerosi sono i momenti in cui le varie classi propongono a genitori e compagni poesie, canti, saggi d’orchestra e di euritmia, piccole e grandi rappresentazioni drammatiche. Negli anni successivi, quella bambina partecipò a tutte le attività; saliva sul palco con i compagni, recitava e cantava nel coro, suonava nell’orchestra, ma non ebbe più la consegna di proporsi individualmente davanti al grande pubblico. Fino a quando non arrivammo in ottava. Non poteva lasciare la scuola senza aver provato a superare l’ostacolo che si era presentato in passato.

Negli anni trascorsi, le diverse partecipazioni alle feste del mese, avevano rafforzato in lei il desiderio di riuscire a proporsi con il suo lavoro davanti a tutta la scuola; aveva assistito in quegli anni alle esibizioni e alle rappresentazioni dei ragazzi più grandi, a cui aveva guardato con un sentimento di ammirazione e di rispetto. Ora era lei tra i più grandi della scuola.

Uno stimolo che sicuramente la sostenne fu il fatto che la madre, non senza tormenti nel cuore per ciò che andava a compiere, decise di prendere parte alle rappresentazioni di Natale, insieme ad altri genitori e insegnanti.

Nella recita finale ebbe un ruolo con una parte impegnativa; sapevo che il contenuto che avrebbe dovuto proporre era affine alle profondità della sua anima e lo accolse volentieri.

Quando iniziammo le prove, in una grande attesa e silenzioso sostegno da parte dei compagni, le parole che uscivano dalla sua bocca non andavano oltre il suo naso, ma riuscì poi a superare brillantemente tutti gli ostacoli.

Sia alla prima rappresentazione, che dopo la replica, davanti a un folto pubblico, a lavoro concluso quella ragazza sprizzava gioia e soddisfazione, emozionata e fiera per il coronamento di un lungo impegno; si era messa in gioco e aveva verificato di potercela fare, aveva attinto alle forze e al coraggio della sua grande anima e che, finalmente, era riuscita ad esprimere.

Il ricordo del superamento di quella prova credo che potrà sostenere quella ragazza in tutte le difficoltà che si incontrano nell’esistenza.

 

La parola

Uno degli elementi fondamentali nella recitazione e nel teatro è la parola, l’uso della parola.

Oggi assistiamo a un sempre maggiore e graduale impoverimento del linguaggio.

Nanni Moretti, in “Palombella rossa” (1989), ammoniva: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti.”

Stralcio di un dialogo dal film tra una giornalista e Michele (Nanni Moretti):

– No… io non lo so, però senz’altro lei ha un matrimonio alle spalle a pezzi…
– Ma che dice?!
– Scusi forse ho toccato un argomento…
– Non è l’argomento, è l’espressione!… “Matrimonio a pezzi”…
– Preferisce “rapporto in crisi”? Però è così kitsch!…
– Dove l’è andata a prendere quest’espressione, dove l’è andata a prendere?!…
– Io non sono alle prime armi…
– “Alle prime armi”?! Ma come parla?!
– Anche se il mio ambiente è molto cheap…
– Il suo ambiente è molto … ?
– CHEAP!
– Ma come parla?!
– Senta ma lei è fuori di testa!!
– Come parla?! Come parla?! Le parole sono importanti! Come parla?!

Nella classe in cui lavoro, la V, mi è capitato di trovare bigliettini con messaggi formulati in modo strano. In un primo momento ho pensato a qualcosa di geniale, ma poi ho capito: il nostro è il paese dove, più che in altri, imperversano i cellulari, soprattutto fra i giovani. Il linguaggio indotto dai messaggini si è ridotto all’uso di acronimi o a una contrazione delle stesse parole: CMQ (comunque), CVD (ci vediamo), TVB (ti voglio bene), TVUMDB (ti voglio un mondo di bene), TAT (ti amo tanto), C SENT PREST (ci sentiamo presto), C6 (ci sei), ecc. Sta diventando un luogo comune anche fra chi non usa ancora i cellulari.

Abbiamo sempre più un’uniformazione del linguaggio; la molteplicità e la ricchezza delle diverse lingue si sta livellando; spariscono lingue e dialetti che appartengono ad antiche tradizioni e culture di interi popoli.

Il processo di globalizzazione, supportato dalla tecnologia delle telecomunicazioni ha lanciato unasfida estremamente pericolosa. La rete Internet la realizza convogliando il mondo intero verso le medesime fonti di informazione e di accesso alle sollecitazioni consumistiche e di mercato. Sollecitazioni che si traducono inevitabilmente in un comune orientamento popolare legato all’acquisto di beni e servizi, prodotti e merci forniti dalle solite multinazionali.

Il 50% delle 6.500 lingue oggigiomo esistenti al mondo rischia seriamente di estinguersi. La morte di una lingua, di un linguaggio, di un dialetto equivale alla estinzione di una civiltà, di una cultura, di un popolo; di un bene, cioè, che appartiene a tutti. Secondo le stime di esperti, alla fine di questo secolo, addirittura il 95% delle lingue attualmente esistenti potrebbero estinguersi.

Un economista, Geminello Alvi1, ci ha redarguito: “Viviamo in un inferno dove si parla inglese!”

Da un’intervista a Geminello Alvi, apparsa su “L’Unità” il3-4-2005:

E così lei ritrova la possibilità di ridare un’anima all’economia?

«A me interessa l’anima vera delle cose, non l’anima preordinata delle accademie o del tornaconto. L’anima vera è inseparata dalla vita, non c’è separatezza tra economia, pulsioni sentimentali, movente, epica e calcolo».

Lei adopera una scrittura inusuale, soprattutto diversa da quella degli economisti di professione. E’ merito delle sue passioni letterarie?

«Sono convinto che la letteratura influenzi l’economia. Quando cerchi di parlare, di scrivere un pensiero efficace, breve, chiaro, quando ti rivolgi ad altri devi costringere te stesso a non dire le cose come le direbbero gli altri e chi ti legge deve sorprendersi del messaggio che riceve. Non c’è separatezza tra chi fa scienza e chi fa il letterato. Chi scrive, chi ha la fortuna e la responsabilità di rivolgersi agli altri deve comprendere le parole, ricombinarle, usarle nel rispetto più profondo della loro etimologia. Altrimenti finiamo per vivere di slogan».

Sempre di Geminello Alvi, da “Corriere Economia”, 16-8-2001:

L’integrazione si sviluppa ancora una volta sotto l’egemonia delle potenze anglofone, che plasmano gli equilibri del mondo sulla base delle proprie convenienze. Ma i sintomi della decadenza ci sono tutti… Cronicità della fretta, nervosismo, lusso di massa, ipnosi delle mode, plebi cosmopolite, dionisismi, etiche solo umanitarie, confusioni erotiche: tutti i sintomi, da sempre, indubbi di una civiltà in regresso, o che perlomeno si disgrega…

L’Impero Universale ormai esiste e parla inglese. Non solo, tutta la storia si sta riconfigurando secondo schemi culturali. I Club anglofoni, e le loro élite, hanno del resto sempre pensato in termini di civilizzazione…

Tutti i professorini che distillano numeretti, sono plasmati dalla civilizzazione anglofona. Senza diversità. Come gli ostaggi dei Paesi vinti ai tempi degli antichi romani sono diventati altro dai loro padri. La globalizzazione è una fase del conclusivo consolidarsi di un impero universale anglofono. Persino i canzonettisti che moralizzano dai palchi sono emanati dalla identica cultura.

Internet completa un processo d’omologazione anglofona di lingua, cinema, canzoni, moda.

L’Impero degli anglofoni è universale, nel senso che annienta ogni diversità, plasma i vari popoli in consumatrice plebe indistinta. Nel gran parlare di Internet s’è dimenticato che il più potente stimolo, dopo le guerre, alla crescita americana è venuto dagli immigrati. Sono la plebe cosmopolita, che veste in blue jeans come una volta vestivano solo i contadini americani. E come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore finto musica. Anche perciò la società multiculturale è un’idiozia. Il collante tra l’immigrato e le nazioni che l’ospitano anche in Europa non è né la cultura dell’ immigrato né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, tv, dischi, computer.

Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l’inglese.”

Al pragmatismo anglo-americano possiamo ricondurre il modello della “neolingua” di cui parla George Orwell nel suo profetico romanzo “1984”. Orwell ipotizza che in un futuro prossimo, nell’anno 1984 (il romanzo è stato scritto nel 1948), la Terra risulti divisa in tre grandi potenze totalitarie, perennemente in guerra tra loro: Oceania, Eurasia, Estasia.

L’Oceania, con capitale Londra, è governata da un onnipotente partito unico con a capo il “Grande Fratello”, personaggio invisibile, che tiene sotto controllo la vita di tutti i cittadini. Uno degli strumenti utilizzati per lo scopo è la “neolingua” (newspeak) che semplifica il linguaggio, con una riduzione del lessico e una costruzione sempre più essenziale della fraseologia; si perdono così le varie sfumature di significato e si omologano idee diverse. Obiettivo è semplificare e impoverire al massimo le capacità di pensiero: alla riduzione dellepotenzialità espressive corrisponde una contrazione del livello critico e si produce un annichilimento nelle possibilità di astrazione e di giudizio, fino a raggiungere una sonnolenza delle anime, private della capacità di riflessione e di analisi.

Proviamo a pensare ancora alla nostra lingua; il modo congiuntivo è sempre più vilipeso e trascurato. Che cosa potrebbe succedere se sparisse definitivamente il modo congiuntivo, il modo della possibilità?

Recentemente abbiamo potuto leggere le trascrizioni di intercettazioni telefoniche relative a scandali variamente denominati: calciopoli, savoiagate, bancopoli, ecc. Abbiamo verificato che alcuni detentori di un qualche potere mostrano, attraverso l’uso di un infimo e becero linguaggio, di avere un acceso disprezzo per le persone, gli uomini vengono considerati propri servi e le donne semplici prostitute. Il guaio è che il linguaggio becero di principi, banchieri, politici, e dirigenti sportivi, individui che ricoprono ruoli di responsabilità, con funzioni pubbliche, contribuisce al degrado drammatico del costume civile. Quei soggetti sembrano muoversi con una totale indifferenza etica e alimentano la dissoluzione di valori morali.

Diventa perciò evidente quanto possa essere importante per un bambino, per un ragazzo, accedere al mondo del bel linguaggio, di un’eloquenza che tenda alla bellezza e non semplicemente all’uso di uno strumento meccanico di comunicazione.

Poter recitare Shakespeare, Lessing, Leopardi, Pascoli, Brecht permette di accedere alla regalità e alla potenza creatrice del verbo, della parola.

Nel corso che tenne agli insegnanti della prima scuola waldorf2, Rudolf Steiner indicò una serie di esercizi per scoprire, attraverso l’ascolto e la dizione, come i suoni dell’alfabeto muovono e danno forma all’aria che ci circonda.

E’ importante poter sperimentare la delicatezza della L, l’incisività del sibilo della S, della capacità di movimento della R o la morbidezza della M; allo stesso modo è importante percepire la musicalità della diverse vocali che manifestano le emozioni e i sentimenti del nostro mondo interiore, la gioia e il dolore.

Pensiamo al senso di meraviglia che manifesta una A, al senso di paura che esprime la U o l’energica indicazione di una I.

Nella scuola, il lavoro propedeutico alla recitazione, le filastrocche, gli scioglilingua, gli esercizi di dizione danno la possibilità di risvegliarci a un mondo ancora poco conosciuto e misterioso, ma che frequentiamo abitualmente; permette di aumentare la consapevolezza di ciò che stiamo dicendo fino ad elevare la parola ad arte, in grado di rendere più mobile e consapevole il pensiero.

 

Teatro e coscienza

Durante un seminario per attori3, nel 1921, venne rivolta una domanda a Rudolf Steiner: “Come si presenta al ricercatore dello spirito l’evoluzione della coscienza nel campo dell’arte teatrale e quali compiti se ne traggono per una futura necessità di evoluzione per l’arte drammatica e per coloro che vi partecipano?”

In quella domanda si coglieva un certo timore circa la possibilità che le forze creative dell’artista potessero essere offuscate da uno sviluppo della consapevolezza di sé e della propria coscienza. Rudolf Steiner sottolineò che la tendenza evolutiva verso una coscienza di sé, sempre più ampia e chiara, avrebbe necessariamente dovuto essere accompagnata anche da un cambiamento dell’essere dell’attore e dell’arte teatrale.

E’ vero che l’attività razionale-analitica del pensiero è in grado di offuscare quel che definiamo artistico; l’arte non può essere regolata in alcun modo dal raziocinio.

E’ anche vero che l’uomo, da essere creato, per sviluppare il proprio essere creativo e creatore, dovrà sempre più ampliare la propria coscienza; dovrà far crescere e sviluppare le forze della propria anima che non sono solo pensiero ma anche sentimento e volontà. Se il compito precipuo dell’uomo, in quanto uomo, è quello di espandere e manifestare la propria umanità, dovrà sempre più andare verso una dimensione dell’Io che superi il proprio Ego, per entrare in uno spazio e in una dimensione sociale che contempli, accolga e condivida l’umanità altrui e l’umanità tutta. L’Io dovrà evolvere a gradini superiori, per accedere e comprendere le realtà che pervadono il mondo sensibile attraverso lo sviluppo delle capacità di immaginazione, ispirazione e intuizione.

L’essere creativo e l’essere consapevole sono due aspetti che si compenetrano, arricchiscono e completano l’Io individuale.

E’ interessante vedere come, anche nella relazione con l’arte teatrale, si è sviluppata la vita psichica e la coscienza dell’uomo.

Nelle antiche culture l’uomo era un essere la cui identità era assimilata a quella del gruppo sociale di appartenenza, alla sua comunità, al suo popolo, non ancora individualizzato; il suo destino veniva intrecciato dalle mani degli dei.

Troviamo una reminiscenza di questa realtà nelle mitologie a noi più vicine. Nella mitologia dei popoli del nord ci sono le tre Norneche tessono la trama e l’ordito della vita degli uomini. Con gli stessi compiti troviamo le Moire tra i Greci e le Parche tra i Latini.

I poeti erano coloro che, per manifestare il canto e la poesia, dovevano trovare un canale diretto con le divinità che presiedevano alle attività artistiche.

“Cantami o Diva, del Pelide Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi…”

Con questa invocazione inizia l’Iliade di Omero.

Nell’antica Grecia, fino a un certo periodo, non esisteva ancora un termine, una parola che indicasse quello che oggi intendiamo con voce della coscienza, con coscienza morale; i filologi hanno rilevato che un termine simile non era ancora stato coniato in alcuna lingua antica.

Significativo può anche apparire la nascita del vocabolo “persona”, presso i Latini. Persona era la maschera portata in scena dagli attori nei teatri dell’antica Grecia e d’Italia. Nella maschera i tratti del viso erano esagerati, e la cavità della bocca era conformata in modo da amplificare il suono della voce, per raggiungere il vasto pubblico radunatosi in ampi spazi. In seguito con “persona” si andò ad indicare l’uomo, l’uomo attraverso il quale una realtà risuonava, per-sonabat.

Oggi possiamo sicuramente affermare che nell’uomo e attraverso l’uomo risuona una realtà interiore, una realtà psichica e spirituale sempre più individualizzata: la dimensione dell’Io umano. Un tempo quella realtà era esterna all’uomo stesso. In tutte le antiche leggende, nelle mitologie troviamo mostri, buoni Numi, esseri diabolici e divinità che accompagnano, ostacolano o guidano l’uomo nelle sue vicende terrene.

Possiamo cogliere una evoluzione tra il fuori e la sua interiorizzazione, in un passaggio che ci aiuta ad afferrare la nascita della voce della coscienza, guardando la tragedia di Oreste in Eschilo (458 a.C.) e in Euripide (408 a.C.), rappresentata in modo diverso a una distanza di pochi decenni.

Ricordiamo brevemente la trama:

Agamennone, re di Argo e di Micene, durante una battuta di caccia, aveva provocato Artemide, la quale perciò impediva alla flotta achea di salpare alla volta di Troia. L’indovino Calcante decretò la necessità di offrire in sacrificio alla dea, per placarne le ire, la figlia di Agamennone, Ifigenia. Al ritorno dalla guerra di Troia, Clitennnestra, moglie di Agamennone, con l’aiuto dell’amante Egisto, uccide il marito. Elettra, figlia di Agamennone e Clitennestra, preoccupata per la sorte del fratello Oreste, lo mette in salvo presso Strofio, re della Focide, marito della sorella di Agamennone. Oreste divenuto adulto, decide di tornare ad Argo e di vendicare il padre. In seguito al matricidio ad Oreste appaiono le mostruose Erinni, spiriti della coscienza, che lo perseguitano.

Pochi decenni dopo, in Euripide che tratta lo stesso soggetto, c’è l’uomo che si strugge nell’udire la voce interiore della coscienza. Euripide comincia a parlare di una coscienza che sorge dalla propria interiorità.

In Eschilo vive ancora la capacità di visione del mondo astrale, presente nelle antichissime civiltà e che va ormai spegnendosi; è la visione di un mondo che circonda la realtà sensibile e, in relazione con la vita psichica dell’uomo, assume sembianze diaboliche o angeliche.

Quando sorge la coscienza interiore, la coscienza morale individuale, il mondo astrale viene occultato4.

Possiamo leggere i segni di questo cambiamento di coscienza, nel passaggio di consegnetra Platone (427-347) e Aristotele (384-322), appena posteriori ai due poeti tragici.

Un’immagine estremamente significativa ci viene donata da Raffaello, nella “Scuola di Atene”. In questa rappresentazione pittorica troviamo l’Accademia, la scuola greca, dove sono presenti gran parte dei filosofi del tempo, intenti a discutere. Nel centro della scena, Platone e Aristotele sono ripresi in un colloquio. Il primo rivolge l’indice verso l’alto, e il secondo fa un cenno verso il basso.

Platone che ha forgiato il bellissimo termine educazione (tirar fuori), è l’ultimo iniziato della tradizione orientale; aveva ancora un’esperienza diretta e reale dei mondi spirituale e ne parlava come “mondo delle idee”. Il mondo delle idee di Platone non era un’astrazione, era una visione.

La lingua greca, nel suo lessico, connetteva strettamente e unificava il visibile con il conoscibile. “Eidos- idea” ha la stessa radice della parola latina e italiana “video – vedere”.

L’idea di Platone è una visione-percezione spirituale, come gli stessi “Veda” indiani, il testo della “grande visione”, che sono stati accolti per esperienza diretta.

La realtà è il mondo delle idee, mentre il mondo fisico non è altro che un’ombra, una manifestazione spuria, è maya, illusione.

Aristotele invece, che ha segnato lo sviluppo del pensiero occidentale, si rivolge al mondo dei sensi, della materia; parte dalla materia per trovare lo spirito. Aristotele riconduce la dualità spirito-materia a un’unità inseparabile.

Platone passa il testimone al suo allievo, con la consapevolezza che l’umanità stava andando verso una nuova epoca, dove si sarebbero perse le capacità di visione del mondo sopra-sensibile, per la conquista di un pensiero individuale, in grado di sostenere lo sviluppo della coscienza dell’Io, per far sorgere la coscienza come custode dell’Io, come voce divina dell’interiorità.

E’ il percorso della conquista della libertà.

E’ l’immagine della fiaba, dove l’uomo deve “andare via di casa”, “perdersi nel bosco” e ritrovare la strada con le proprie forze.

L’arte accenna il suo inizio dalla veggenza di un mondo superiore, fino ad essere afferrata dall’interiorità umana e divenire sua manifestazione creativa.

Facciamo ora un salto di una ventina di secoli, e ci ritroviamo nei teatrini inglesi del XVI secolo, quando quei luoghi erano disprezzati dalle classi superiori, ed era più distintivo frequentare le lotte tra galletti. In quei teatri si mangiava e beveva e quando la rappresentazione non era gradita si scagliavano sul palcoscenico avanzi di cibo. Proprio in quegli ambienti, davanti a spettatori appartenenti agli infimi strati della popolazione londinese, si rappresentarono per la prima volta le grandi opere shakespeareiane.

William Shakespeare rappresenta, nelle forme più diverse, gli impulsi che scaturiscono dall’intimo dell’Io umano. In Shakespeare l’Io è per se stesso un mondo, un mondo indagabile. Nel cogliere con evidenza il proprio Io, è anche in grado di astrarsi da esso per penetrare nell’altrui individualità. Otello, Re Lear, Amleto sono figure immerse nella quotidianità della vita, con propri pensieri e sentimenti, osservati dal drammaturgo e rappresentati.

“Essere o non essere…” è il tema che continua ad accompagnare l’uomo che ancora cerca risposte e soluzioni, e che può scorgere solo nella solitudine della propria intima ricerca.

Un salto ulteriore e arriviamo al secolo scorso, appena concluso e a noi vicino.

Il mondo della ricerca nell’ambito del teatro è stato rivoluzionato dalla presenza di due figure: Konstantin Stanislavskij (1863-1938) e Jerzy Grotowsky (1933-1999).

Stanislavskij, forte oppositore della tradizione, elaborò un metodo, descritto nel testo “Il lavoro dell’attore su se stesso”, dove pone l’attore al centro del processo creativo: il suo compitonon è infatti quello di recitare, bensì quello di essere se stesso, dopo essersi calato interamente nelpersonaggio. L’interprete non può essere finto: deve ricercare la “credibilità”, la “verità”. Questa si può ottenere rivivendo i sentimenti del personaggio attraverso i propri, ricostruendo il mondo interiore del personaggio sulla base del proprio mondo interiore. La via per la condizione creativa dell’attore è una via cosciente, verso il misterioso mondo della propria anima.

Nel 1947 nasce a New York l’Actor’s Studio che, utilizzando il metodo Stanislavskij, aiuta giovani attori nel loro percorso di formazione: Marlon Brando, James Dean, Jane Fonda, Julia Roberts, Meg Ryan, Robert De Niro, Whoopi Goldberg, Tom Hanks…

Stanislavskij intrecciò due linee fondamentali: la linea del lavoro dell’attore, nel teatro e la linea del lavoro su di sé, nella vita.

Grotowsky comincia da dove Stanislavskij era arrivato, nella linea della vita, per andare oltre lo spettacolo. Nel 1968 fu pubblicato il suo “Per un teatro povero”, diventato subito un indispensabile riferimento per i giovani e per i rivoluzionari del teatro. Povero per Grotowsky equivale a essenziale. Il teatro povero non è un teatro semplificato e rinunciatario, ma un teatro realizzato da persone in cammino verso l’essenza.

“L’essenza: etimologicamente si tratta dell’essere,dell’esserità (ing. be-ing). L’essenza mi interessa perché non ha niente di sociologico. E’ ciò che non si è ricevuto dagli altri, ciò che non viene dall’esterno, che non si è imparato. Per esempio, la coscienza è qualcosa che appartiene all’essenza; è del tutto differente dal codice morale, che appartiene alla società. Se infrangi il codice morale ti senti colpevole ed è la società che parla in te. Ma se fai un atto contro coscienza provi un rimorso, qualcosa che è fra te e te, non fra te e la società. Poiché quasi tutto ciò che possediamo è sociologico, l’essenza sembra poca cosa, ma è nostra.”(Il Performer, di J. Grotowski)5

Il teatro povero era l’antagonista di quello che Grotowski definiva il “teatro borghese”, colluso con il potere, manipolatore e generatore di realtà illusorie. Si schierava contro il teatro “degenerato” dello show, dello spettacolo, per stimolare l’uomo nella ricerca dell’essenziale.

Della fine degli anni ’70, ricordo un documentario dell’Odin Teatret guidato da Eugenio Barba, di grotowskiana formazione, che incontrò la tribù degli Yanomani, con la quale interagì in “atti teatrali”, attraverso la gestualità, il movimento, l’essenza del proprio essere. Un gruppo di attori norvegesi e danesi incontra gli indigeni dell’Amazzonia.

Quando si coglie la propria essenzialità umana, si può abbracciare l’umanità tutta.

Torniamo ora al motivo del nostro tema: fare teatro a scuola. Sempre più vediamo giovani e meno giovani privi di riferimenti nella ricerca di un senso al proprio essere nella vita e nel mondo. Si rincorrono freneticamente modelli consumistici proposti con altrettanta frenesia dai media. Non trovando nulla, tanti provano poi con l’alcool, le droghe, il sesso, la violenza, ritrovandosi in una sorta di girone infernale. Meno sentono la possibilità di sviluppo e di crescita coltivando le qualità interiori del proprio essere, tanto più saranno costretti a cercare equilibrio e benessere altrove, senza trovarlo.

Ecco che allora diventa essenziale, in un processo educativo, curare la relazione del bambino non solo con il mondo fuori di sé, ma anche e soprattutto con il suo mondo interiore. La scuola ha il compito di permettere al bambino di trovare un ponte con il mondo e, ancor di più, con il suo essere più profondo. Attraverso l’attività teatrale il bambino viene costretto a stare, per un certo tempo, nell’altro da sé; per poter realizzare questa necessità, dovrà essere nella massima condizione se stesso.

Questo richiede una grande autodisciplina: il bambino sarà in grado di far vivere il suo personaggio se riuscirà a calarsi in se stesso, e nella solitudine del suo essere, dirigendo la sua enorme emotività, controllando le sue ingenue pulsioni istintive presenti nell’ancor giovane anima, potrà far emergere l’altro da sé.L’incontro del bambino con se stesso, con la sua interiorità, con il suo Io, di cui ne potrà cogliere crescendo la grandezza, la potenzialità, la ricchezza creativa e creatrice, ritengo sia il valore fondante del fare teatro a scuola.

 

 

1 Geminello Alvi : “Il secolo americano”, Adelphi; “L’anima e l’economia”, Mondadori

2 Rudolf Steiner: “Arte dell’educazione, conversazioni di tirocinio”, Editrice antroposofica

3 Rudolf Steiner: “Sprachgestaltung e arte drammatica”, Editrice antroposofica

4 Rudolf Steiner: “L’oriente alla luce dell’occidente”, Editrice antroposofica

5 Antonio Attisani: “Un teatro apocrifo”, Medusa